in caso di necessità rompere il vetro

 

(frammento di federico blò)

 

 

 

 

 

 

Suadente, prodigioso adagio, sistematico e vegetale assisteva all’esternazione di sé, coordinato ed educato nella sala, sbiancato fra le appliques e affatto romantico, con le persone che portavano i loro volti al guinzaglio, i bicchieri, tutti quei bicchieri, mi dicevo devi essere ciò che ami, non ciò che ama te, finché la sua pancia, atroce e dolorosa, e tutto questo parlare fra il fumo, e andò, andò per la sala per raggiungere un tavolo, il suo tavolo, andò per la sala, camminò, camminò spedito per raggiungere il suo tavolo, ma a metà della stanza, proprio sotto al lampadario, un grosso lampadario dorato con ventiquattro bracci, e alla fine di ciascun braccio tre bracci più piccoli, e alla fine di ciascun braccio più piccolo altri tre bracci ancora più piccoli, e su tutti questi bracci, i grandi, i medi e i piccoli, una candela bianca, e tutte le candele erano accese, e proprio sotto a questo lampadario, a metà della stanza, si svegliò, e si fermò, e sbatté gli occhi, e fu sveglio, fu fermo in piedi, sveglio, al centro del treno, nel vagone ristorante.

 

Desiderava un caffè, inesplorato fra le lampade alllineate a destra, una tossiva, fuori una radura brulla correva veloce e asociale, si voltò verso il bar, nessuno, come nessuno era nella sala ristorante, solo le lampadine furiosamente allineate, una con la tosse, la voglia di caffè, il ricordo delle candele e uno sbatter di ciglia, e ora questo treno. Evidentemente era in viaggio, ma non ricordava di essere partito, né di avere qualcosa di urgente da sbrigare tale da averlo messo su un treno con quelle tazzine di plastica che tremavano sui tavolini, e scivolavano, e d’improvviso sentì il bisogno di svuotarsi la vescica, camminò ondeggiando lungo la trachea della sala ristorante, una porta s’aprì sbuffando, e lo inghiottì.

 

Era un vagone, gli scompartimenti, era notte, i finestrini neri, c’era luce al neon, era tutto grigio, era un vagone tutto grigio, gli scompartimenti, era un treno, un treno nella notte, grigio, tutto grigio con i neon, la tappezzeria grigia, i cuscini grigi, i sedili, gli scompartimenti grigi, i corridoi, le porte a soffietto. Era un treno molto silenzioso, comunque, moderno, molto all’avanguardia, sembrava. Attraversava i vagoni, pensava di essere su un treno di notte, nella notte, e pensava di attraversare i vagoni del treno, di camminare nei corridoi grigi del treno, nella notte, pensava lentamente, camminava, avanzava spedito sul treno, tra i vagoni, le porte a soffietto, finché vide qualcosa, e si fermò a pensare a cosa aveva visto, e si fermò, smise di camminare, si fermò nel corridoio, aveva visto qualcuno in uno scompartimento, e tornò indietro, guardò, e vide qualcuno, lei, una ragazza, una donna, una persona in uno scompartimento. E si fermò sulla soglia, chiuse gli occhi, e la ragazza lo guardava, e sapeva delle cose, aveva capito delle cose, e aspettava.

 

Si sedette di fronte alla ragazza, ma non nella stessa fila, in diagonale, diede un colpo di tosse, la ragazza fece per sistemarsi la gonna, le dita sottili con la traccia lebbrosa e consumata d’uno smalto, mani mobili e tragiche, che presero a spiegazzare un risvolto della gonna. Doveva sapere. Chiese: dà noia se fumo? La ragazza rispose che non si poteva fumare, no, proprio non si poteva. Lui disse, quando arriveremo domattina non vedo l’ora di prendere un bel caffè, e fumarmi una sigaretta, e mentre lo disse pensò a Stalin, a cose ordinate e rigide, all’acciaio, lo disse pensando all’acciaio. La ragazza lo fissava, aveva la pelle chiara e gli occhi neri e mobili, fissava lui e fissava se stessa nel vetro e fissava lui e fissava se stessa e non parlava. S’improvvisò primavera e si fece sbocciare un sorriso e si fece d’improvviso autunno e ritrò il sorriso a sé, e non parlava. Evidentemente sapeva. Torceva la caviglia, le gambe accavallate, torceva e dondolava piano la caviglia e anche lui accavallò una gamba, ma poi si trovò scomodo, e lei sapeva, e lui disse: sai dove stiamo andando? Fuori un finestrino nero scorreva e scorreva fra le facce grigie dei sedili e le loro facce bianche e lei disse piano tre concetti, slegati: sono scomoda; non mi ricordo niente; hai una sigaretta?

 

“Questi sedili sono comodi” disse lui.

“Non capisco quello che dici” disse lei.

“Questi sedili sono comodi” ripeté lui.

“Non capisco quello che dici” ripeté lei.

“Mi dispiace, non ce l’ho, non fumo” disse lui.

“Non mi ricordo niente” disse lei.

“Anzi, fumo, ma non ce l’ho, non abbiamo sigarette” disse lui, come per.

“Sono scomoda” disse lei.

“Non capisco quello che dici” disse lui.

“Hai visto, sul treno non c’è nessuno” disse lei.

“Non ho visto tutto il treno” disse lui.

“Io ho visto tutto il treno, non c’è nessuno sul treno” disse lei.

“E’ un treno molto bello, è un treno moderno” disse lui.

“E’ un treno di quelli nuovi, un treno comodissimo” disse lei.

“Eppure tu sei scomoda, dici” disse lui.

“Scherzavo” disse lei.

 

E lui si fece cattivo, si adombrò, gli vennero pensieri brutti, voltò la testa, si alzò, si rimise seduto, la guardò, aprì la bocca, lei sorrideva, lei era perversa, lei sapeva delle cose, si sentì male, si alzò, la guardò da in piedi, in piedi nello scompartimento la guardava, uscì nel corridoio, guardò il nero fuori dal finestrino, guardò il finestrino nero, guardò il nero, poi guardò lo scompartimento da fuori, lei seduta tranquilla, che sorrideva, lo guardava, e rientrò, si rimise seduto, strizzò gli occhi, strinse i pugni, riaprì gli occhi, riaprì le mani, e la guardò, le sorrise, non era bella, non era strana, e le sorrise, e abbassò lo sguardo.

 

“Allora” disse lui.

“Eh” disse lei, e tirò fuori un pacchetto di Marlboro.

 

In ogni caso si deve arrivare, aveva detto lei, da qualche parte si arriva, ne convennero, e s’accesero una sigaretta per uno, lei con un polso maggiormente socievole, erano comodi nella prospettiva che da qualche parte sarebbero arrivati, fuori le luci andavano e venivano morbide e caute nell’oscurità, morbide che cominciò a piovere. Entrambi fissavano le righe che la pioggia allungava sul finestrino, righe lunghe e tristi, mille lacrime veloci e perdute, disse lei, le competizioni che ci hanno insegnato, disse lui, e annuivano e comunque c’era qualcosa che non andava bene, “qualcosa non va bene” disse lui, ed entrambi si trovarono avvolti e nutriti da un’aria irreale, ho paura, disse lei, e lui si fece rigido, e rimase fermo. Zitto. Passarono il tempo, o fu il tempo a passare loro, e dopo che entrambi erano rimasti incastrati nei rispettivi silenzi s’udirono i passi. Si voltarono entrambi e la porta dello scompartimento s’aprì. Ho paura, disse lei, e lui lo sapeva, e pensava a cose colorate, costumi fosforescenti su pelli bianche, lungo lo scompartimento avanzarono due ragazze giovani, entrambe in tailleur e con i tacchi, appoggiavano qualcosa sui sedili, qualcosa che non capiva, finché arrivarono da loro, una bionda e una mora, gli sorrisero, gli consegnarono un portachiavi in gommapiuma con su scritto “mr tamburino non ho voglia di scherzare” e una cartolina con un treno d’auguri per Natale, lui si immaginò d’improvviso coinvolto in una lunga tranquilla sinuosa orgia a quattro con lingue e mani e piedi e bocche e nel mentre del pensiero le seguirono con lo sguardo, sorridere e svanire, semplici come un atto mancato, come uno sparo in una via del centro. “Ho paura” disse lei, lui pensò a un’ora di ginnastica o di religione, una cosa vuota.

 

“Sono passate anche prima” disse lei, improvvisamente annoiata.

“Sei troppo geometrica” disse lui.

“Mi annoi” disse lei.

“Mi disgusti” disse lui.

“Non era di questo che stavamo parlando” disse lei.

“Io non ti conosco” disse lui.

“Non era di questo che stavamo parlando” ripeté lei.

“Sono un po’ confuso” disse lui.

“Sono passate anche prima” disse lei.

“Ho una brutta sensazione” disse lui.

“Ti ho detto che ho paura” disse lei.

“Non ti conosco” disse lui.

“Mi annoi” disse lei.

“Tutto questo è assurdo” disse lui.

“Non sai di cosa stai parlando” disse lei.

“Non so con chi sto parlando” disse lui.

“Puoi andare a sederti altrove” disse lei.

“No” disse lui.

“Sì” disse lei.

“No” ripeté lui.

“Puoi andare a sederti in un altro scompartimento” disse lei.

“No” ripeté lui, e non poteva.

“No” convenne lei.

“Abbracciami” disse lui.

“Sì” disse lei.

 

Erano entrambi terrorizzati. Non volevano dirsi delle cose, non volevano parlare. Era notte. Non si toccarono, si addormentarono, o furono svegli, e sognarono, quella o altre cose, cose che non cambiavano, che erano sicure.

 

Li sorprese la luce, avvinghiati, in certo modo privi, li sorprese con un tenue vagito, mosso da un’onda debole che terminava la sua risacca nel cristallino del suo occhio sinistro, per portarlo fuori dal sonno. Lui era sdraiato con i piedi allungati sul sedile, lei con la testa sulle sue gambe, come una foglia appena caduta. Fuori dal finestrino s’apriva una pianura sincopata da enormi buche nel terreno, come se una bestia si fosse abbattuta sul terreno in cerca di qualcosa, tutto procedeva e scorreva come su un nastro. “Arriveremo” le sussurrò all’orecchio mentre si svegliava, e le sistemò i capelli dietro un’orecchia. Passò una vecchia cinese con una busta di plastica colma di indumenti e un ombrello, che gli inveì contro in cinese. Lui pensava all’autista di un autobus che attendeva due minuti in più alla partenza per il gusto di guardare le persone che arrivavano in ritardo, ormai senza speranza, correre e ringraziare e lei gli chiese, a cosa stai pensando? all’autista di un autobus, disse lui, e passò l’uomo delle bevande brandendo un foulard giallo e inforcando un paio d’occhiali da sole per infittire il mistero, urlando caffè panini giornali caffè panini giornali, e lei disse voglio un panino, e lui disse voglio un caffè, e l’uomo delle bevande gli lasciò un giornale e lui chiese sa per caso qual è la prossima fermata, e l’uomo rispose caffè panini giornali e lei disse sul giornale non c’è scritto niente, e lui disse sul giornale non c’è mai scritto niente, e lei disse non fare l’idiota e lanciò il giornale lontano che svolazzò come una farfalla umida e grassa che s’afflosciò su un sedile e scivolò in terra. Lui s’alzò e prese la farfalla grassa e smembrata, prese il giornale, lo aprì e le pagine erano piene di scritte, file di parole e numeri, e alcune foto ma di parti del corpo, pance e occhi e cose così, e file di tautogrammi in C e numeri e asterischi, e lui si voltò e disse non c’è scritto niente sul giornale sembra una mostra della Biennale di Venezia senza spiegazioni e lei non c’era più, lui guardava le sue gambe che uscivano dallo scompartimento e così la sua ombra, e pensò: la detesto.

 

Voleva alzarsi ma restò seduto, si fece coraggio, si fece forza, restò seduto, guardò il giornale, guardò le colonne di numeri, di segni +, di zeri, di numeri, guardò i blocchi colorati sul giornale, le righe, le colonne, le labbra in bianco e nero, restò seduto e aspettò che la ragazza tornasse, e mentre aspettava passò dell’altra gente, altri fantasmi, e gli capitava che pensava a un fantasma prima che questo apparisse, e gli sembrò di essere già stato lì, di essere già stato su quel treno, gli sembrò di conoscere già tutto, tutti i dettagli, e aspettò che la ragazza tornasse, inquieto, era inquieto, cercò di rilassarsi mentre passavano i fantasmi nel corridoio, vagavano tra gli scompartimenti, si riflettevano nei finestrini neri, fuori era nero, non si vedeva niente, e lui si sforzò di mantenersi calmo, aspettò che la ragazza tornasse, e tutti quei fantasmi erano silenziosi, si sentivano poco, anche quelli che gridavano, ce n’erano che gridavano, ma si sentivano fiochi, si sentivano lontani, come fantasmi, erano fantasmi, e lui cercò di non preoccuparsi, cercò di essere fiducioso, tanto il treno non si sarebbe fermato, e aspettò che tornasse la ragazza, e quando tornò le disse che il treno non si sarebbe fermato, che lo sapeva già, che sapevano già tutto, erano in vantaggio, non c’era fretta, avevano tutto il tempo, potevano rilassarsi, organizzarsi meglio, non c’era da preoccuparsi, e lei lo abbracciò, gli si strusciò contro, e lui chiuse la porta dello scompartimento e abbracciò la ragazza, e da sopra la sua spalla guardò attraverso il vetro dello scompartimento i fantasmi nel corridoio, li guardò passare, sorrise a un uomo con un berretto rosso, lo guardò, gli sorrise, l’uomo lo guardò sospettoso, passò oltre, e lui chiuse gli occhi, ascoltò la ragazza, sorrise, e chiuse gli occhi.

 

 

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