Il pane e la morte
Alimentazione e rituali agrari

dal "Foglio" della dispensa di Amerigo"
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                                                          Il fuoco ed il paiolo

 

 

 

Il fuoco e il paiuolo sono stati per lunghi secoli gli elementi chiave della cucina contadina: nell’età preindustriale il paiuolo, appeso alla catena del camino, bolliva lentamente e dall'acqua salata, con l'aggiunta di lardo o strutto, si ricavava la zuppa. Più sotto si stendevano le ceneri del focolare, anch’esse utili per cuocere patate, pannocchie, cipolle, bietole.

Il camino caliginoso con la sua cappa nera era una specie di condotto astrale che metteva in comunicazione l'interno con l'immensità dei cieli: la befana, i grilli parlanti, i messaggi del vento potevano scender da quest’imbuto e impaurire o portare doni, poi ritornare nel nulla, mentre i vecchi leggevano nella cenere "la ventura".

La casa di campagna era posta al centro di un sistema economico-sociale: la stalla, il fienile, il porcile, il pollaio; poi il forno, che nella mitologia contadina era collocato in una dimensione magica in cui la lievitazione e la cottura del pane, la cagliatura del latte e la fermentazione del vino avvenivano tramite la mediazione di spiriti, i folletti.

La casa contadina di montagna, più piccola e diversa da quella di pianura, aveva anche una camera per l'essicatura delle castagne: il vitto delle popolazioni dell'Appennino emiliano romagnolo consiste in castagne o fresche o cotte arrosto o seccate e ridotte in farina. I "ciacci" (i toscani "necci") costituivano un elemento d’identità, preparati a file tra le tigelle.

La famiglia montanara non conosceva né bicchieri né tazze ma faceva uso di un boccale e di una scodella posti in mezzo alla tavola: "in mezzo sta il boccale e la scodella / il pan in braccio a tavola si porta / e di lavar le mani non importa / o tondo o tovagliol non aspettare / ma di viver si convien secondo l'uso / nettarsi alla tovaglia e mani e muso". Così un viaggiatore verso la fine del '500 descrive i rozzi costumi e le dure condizioni di vita nel Frignano.

Queste ruvide maniere erano connaturate con la fatica di vivere in una terra, l'Alto modenese, di stenti e fatiche "dove carne non si magna / e dove bolle il macco [polenta di fave] in la caldara" (Itinerario di un peligrino incognito).

Tre secoli dopo l'Inchiesta agraria Jacini confermava lo stesso regime alimentare: niente o pochissima carne, pane di farina di castagne, macco, mancanza di vino, minestra di frumento condita con il lardo, molte castagne in polenta, molto granoturco, acqua poco potabile.

I braccianti e i giornalieri in genere formavano la massa dei "malnutriti". I contadini con i contratti di mezzadria consegnavano al padrone capponi a Natale, galline a carnevale, uova a Pasqua, polli a luglio, castagne (due terzi), marroni (tre quarti), l'uva della pergole, le olive... (Palmieri, La montagna bolognese).

Ricercato e caro era il miele; in luogo dello zucchero di canna scarso e costoso si usava anche il mosto d'uva, cotto e non fermentato. Nel "bassopiano", a valle e a risaia, il regime alimentare - in un panorama economico di grandi latifondi e di miserabili casupole di paglia - consisteva in farina di castagne stesa sulla polenta, minestra di pasta e fagioli cotta nell'acqua, in polenta di granoturco lessata o fritta o abbrustolita, in lardo fritto come companatico, in un’arringa affumicata.

Più fortunati i braccianti della costa romagnola che potevano disporre di qualche risorsa alimentare in più: tartarughe, molluschi, lumache, selvaggina di bosco, pesce delle valli, funghi.

Le erbe venivano consumate in grande quantità: radicchi di campo con pancetta e aceto, frittata di cipolla, di cicoria, di gambi di porro, di rosolacci campestri (ciocapiat in Emilia).

La minestra di cipolle e di fave era fra le più comuni: la sopa mata era solo con acqua sale e pane; la sfoglia, per risparmiare, era fatta col minor numero di uova e spesso con nessuna; i tortelli si riempivano con erbe tritate (barbabietole, foglie di rape, rosolacci) oppure con patate e zucca (i modenesi caplett ad zoca erano di sola zucca). Gli gnocchi si preparavano con farina d'orzo e patate e, più anticamente, con miglio.

La monotonia di un regime alimentare assai modesto veniva spezzata nei giorni di mietitura e di trebbiatura, giorni di festa e di allegria collettiva, durante i quali i pranzi assumevano un significato rituale: gli animali da cortile venivano sacrificati per solennizzare la festa. In Romagna, dopo il raccolto del grano, si pranzava con pollo fritto alla cacciatora, pollo in umido quando si seminava, pollo arrosto con grasso e rosmarino quando si faceva il pagliaio.

Oltre ai momenti fondamentali del ciclo lavorativo-stagionale, vi sono quelli del ciclo umano, i rituali familiari: pranzo nuziale, pranzo per la nascita del figlio, pranzo funebre.

Per la nascita si consumano due minestre con uova, formaggio e pane grattugiato e poi pagnotte e cappone; in alcuni villaggi il maschio si festeggia con gnocchi di farina di frumento o di mistura cotti nel latte; la femmina con minestra di lasagne.

Nel complesso cerimoniale della morte si inseriva anche il pranzo mortuario, su una tavola spoglia, con minestra di ceci o, in alcuni villaggi, di lasagne, e lesso di carne. I ceci erano chicchi simbolici della vita che continua oltre la morte; ugualmente il pane, che veniva fatto subito dopo il decesso, poiché indicava la vita nuova e il trionfo sulla morte. Il pane assumeva forme tonde come la piada o la tigella, sulla quale venivano stilizzati simboli solari che nel mondo precristiano erano emblemi della fecondità e della rigenerazione.

L'alimentazione contadina nell'età preindustriale non era solo un fatto culinario privato, ma momento di intensa socialità che si snodava attraverso precisi rituali. Il pane, ancora una volta, campeggia come magico talismano, sostanza vitale, simbolo della luce solare, strumento fecondante che ingravida la terra. Il pane, sole miniaturizzato, lievita e si gonfia, "ingravidato", nel forno che è utero, calore, luce. Esso è simbolo di vita perpetuamente risorgente, della profonda simbiosi tra l'umano e il vegetale (la forlivese "spighetta" assomiglia a una spiga di frumento), è immagine riproduttiva e sessuale, emblema dell'organo riproduttore sia nei pani ellissoidali (femminili) che in quelli di tipo falliforme.

Metafore sessuali sono anche la maggior parte dei dolci contadini come la pagnotta pasquale o il pan di Natale o la ciambella.

I dolci e i pani nascondevano segrete immagini di congiungimento atte a impetrare la moltiplicazione e la fertilità sia nei campi che nelle donne. Come ha rilevato Mircea Eliade nel Trattato di storia delle religioni "l'agricoltura è per eccellenza una tecnica di fertilità... e i morti si accostano ai vivi nelle feste della fertilità, quando le forze della natura e del gruppo umano sono evocate, scatenate". La commemorazione dei morti è una costante delle feste agrarie, in cui morte e riso vivono in stretto rapporto dialettico nel rituale contadino dell'Europa orientale e occidentale. Il riso, come ha messo in luce Propp, propizia il raccolto e la vita dei vegetali (i fiori sbocciano per un sorriso), il sole ride e feconda la natura (le belle principesse nelle fiabe contadine). Nella campagna romagnola la funzione magica del riso veniva messa a frutto anche nel rituale alimentare per far crescere, gonfiare e "crepare" i ciambelloni: le donne aprono il forno e si mettono a ridere e a digrignare i denti, affinché "i ciambelloni vengono con quelle crepature a digrignare, perché allora riescono più belli alla vista ed anco più morbidi da mangiare" (G. Battara, Pratica agraria).

Verso la fine di giugno, nei giorni della mietitura del grano e della "seganda dei fieni" un grande, ininterrotto pranzo rituale veniva accompagnato da un'esplosione di vitalità e di gioia di vivere, in un'atmosfera di eccitata sensualità. Nel giorno della "seganda" i contadini devono mangiare sette volte ricorda Michele Placucci (Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, Forlì,1818): al levar del sole pane e coppa di maiale (panetto), a mezza mattina, carne fritta, uova fritte, fegato fritto di vitello; a pranzo: lasagne, lesso di carne grassa, galletti arrosto; a merenda frittelle e galletti in umido e salame; prima di sera un fritto; a cena insalata, coppa, prosciutto, torta; dopo aver ballato, un arrosto di polli.

Il primo ciclo dei grandi raccolti estivi terminava, dunque, con una concitata festa di solstizio, nel giorno di San Giovanni Battista, momento orgiastico secondo il calendario agrario.

Giornate come queste erano, comunque, assolutamente eccezionali: la quotidiana realtà era costituita dal paiolo che bolliva sotto il camino sempre acceso e dalle ceneri sotto le quali si cuocevano lentamente patate, pannocchie di grano turco e pane (pan cot satta la sèndra). Per "secondo", quando c'era, si intingeva abbondante pane negli umidi (il tocc emiliano-veneto, il bagnol dell'Emilia medio-alta).

Il regime alimentare contadino mancava di varietà e di abbondanza e ben poco arrivava sulla tavola dei contadini che dovevano lavorare per i padroni e gli interessi commerciali cittadini: "bocche da biada" e non "bocche da grano" venivano chiamati gli uomini che lavoravano la terra, utilizzando una categoria alimentare per definire uno stato sociale. Inoltre le carestie e la fame erano un'abituale realtà e, in mancanza di meglio si sacrificavano animali decrepiti spesso immangiabili. In una Cronaca (1544) dell'Appennino emiliano si legge di una famiglia, vinta dalla fame, che uccide l'asina di 26 anni e ne mangia "la testa, le budella, il fidigo". Similmente, la Pratica agraria del Battara ricorda che nel '700, fortunato era chi poteva "aver pan di ghiande e di fave", mentre altri erano ridotti a "pascolarsi nel verno di radici d'erbe" o "macinavano sementi di viti e facevan pane". I villani si sono sempre nutriti con pane di cereali inferiori come l'orzo, la segale, l'avena, il miglio la spelta, mentre ai cittadini era riservato quello di grano.

Il consumo del pane di mistura è testimoniato fin verso la metà dell'ottocento, quando esce a Modena l'istruzione di P. G. Grimelli Metodi pratici per fare al bisogno pane e vino. Vi si legge: "Le farine specialmente dei cereali minori, commiste alle patate fresche o lessate sono acconcie ed opportune..."

Le stesse ghiande bollite e poi ribollite con farina di formentone o di fava si prestavano alla confezione di una buona e nutritiva polenta e minestra. Nei "giorni più lunghi" - come li chiamava Bertoldo - quelli della fame e della carestia, loglio, radici, cardi, foglie varie, marruca cercavano di ingannare i morsi del ventre vuoto. Scriveva nel 1602 il canonico bolognese G. B. Segni nel suo Trattato: "Di segatura sottile d'arbori giovani, come peri, meli, ceriegi e scorze loro in forno e polverizzate... con gramigna, rape e finocchio fermentato si compone una specie di pane che, essendo ben cotto, sostenta i poveri... Di sementi coltivanti, seccati e polverizzati , di castagne, di giande, di farina di ogni sorta di piante e di legumi... si cava una sorta di pane..." Il mais veniva citato dallo stesso Segni come curiosità di cui aveva avuto notizie da una fonte libresca. La fava, oltre che cibo per le bestie, serviva ai contadini come minestra, così come la polenta bianchiccia di cereali inferiori (come quella "bigia" di grano saraceno) che soltanto nel corso del XVIII secolo verrà soppiantata a poco a poco dalla polenta gialla di formentone. Grande importanza aveva anche il miglio con il quale si preparavano anche gli gnocchi (o "strozzapreti").

Dal pane, elemento primario e fondamentale si ricavavano anche minestre e zuppe come il "pancotto", la "tritura" e i "passatelli", tipica minestra pasquale romagnola (pane tritato, uova, midollo di bue, formaggio, noce moscata).

Le minestre e i dolci pasquali erano ricchi di uova, perché l'uovo era ritenuto simbolo di rinascita, di vita aurorale, nucleo stesso della vita perennemente rinnovatesi.

Il Natale non aveva nel mondo contadino la stessa importanza della Pasqua: era una festa solstiziale vissuta nella notte come momento magico dedicato ai presagi attinti alla cenere del grande ciocco (zoc); la minestra era costituita da cappelletti cotti nel brodo di cappone e composta di "ricotta, formaggio, uova, aromi; il tutto avvolta in pasta, detta sfoglia di lasagne" (M.Placucci).

Nella Romagna appenninica si consumava, soprattutto a cena, la "panzanella", fetta di pane inzuppata nell'acqua fredda e condita con lardo, aceto caldo e pezzetti di cipolla cotta; e il "pan dorato" (pan durè), fetta di pane tuffata in brodo o latte, involta poi nell'uovo sbattuto e fritta in padella con lo strutto.

La pasta del pane, dolce o salata, colmava molti spazi dell'arco alimentare: la pagnotta romagnola, dolce e gonfia, archetipo contadino dell'urbanizzato panettone; il "pan di Natale" dei contadini bolognesi, il "pan di zucca" e il "pane d'uva", le "panine" cotte al forno e composte di uova, lievito, zucchero e sale, "ciambelle" e "ciambelloni", i più popolari dei dolci contadini.

L'erbazzone, molto diffuso nel modenese e nel reggiano, ripropone ancor oggi l'antica dialettica dolce/salato: si tratta di una torta di spinaci e bietole condita con lardo e formaggio cotta al forno avvolta da una pasta-foglia, molto affine alla "torta di bietole ben unta con butirro, cacio e ricotta in abbondanza" fatta preparare da Bertoldo a sua madre per il re.

Quasi scomparso è il "sapore", ridottissimo l'uso della "sapa", concentrato di mosto bollito usato nelle frittelle carnevalesche; in declino i sughi, vanto della cucina emiliana, a base di mosto bollito e di fior di farina o di mais, la cui ricetta venne illustrata da G.C.Croce nella Canzona nuova e ridicolosa in lode de sughi.

La zucca conosceva nella cucina contadina una gamma molto estesa di utilizzazioni: nella minestra (caplett ad zoca), come condimento alla polenta, oppure messa in frittata sulla graticola o al forno, come marmellata.

La progressiva eliminazione della zucca (insieme alle rape e alle fave) sta a indicare lo sgretolarsi sempre più rapido del sistema alimentare agrario 'inquinato' e livellato da quello urbano, fondato sulla cucina svelta e leggera. Dopo l'introduzione in Europa delle nuove piante alimentari importate dall'America, la cucina contadina si andò modificando con grande celerità: pressoché scomparsi gli uomini dei campi, spezzati i loro rituali sociali, spenti i forni nei casolari abbandonati, i paioli buttati alle ortiche, l'alluminio ha preso il posto del rame, la bombola a gas ha sostituito il focolare, la legna e la carbonella. Pani e dolci vengono portati dalle città nei villaggi più lontani, i "semifreddi" industriali minacciano l'antico primato del dolce fatto in casa. Anche le nozze, con i loro interminabili pranzi, sono state banalizzate a uno squallido incontro tra le estranee pareti di un qualche pretenzioso ristorante.

Nell'ottocento la polenta, da bianchiccia o cenerina, diventa gialla: il consumo di mais però non è uniforme in tutta la regione: molto forte nell'Emilia del nord, nettamente inferiore in Romagna, dove, infatti, la pellagra non è mai stata quella terribile malattia che imperversava nella Valle Padana.

Verso la metà dell'ottocento, annotava Carlo Berti Pichat, "il villico della Romagna spesso aggiunge pane e pasta di frumento ed anco carne di bue al suo desco festivo. Nei paesi invece dove domina la pellagra, la galletta di mais si avvicenda con quella di segala, e l'acqua pura è la sola bevanda giornaliera". L'alimentazione del mezzadro romagnolo era più consistente ed equilibrata rispetto a quella di un giornaliero o di un boaro della pianura padana, così come esisteva un solido confine alimentare tra l'Emilia e la Romagna basato sull'opposizione castrato/cavallo, pecora/asino, cappelletto/agnolotto. La Romagna nutriva un certo disgusto per la carne di cavallo e di asino, consumata invece in Emilia, e preferiva il pesce non fluviale, con prevalenza di una tecnica di cottura - la graticola - poco diffusa o sconosciuta in Emilia.

La geografia alimentare va rapportata alla geografia sociale: già l’Inchiesta Agraria Jacini sottolineava che "i tipi di vitto cambiano colla diversità dei luoghi e delle classi, secondo la rispettiva loro forza economica". Seguendo la traccia dell’Inchiesta si può dire che nel parmense l’alimentazione "sembra sufficiente per i coloni, non per i braccianti... granoturco in polenta, minestra, erbaggi, legumi, poca carne e poco vino"; in montagna "legumi, castagne e patate, spariscono il pane puro e il vino". Anche nel circondario di Reggio Emilia le condizioni alimentari sono le stesse e i regimi alimentari rispecchiano le diversità fra le categorie sociali: per il colono agiato pane e minestra, e ogni otto giorni carne e vino schietto; per il colono meno agiato polenta quasi tutto l’anno con patate e fagioli; per il bracciante giornaliero sempre polenta e spesso senza condimento, e acqua pura ("A la mateìna far clazion / aqua 'd foss e pan tiron" si cantava). Anche nel bolognese la polenta prevale sugli altri alimenti.

 

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