io e concetta

 

(quartine)

 

 

 

 

 

 

Dall’altrove, ecco da dove arriva: questo non va bene.

Si ricomincia, si perde, si trova l’altro: questo va bene.

Quando leggevo avevo briciole di pane sul corpo

e buste della spesa e tra i piedi delle cose sporche.

 

Così ridevo e citavo le canzoni, mi nutrivo in qualche

modo stando dentro la ciminiera, dentro la ciminiera,

e acquistavo oggetti: dentiere: sacchi di pulci. Così, e due,

facevo pari e patta e non avevo bisogno né di me né di sogni.

 

Già parlavo al passato, sugli apostrofi sapevo tutto:

come molestarli, come farmi avvolgere dalle seppie,

gli origàmi. Dal Giappone proviene tutta una serie

di teiere nuove, maniche destre e sinistre, follie varie.

 

Ugelli, beccucci, saltimbanchi, personalità: vite passate

e future e bulloni, attrezzi, minuteria, utensili:

accozzaglie, ferrivecchi. Manovre. Questo va benissimo.

Gli altri paesi non esistono ancora, compresa la Norvegia.

 

L’anno, mi chiedono. Diciamo il mille novecento 94.

Quindi dal 93 in avanti mi si accumulavano le bustine

sul cuore, perdevo colore, consistenza: mi tradivo.

D’altra parte mentivo se chiedevo chi chiede cosa a chi.

 

I numeri, i pari, erano solo pari, ed esistevano, erano

nel bianco del latte che più importante di tutto il resto

si coagulava, restava secco, non era partecipe. Mi parlava

di foche e ingredienti, come preparare gli antipastini.

 

Giacché, non so se l’ho detto, aspettavo gli ospiti, i miei

ospiti, i cespiti da accumulare sotto i letti. Poi nelle serate

si sarebbe parlato solo di coperte, di copisterie, di celle,

dei prigionieri che non avevano lasciato niente, o poco altro.

 

“Chi erano?” chiedeva Concetta e s’illuminava tutta,

brillava come le lame di tutti i coltelli, non c’erano

coltelli c’era solo il deserto di Concetta che sola nella

cucina assolata si sintonizzava meglio, partoriva.

 

I miei figli! i miei figli! gridavo, ed ero le madri,

tutte quelle madri senza voce, con gli scalpelli

e le corde, la furia delle madri che gridavano

“i miei figli! i miei figli!” e, non viste, sudavano.

 

Studentesse e cibo per topi, trappole, ecco quello

che restava per la strada in quei giorni, non quelli,

quegli altri, quei giorni seguenti, quei calendari

e quei fiori che increduli, entusiasti, appassivano.

 

“Cosa fai?” chiedeva dunque Concetta e io stavo a barare,

a fingere di parlottare a bassa voce quando il volume

ce l’avevano tolto, “bastardi” gridava mia madre, anzi

Concetta, e mi chiedeva che facevo e io rispondevo

 

“sono ossessionato” e lo ero, ero ad uncino, ricurvo,

storto e pieno di composti chimici, fatto d’aria, simile

all’indescrivibile, al corpo morto, e questo corpo morto

continuava a seguirmi, a non servirmi più, così

 

“come ti permetti” sbottai e vergognandomi molto

colpii Concetta al viso, al dente, facendola esplodere,

e prima avevo pianto, m’ero pentito, m’ero reso

inservibile e pratico: “fine” continuavo ad esclamare

 

mentre rabbioso e con le dita piene di buchi cercavo

di porre rimedio, di mendicare qualcosa, un arbusto,

un sollievo, una palla ovale; “non è difficile” pensavo

“privarsi di questo, quello e quell’altro: si resiste”

 

 

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