confusione
(frammento)
La primavera e' ormai arrivata.
L'inizio e' sempre il piu' difficile. Lunedi' scorso ha nevicato. Non mi e'
ancora cominciata l'allergia. Questo sono io. Soffrivo di allergia ai gatti da
piccolo, e anche ai cani, alla polvere, al fieno e al polline. Ida Vacca non e'
un nome inventato. Era una vecchia che abitava a Capri in una grande casa scura
con un enorme giardino abbandonato. Nella casa c'era una stufa gigantesca,
nera, mostruosa. Il nome della vecchia era Ida Vacca, era una conoscente del
nonno. Il nonno conosceva tutti. L'inizio e' sempre il piu' difficile.
Divagare: mio padre guarda le ragazze olandesi che giocano a pallavolo sulla
spiaggia, o a freesbee; le ragazze olandesi stanno a seno nudo, sono bionde e
abbronzate, i loro corpi sono eccitanti, ridono; io guardo le ragazze olandesi,
guardo mio padre che guarda le ragazze olandesi e guardo le ragazze olandesi
che si fanno guardare da mio padre. Non so niente di Ida Vacca, non la ricordo.
Ida Vacca aveva quasi cento anni e per me era gia' morta. Scrivo lentamente,
ogni tanto mi tocco la faccia, frasi brevi, incerte, timide. Come dire, cerco
di venirmi incontro. Ida Vacca per me era morta, girovagavo da solo per la sua
casa bollente ed era una casa morta, gli angoli dei muri erano neri, era tutto
morto li' tranne la stufa. Togliere, pulire. Il senso del giardiniere, come
spuntare le siepi, togliere le spine alle rose. Le radici di certi alberi
grossi che rompono il marciapiede.
A un certo
punto arriva un serpente e ti soffoca, ecco come la vedo io. Sei sul divano a
guardare la tv o seduto sul cesso a sfogliare una rivista di cui non ti frega
niente e arriva questo serpente lungo e stretto e ti soffoca. Tu non lo tocchi
perche' fa molto schifo, e' molto viscido e senti tutto il viscido attorno al
collo. Però poi ti accorgi che non e' cosi' viscido, dopotutto, e lui appoggia
la testa sul tuo collo e s'addormenta, allenta la stretta. Rimane li' e sai che
puo' soffocarti in qualsiasi momento. Divagare oltre, perdersi: gli sbuffi di
fumo, i camini d'inverno; un panorama innevato di villette, chiesette,
steccati, baracche col tetto sfondato dalla neve; il sottobosco; il cielo grigo
e la carcassa di un corvo fra gli aghi di pino; le pigne; la morte; film con
serpenti ne hanno fatti molti tra cui Mamba, di un regista italiano di spot e
videoclip, e Indiana Jones e il tempio maledetto; lui cade giu' dal soffitto e
finisce in mezzo ai serpenti; in Indiana Jones e l'ultima crociata invece
finisce in una vasca piena di serpenti sul treno di un circo e dopo gli esce un
serpente nero da una manica. I numeri dei paragrafi non devono esserci, ho
deciso: dev'essere tutto un discorso unico.
Scrivi una
cosa. La rileggi. Scrivi un'altra cosa. La rileggi. Scrivi un'altra cosa
ancora. La rileggi. Scrivi la stessa cosa ma cambiando un po' la punteggiatura.
La rileggi. Scrivi la stessa cosa ma cambiando ancora la punteggiatura e
togliendo alcuni aggettivi. La rileggi. Il computer e' piu' pratico, cancelli la
roba direttamente dal video, scrivi tanta roba e poi esci dal Word senza
salvare il file. Esci proprio dal programma Word, non un altro word processor,
proprio il Word della Microsoft, il pacchetto Microsoft Office, perche' e' il
piu' diffuso. Io no, io uso il Blocco Note; e' un file solo, notepad.exe.
L'inizio e' il piu' difficile ma di solito e' quello che viene meglio, e'
sempre il piu' vero. Dopo scatta la fuga, il tirarsi indietro. Poi non si
mantengono le cose, le promesse, perche' le promesse nascono gia' bugie; i
giuramenti, i voti: "Ho fatto voto di non." Ma si accantona, si passa
ad altro.
La primavera
non e' ancora arrivata. Un intervallo e' andare a vedere qualcuno che prepara
da mangiare (se non stai preparando da mangiare tu); tua madre o tuo padre, se
vivi con loro; il tuo migliore amico, se vivi con lui; la tua ragazza o il tuo
ragazzo, se vivi con lei o con lui; tuo figlio o tua figlia; tuo fratello o tua
sorella; tuo nonno o tua nonna, i nipoti, i cugini, i fratellastri: qualcuno;
se vivi da solo, niente; guardare questa persona pulire l'insalata o rompere le
uova, versare la farina, dosare il sale, mescolare la crema, friggere i
gamberetti, bollire le aragoste o sgusciare i fagiolini, pelare le patate, le
cipolle; aprire scatolette, barattoli, sacchetti; usare un contenuto per
riempire un contenitore e ottenere cosi' qualcosa di nuovo. Mischiare,
confondere. Ma si mangia, si passa ad altro.
Altro
esempio: andare dal dentista, aspettare nella sala d'attesa, sfogliare le
riviste, sfogliare una rivista medica, guardare gli altri che aspettano,
estraniarsi, camminare nervosamente per la stanza. Se l'attesa si protrae,
cambiare spesso di posto, borbottare parole incomprensibili a voce bassissima
ma, volendo, udibile, fare ipotesi sulla presunta eta' degli altri che
aspettano, ascoltare quello che dicono, anche solo le parole, sedersi.
Aspettare. La qualita' dell'attesa. Come prendere appunti, confidare un segreto
inconfessabile. La confessione, il parroco. Bisogna assolversi da soli, o
morire. La tabella di marcia. Credo sia perche' mi da' fastidio una lente a
contatto, quella nell'occhio destro. Vedo male, non percepisco. Distolgo lo
sguardo con molto piacere. L'inizio e' il piu' facile: poi vengono i blocchi, i
continui che non ci piacciono, i finali. I muri, i vantaggi dei muri, i muri di
cui parlo, il loro vantaggio e' nell'ignoranza, nel non sapere che sono muri,
ostacoli, cose alte, all'apparenza indistruttibili. Con ai piedi terra smossa,
ciuffi di qualcosa. Le metafore, le distrazioni, le esagerazioni. "Ci vedo
anche al buio," dicono. Dicono: "Vorrei farci dei soldi, con questa
cosa." E dicono: "No perche' vorrei ricavarci qualcosa da questo
progetto." Ripetono: "Vorrei portare avanti questo progetto, secondo
me, credo in." La marea si alza, una frase inutile.
L'urlo
perche' nella fase successiva il processo si complica. Gli strumenti tuttavia
non sono mai difficili, o cosi' difficili. Si pensi all'uso della parola
"divagare". Non posso piu' usare la parola "divagare".
Dovrei dormire, e' tardi. Vorrei qualcuno nella stanza con me che mi dicesse:
"Ma no dai, sono solo le due e diciotto." Oppure qualcuno che mi
dicesse: "Eh si', in effetti sono gia' le due e diciotto." Oppure
qualcuno che mi dicesse: "Come, cosi' presto?" Oppure qualcuno che mi
dicesse: "Ehi, sta' zitto, taci." Oppure qualcuno che mi dicesse:
"Ripetizione." Oppure qualcuno che non mi dicesse niente. Poi mi
guarderei allo specchio diversamente, senza pettinarmi, e direi le bugie nuove,
quelle che mancano, con la pazza voglia di finirle subito. Non so bene quando
chiudere il paragrafo e cominciarne uno nuovo. L'urlo non va bene come titolo.
Forse faccio le cose sbagliate, parlo solo di dubbi. Cerco l'armonia e una
maschera piu' vera.
Il suono
sembra che non debba mai finire e dopo un po' anche se e' sempre uguale sembra
diverso, sale, scende, s'alza, s'abbassa, stride, s'addolcisce, s'ammoscia,
s'inerpica, sbanda, frena, accelera, scivola, scorre, fluisce, si ferma,
ricomincia, esiste, si trasferisce, si trasforma, e' un suono fisso che dopo un
po' da' fastidio, urta i nervi, un tuuu prolungato all'infinito:
"...uuuuu..." all'infinito, dopo un certo tempo sembra che non ci sia
piu', anche se c'e' ancora sembra che non c'e' piu', non c'e' piu'. Altro
esempio: la parola "ripetizione". Non posso piu' usare la parola
"ripetizione". Non so se ce la faro'. Di che cos'e' che ho paura? Non
dovrei usare i punti interrogativi, dovrei dire: "Mi chiedo di che cos'e'
che ho paura," oppure: "Mi chiedo di che cosa ho paura," oppure:
"Mi chiedo che cos'e' che mi fa paura," oppure: "Mi chiedo che
cosa mi fa paura," o cosa mi spaventa, cosa mi atterrisce, cos'e' che
subisco. Inserire parole inutili, essere presuntuosi. Quello che dico sembra
tutt'altro. Mi tocco la fronte, il naso, le labbra, deglutisco, scrollo le
spalle, mi gratto la schiena, sbadiglio, cerco di fare errori che sono belli da
vedere, fuggo piano, faccio le assonanze, i versi, le rime, i ritmi. Non posso
evitare niente. Mancano le quattro risate, non ci sono, vorrei farmi quattro
risate. Ridere di me e dei miei capelli, farmi sembrare ridicolo. Mi vergogno.
Subisco l'imperativo e non ne ricavo niente, lo uso male, non lo sfrutto, pur
non essendo sposato. "Dovresti andare a letto," dice la voce,
"e' tardi, sono gia' le due e quaranta, le tre meno venti." Non so,
non ho una bella sensazione.
Sto
esagerando, ma vado avanti bene. Sto esagerando? Vorrei fermarmi, smettere di
scrivere, ma verrebbe fuori male, sembrerebbe artefatto, una messa in scena.
Una cosa distorta, modificata. Vorrei scrivere altro, ma niente di tutto questo
m'interessa. Non posso fare a meno quindi di restare seduto davanti al monitor
con gli occhi appannati, opponendo resistenza, in cerca di. Dio mio, che
strazio, cheppalle. Sembra tutto fatto apposta. Dici una cosa e subito tac, ti
esce tutto dalla bocca, ti esce il meccanismo dalla bocca, gli attrezzi, gli
utensili, gli aggeggi, si disperde tutto, tutte le viti finiscono chissa' dove.
Quelle piccole viti, quei bulloni. Le rondelle sotto il divano, i chiodi dietro
alla porta della camera da letto, vicino allo stipite. Non mi baso su nessuna
lunghezza, vado cosi' un po' a occhio, alla cazzo di cane. Beg your pardon, sir, pardon my french, man. Vado a
occhio, cosi', guardando piu' su. Cazzeggio come se potessi comandare qualcosa.
Nemmeno La paura va bene come titolo perche' c'e' gia' un libro un giallo Oscar
Mondadori di Laura Grimaldi credo che e' questo il nome che s'intitola La paura
o forse solo Paura e c'e' anche il film Paura con Marky Mark, Mark Wahlberg,
quel thriller di quelli dove c'e' una tipa innamoratissima di un tipo che
sembra perfetto e si rivela poi un matto psicopatico assassino bastardo
dimmerda senza scrupoli, e c'e' una delusione molto forte e poi il
contrattacco, quel genere tipo A letto con il nemico con Julia Roberts o
Killing Me Softly il regista non me lo ricordo con Joseph Fiennes che ha fatto
anche Il nemico alle porte, e' il fratello di Ralph Fiennes. In Basic Instinct
invece c'e' Sharon Stone che e' fuori di testa ma anche Michael Douglas non e' tanto
a posto. Dovrei togliermi le lenti a contatto e cominciare un nuovo paragrafo,
o capitolo, come voglio chiamarlo, un nuovo pezzo, un nuovo inizio,
qualcos'altro. Non ho mica scoperto trucchi, credo nelle cose sbagliate, faccio
quello che posso. "Devo fermarmi un attimo cazzo, prendermi delle
responsabilita'," dicono.
Come ad
esempio la parola "mica". Non posso piu' usare la parola
"mica". Bisogna pensare le cose e dirle in altri modi. Ti costruisci
una trappola e ci cammini dentro, ti fai la tua gabbia preferita. La realta'
virtuale, ti fai la tua cella con vista chissa' dove, le finestre infrangibili.
La notte poi stai sveglio ad ascoltare il nulla, la casa che dorme, molto
d'effetto, le cose che si sfuocano, gli oggetti sempre quelli. Molti saranno contenti,
molti lo ammetteranno: "Ehi, sono contento," rivolti a te, nella tua
gabbia, durante l'orario delle visite. Sono ossessionato, ma e' presto per dire
da cosa. Continuo a mancare, a non essere presente. Mi guardo la maglietta,
sono tutto sporco, mi sono sbrodolato con chissa' che intruglio schifoso. Il
McDonald's e l'hamburger schiacciato, 'fanculo, le patatine gialle, tutto quel
giallo, 'fanculo quelle salsine dimmerda che non sanno di un cazzo. Non mi
sfogo di niente. Sfoglio banconote, do i resti. Mi trituro da solo, butto via
le parti del corpo che credo inservibili.
Comincio ad
avere l'ansia come sempre e posso controllarla solo scrivendo.
"Cazzate!" esclama la voce, "Stronzate, bullshit!" Mi da'
degli ordini, mi esce fuori involontariamente. Sicche' io me ne frego e dico
che eravamo in due in casa della madre, una grande madre rosa nella penombra
sul divano, l'odore di chiuso, io col figlio e il figlio aveva un binocolo,
guardava col binocolo, spiava i vicini. Io non ho mai visto niente, non mi ci
vedevo. Inventava balle di questa che scopava con quest'altro e quell'altro che
aveva tentato il suicidio e questo che faceva la tal cosa, adesso non ricordo
bene, le voci che girano, le balle modificate. Oppure mi diceva che giu' c'era
una tipa di sedici anni che faceva la puttana e si poteva chiamarla, dirle di
venir su. Sul tavolo della cucina c'erano dei tubetti nuovi di latte
condensato. Tubetti lisci tutti bianchi con delle strisce azzurre vicino al
fondo, e il nome del prodotto, e sotto la scritta in piccolo, "latte
condensato". Non c'era sporco, i muri erano bianchi. La madre,
quell'enorme madre rosa, gemeva sul divano, bofonchiava, avvolgendosi piu'
stretta nel plaid, sonnecchiava, era tutto un cumulo che emanava un odore
strano. C'era un gattino bianco e grigio che quando ho dormito li' mi sono
svegliato che era sul mio petto e mi guardava. Il nome del figlio non lo posso
dire per questioni legali, la privacy. L'ho rivisto anni dopo appoggiato a una
moto rosa, una moto da cross, si stava infilando il casco, non voglio
descrivere il suo aspetto fisico. Chissa' se riesco a scrivere anche senza
lenti a contatto. Stava appoggiato li' e credo che non mi abbia visto. Io non
gli ho detto niente, ho pensato a sua madre e a quando lui guardava col binocolo,
e il latte condensato. Poi e' montato sulla moto ed e' partito, era una moto
rosa, mi colpi', non avevo mai visto una moto rosa. Era proprio rosa, cioe' il
colore di base era rosa e aveva delle strisce viola sul serbatoio. Io aspettavo
l'autobus, sempre piu' a disagio, sconfortato. Le strisce viola erano dei
fulmini, erano fatte a fulmine, bordate di giallo.
Credono che
manchi qualcosa, vedono che i conti non tornano. Pensano che sia uno spreco,
buttano via tutto. Rifanno le cose nuove, si fanno le loro cose, rifanno cose
perlopiu' inutili. Non insegnano niente, non portano a qualcosa. Se ti va bene,
bene, se no ti gratti. Ciapa e porta a ca'. L'e' acse'. Non parlo bene il
dialetto della mia citta'. Come al solito, non salto di palo in frasca, voglio
dire che come al solito sbaglio le misure, non e' quello che volevo dire, mi
sono dimenticato quello che volevo dire e ho tentato inutilmente di dire
qualcos'altro, recuperare il concetto, un barlume di. Sono incazzato, sono
incazzato negro. Non posso piu' usare la parola "negro". Salto piu'
in alto di tutti e do all'aria i miei pugni piu' frustrati, urlando piano dalla
bocca serrata.
Essere
affascinanti, sapersi vestire con gusto. Fare gesti eleganti, mantenere un
certo tono, essere all'altezza, risaltare. Spiccare migliori, il fascino della
regolarita' sofferta, l'imperturbabilita', le cose tue stesse che ti si
rivoltano contro e nonostante questo. Rendersi sempre conto di quanto e' tardi,
sono sempre le tre e trentacinque, tac, trentasei, avere timore, paura, essere
intimiditi dai numeri digitali. Basta, mi bruciano gli occhi e non so piu' cosa
togliere.
Molto tempo
fa attraversavo una piazza a piedi ed era sera, ma non tardi, sara' stato poco
dopo le ventidue. C'era il pave', come si chiamano, i pietrini, il porfido.
Camminavo a testa bassa senza pensare a niente e contavo i pietrini, erano
disposti a spicchi, formavano grandi spicchi, partivano dalla chiesa. Sentivo
voci, sentivo cani. Solo, volendo sentirmi ancora piu' solo, non entrai in
nessun bar; premevo e spingevo. Entrai invece nel bar xyz, il nome vero non
posso dirlo. Tremavo ma in modo da nascondermi, da non farmi vedere. "Ho
contato trecento e ventisette pietrini," dissi al barista. "Il
porfido," gli dissi. Quello mi guardava, mi beveva la faccia. Gli dissi:
"Un bicchiere di vino rosso." Li' nel bar c'era il mio amico.
"Vado solo li'," era solito dire, "vado sempre e solo al bar
xyz." Tracannai il vino in un unico, lungo, vergognoso sorso.
"Trecento e ventisette," dissi al barista, pagando; quello mi
scrutava, mi faceva delle cose. Gli dissi di ricordarsi dei numeri, trecento e
ventisette. Raggiunsi poi il mio amico al tavolo, il mio amico era sotto il
tavolo e sudava in silenzio. Divagammo, ci fu un dialogo. Ricordo la sua
faccia, quel suo non avere piu' occhi, piu' niente; e la sua bocca l'aveva
vomitata qualcun altro, o cosi' mi sembrava, cosi' era. Per cui:
"Alzati," dissi a chissa' chi, e cambiai spazio, uscii fuori per la
prima volta, dritto deciso, camminando all'indietro.
Dopo
l'inizio viene il vero inizio; dopo il vero inizio viene il vero vero inizio;
dopo il vero vero inizio viene il vero vero vero inizio; dopo il vero vero vero
inizio viene il vero vero vero vero inizio; dopo il vero vero vero vero inizio
viene il vero vero vero vero vero inizio, e cosi' via; il vero inizio e' quindi
il finale, ed e' il piu' difficile. Per questo viene piu' facile partire dalla
fine. Spiego meglio: i videoregistratori, i loro pulsanti, o bottoni, e le dita
che li schiacciano: non e' avanti e indietro bensi' dentro e fuori: i nastri
non si riavvolgono mai. Non mi concedo niente, sono anni che non faccio una
bella vacanza. Un viaggetto, una gita con una persona affettuosa.
"Concedere", non posso piu' usare questa parola; non posso piu' usare
la parola "concedere". Perche'? avrei forse voglia di partire?
perche' mi chiedo se ho voglia di partire? perche' sono anni che non mi concedo
niente? perche' vado in giro da solo? perche' cerco le parole giuste? perche'
non cerco niente? perche', in fin dei conti, sono un po' di tutto? perche' sono
tutto uguale? perche' mi capisco, no, non mi capisco, mi vedo, perche' mi vedo
e non mi capisco? amo l'ozio, mi vien facile tenere chiuse le porte, svolgo
un'occupazione inusuale, fotografo dighe, sono un fotografo di dighe; in
particolare le ringhiere, i camminamenti, le passerelle; certi punti sospesi, i
muri lisci e i loro buchi; la geometria che ci fa apparire squadrati quali
siamo e calcolarci l'area da soli, il perimetro, la radice quadrata di quando
siamo in tutti i nostri modi: tangenti, paralleli, perpendicolari o elevati
ciascuno alla potenza dell'altro.
Ecco, mi
sono incartato, sparisco da qui, torno nella casa dove mio padre m'insegno' il
gioco del poker. Fuori gelava, si formava il ghiaccio nella Coca-Cola. Erano le
feste: per l'ultimo dell'anno Graziano, l'amico di famiglia, faceva scoppiare
petardi e fuochi artificiali con l'entusiasmo sordo e muto di un bambino.
Commerciava in colori, articoli di cancelleria: blocchi, penne, quaderni,
matite, evidenziatori, post-it, gomme, temperini, pennarelli. Papa' m'insegnava
il gioco del poker: la doppia coppia vale piu' della coppia, il tris vale piu'
della doppia coppia, la scala vale piu' del tris; la scala all'asso vale piu'
della scala al re, e il full, il colore eccetera. Mamma mi dava gli spicci per
giocare. "A poker si gioca coi soldi veri," diceva papa'. Cinquanta
lire per l'apertura e puntata massima di cinquecento lire. Poi cercavi gli
incastri. "Buio," diceva papa', ed e' quando punti prima di vedere le
carte; a volte, per scherzo, diceva "burro" al posto di
"buio": papa' scherzava spesso con le parole. Papa' fumava molto, la
stanza si riempiva di fumo; Giulio, il fratello (il nome e' di fantasia), dopo
che giocavamo spalancava le finestre, prima di andare a letto, per arieggiare,
mandar via il fumo. Entrava il gelo, l'aria nera di montagna. Poi spegnevano le
luci e il frigo non mi faceva dormire.
Sono passati
un po' di giorni, non so quanti di preciso, comunque e' un numero dispari: tre,
forse, o forse cinque, o sette. Ho l'abitudine di sfogliare il giornale al bar,
al mattino, quando faccio colazione; mangio una brioche salata leggendo il
giornale e sbriciolo sulle pagine, a volte casca una briciola grossa proprio
sull'articolo che sto leggendo e mi copre una o piu' parole, allora spazzo il
giornale con la mano, butto le briciole per terra: sono un maleducato. Leggo
pigramente, cosi', per svago, per rilassarmi. In questi giorni le notizie non
sono state delle piu' allegre, una ragazzina accoltellata da uno psicopatico,
un tipo e una tipa che hanno pestato a morte l'ex tipo della tipa, un tipo che
inavvertitamente ha dato fuoco a tutto il palazzo giocando con un accendino,
gli hanno preso fuoco le tende, uno che ha avuto un incidente sul lavoro, l'ha
investito una ruspa a marcia indietro, e' morto, sul cadavere non sono stati
trovati segni visibili. Dopo che leggo il giornale saluto il meccanico che
incontro sempre al bar, quello a cui avevo portato lo scooter una volta e che
m'aveva detto che non c'era piu' niente da fare, "Questo scooter e' un
cesso, non vale la pena di farci un cazzo," aveva detto. Da allora tutte
le mattine lo vedo al bar perche' ho cominciato a fare colazione al bar sotto
casa e lui tutte le mattine mi saluta, ha la barba lunga e gli occhi azzurri che
sembra che guardano chissa' dove, l'espressione un po' cosi', non tanto
sveglia. La Rosa, la barista, e' una signora che negli anni ottanta conosceva
Bruno Lauzi. "Eh eh eh," ridacchia la Rosa; va dal parrucchiere, si
stira i capelli; dice che il Natale qui nella nostra strada non esiste;
"Io sono qui dall'84 e il Natale non e' mai esistito qui," dice, ma
non sembra molto drammatica. Io parlo poco, sono spesso in ritardo, e anche se
sono in anticipo mi sento sempre in ritardo. Pero' sorrido.
Sto qui, trovo
molto divertente darmi del "sacco di merda". Chi ben comincia e' a
meta' del resto, dicono. Cioe' di quello che manca ne avanza meno. Cosi' sono
tranquillo anche stringendo i pugni, stringo il pugno, lo alzo e lo porto alla
testa, mi strappo una ciocca di capelli, la mangio, mangio il secco che cresce:
una cosa impossibile ma sopportabile. Tutto sommato mi piaccio abbastanza ma
vorrei di piu', mi piacerebbe piacermi di piu' o almeno essere io a guardarmi.
Sbatto dappertutto anche da fermo, sono troppo goffo, lo sento dal di dentro.
Invece lo specchio e' un virus, una malattia: ci vai davanti e guardi dentro,
guardi in quel vuoto e dici: "Io sono cosi'." E con te parla anche
quell'immagine che e' meno di niente, neanche un riflesso: solo il rovescio di
un dritto che non esiste. Dopodiche' mi sono alzato e sono andato a guardare lo
specchio, ma per altri motivi.
Ho trovato
il sangue, sprizzava caldo da un certo buco. Era reale, era fisico. "Ehi,
sangue," l'ho apostrofato, aggressivo, "l'unico vantaggio che hai e'
che puoi gocciolare." Lui zampillava e non diceva niente. Io allora ho
alzato la testa dallo schifo, ho guardato intorno: era Hollywood ed era tutto
vero. Il cinema m'impressiona, mi riporta alla realta'. Che poi di tutte le
cose che scorrono, cioe' tutte, il sangue e' la piu' lenta. "Uh,
guarda," dico alla mia coppia, cambiando discorso, "c'e' luna
piena." E la indico, stendo il braccio, punto il dito, guardo. Non ci vedo
niente di argenteo, sono poco romantico. "Vampiri," sussurra la voce,
e ride. "Vampiri." Ma anche loro sono grigi, non fanno paura, il
sangue che succhiano e' trasparente, non e' questo sangue, non e' il nostro. E
la luna resta piena e non guarda nessuno, non ha niente da dire: e' un
soprammobile, la paragono a un vaso. Allora i due della mia coppia fissa mi
guardano strano, sono dubbiosi, mi chiedono se conosco una certa canzone.
Stringo il laccio, io, e non sento, sono distratto, troppo occupato a non
ricordare niente, a ricucire la ferita sbagliata.
Salve, sono l'Attore e anche l'Attrice, sono nudo, sono pronto, sono quello che voglio sentire, sono scintillante, sono più vivo di tutti, sono più morto che vivo: sono io, siamo noi, sono tutti: che vergogna. Sono il dottore, sono la mano, sono uno strumento chirurgico, sono il taglio, sono... ah... il sangue! Per gli dèi, il sangue! Sono chi ride e chi piange, sono chi batte le mani, sono antico, sono passato di moda, sono finito, sono un pesce, sono un'arma, sono un animale, sono nuovo, sono la bocca di tutti, sono tutt'orecchi, sono le mie orecchie, sono tutti i sensi. Sono, sono, sono... Sto qui e là, sto da tutte le parti e vi vengo a dire, prego, accomodatevi, sedetevi in poltrona, e mi prendo alla lettera, prego, mi accomodo, sprofondo in me stesso: nella poltrona, mi chiudo, mi offro da bere, mi accendo una sigaretta che sono io, mi fumo, mi consumo e aleggio più su, mi disperdo. Qualche domanda? Silenzio, le domande le faccio io, me le faccio io, non le fa nessuno o nessuno risponde. Torni solido? Chi, io? Ahimè, sono un folle, sono la carta che manca, la carta che canta, il riso che abbonda, le risa, le rose, le cose, le mie cose e le vostre, le nostre, i posti, i tempi, i lampi, i campi di fragole, la voglia, la porta, la morte, la morta: io. Chi mi ha ucciso? Nessuno, sto solo dando spettacolo. E maschili o femminili i tuoi occhi mi stanno sulla pancia e anche dentro, rimescolandomi tutto/a, ma in questo monologo non si parla di sesso.