mia madre

 

(racconto)

 

 

 

 

 

 

Mia madre non è una donna, è un simbolo. E' piccoletta e ha un armadio con dentro tanti ma tanti vestiti di ogni stoffa e colore, con cinture, nastri, fiocchi, nappe e cordicelle varie e bottoni di madreperla, di legno, d'oro e d'argento, di plastica e di un'infinità di altri materiali, con tasche o senza, stretti in vita, più o meno scollati e maglioncini, cardigans, bluse, felpe, gonne, tailleurs (a righe, a quadretti, a tinta unita, a fiori, a disegni astratti...), per non parlare delle centinaia di borse borsette e

borsellini sparsi sul fondo, nel ripostiglio e ovunque nella stanza da letto, borse a mano, a tracolla, a spalla, a marsupio, a zaino, di pelle, di camoscio, di velluto, di jeans, di finta pelle, di plastica, alcune firmate (Gucci, Vuitton, Fendi) altre no, alcune persino mai usate, nuove e lucide, con dentro ancora la carta che ci trovi dentro quando le compri. Poi mia madre prende il centrotavola e lo mette al centro esatto del tavolo del salotto, matematica, e i pizzi bianchi (di seta, cotone, lino, lana o altro materiale, a seconda della stagione) accompagnano gli sguardi di tutti per tutta la durata del pranzo o della cena, e le portate stanno composte nelle mani di mia madre che viene dalla cucina sorridendo e dicendo cose che ancora non ho capito. Le posate salterebbero nei piatti, se potessero, se potessero parlare probabilmente non direbbero nulla, ma non ne sono sicuro. Mia madre è un muro e la forchetta nelle sue mani è la bomboletta spray che lei usa per deturpare se stessa, alla faccia di mio padre che è come un letto vivente, non sbadiglia mai, mangia voracemente e si limita a dire, "Passa di là, fai questo, vai, azione," mentre la sedia dov'è seduto da quel momento in avanti pare fatta di serpenti e io mi agito un po', di solito, mi metto a smaniare e dimenarmi perché le illusioni ottiche qui in casa dei miei genitori possono diventare quel che sono davvero, possono farsi vedere, mentre a maggior ragione il reale si nasconde in uno dei settecento buchi che ci sono in questi muri e che mio padre, pace all'anima sua, non si decide ad otturare. "I buchi, mamma, i buchi," dico sommessamente in tono gentile con la bocca piena di brasato al Barolo, "I buchi i buchi," ripeto, e mamma si pulisce educatamente la bocca, un sorriso tutt'altro che stanco le sfiora le labbra e con sguardo triste e infinita dolcezza mi posa una mano sulla nuca e dice, "Caro, i martelli," e io annuisco senza capire, tranquillizzato e capacissimo di ignorare tutti i riflessi violetti dei capelli di mamma, o le sue ciglia che si curvano e si flettono senza sosta, o i polsi, i suoi polsi che non si possono dire, in altre parole finiamo di mangiare. Papà, con le maniche della camicia arrotolate, si accende una sigaretta e io lo guardo, non mi sono ancora abituato a questa cosa degli oggetti che prendono vita, lo guardo fumare pensando al babbo e ai sensi dell'accendino, le cose della sigaretta le sue motivazioni, i danni del fumo le cose ai polmoni, la gola, la gola del babbo, penso a papà e contemporaneamente lo guardo, quindi: non faccio niente, anzi, penso: Se fosse morto penserei: "Come vorrei che fosse vivo." Il caffè meriterebbe un capitolo a parte ma mia madre non vuole, è mia madre che lo prepara, il caffè, apre lo sportello in alto a sinistra, sollevandosi in punta di piedi allunga il braccio destro e con la mano afferra la moka, l'appoggia sul piano cromato del lavello e chiude lo sportello, svita la parte superiore della moka, toglie l'affare centrale dove ci va il caffè e versa l'acqua nella parte inferiore fino alla tacca, quindi rimette l'affare centrale dove ci va il caffè, si gira verso destra e prende con la mano destra un barattolo in cotto con scritto SUGAR che contiene il caffè, lo appoggia di fianco alla moka, lo apre, dentro c'è un cucchiaino che usa per mettere il caffè nell'apposito affare centrale, avvita la parte superiore della moka, l'appoggia sul fornello più piccolo e accende il gas, infine chiude il barattolo del caffè e lo rimette dove stava, esce dalla cucina, si chiude la porta alle spalle, muove due passi nella sala da pranzo dove siamo io e mio padre e annuncia, "Ecco, tra un po' il caffè è pronto," ed esulta, è battagliera, è vittoriosa. Papà dorme e sogna di non bere niente per mesi, sopra il muro sopra il suo sonno agitato i quadri si distorcono un po', cambiano appena i colori e mamma porta il caffè nelle tazzine per me e per lei ed è un faccia a faccia che non mi fa affrontare niente, vorrei forse strapparmi i capelli ma persino le mie mani sono ferme, non rovescio neanche una goccia di caffè. Mamma svolazza per la stanza come un qualcosa portato dal vento, un giornale vecchio o un vecchio giornale pornografico, ride con un riso argentino, squillante, pallido, riordina questo e quello, si moltiplica fino ad essere un paio dietro le mie spalle, sorseggio il caffè, altre due sedute di fronte e l'ultima, quella vera ma chissà, in piedi accanto al divano china amorevole su mio padre addormentato sussurrando, "Ricordi, non ricordi." Tornano le mosche, adesso che è estate, volano nell'aria come tracciando lettere o cose oscure, come implorazioni, piccole piccole e nere ronzano superbe da una verità a un'altra, di merda in merda, e passano ovunque. A volte, di solito, non spesso ma comunque non troppo di rado, diciamo qualche volta ogni tanto, chiedo a mia madre com'è la situazione con i fili, il luogo del problema è la camera da letto padronale dal cui soffitto hanno cominciato a uscire tempo fa questi fili di nylon che adesso penzolano inevitabilmente aggrovigliati in una matassa inestricabile e sono pericolosi, ci si può inciampare strozzare si scivola e si rimane accidentalmente impiccati sono cose che succedono tutti i giorni, ma ormai si sono abituati, i miei vecchi, sono tranquilli, hanno trovato un modus viventi soddisfacente e in barba ai fili vivono, dormono e fanno tutto quel che devono fare senza doppi sensi o tripli, fanno quel che fanno, non ci stanno mai nella camera da letto. "I fili, caro mio," dice mia madre, e la sua voce è un panno grigio che divide dolcemente la stanza in due, "i fili, mio caro, sono tutti attorcigliati insieme, non se ne può venire a capo, non c'è niente da fare, non ci danno più fastidio, vorrei farci qualcosa, dai dammi un'idea, qualcosa tipo un lampadario, una tenda, un tappeto, un copriletto, un," s'interrompe, tossicchia, ridacchia, si avvolge intorno alla spalliera della sedia, brilla per un attimo, si sfuoca, vibra lievemente respirando più forte e finalmente conclude, "vestito, che ne dici." Ma io sono già uscito dall'appartamento e giù dalle scale, la ringhiera salda nella mano, sopra la testa sempre la stessa plafoniera che ticchetta, sporca e irritante, sono già uscito fuori come se mi fossi aspettato lì tutto il tempo, mi metto un braccio intorno alle spalle, "Andiamo," e così ce ne torniamo verso la nostra più privata solitudine, un pianto da tiranno ai margini degli occhi e questo rilassante, terreno bruciore, quasi una dimenticanza, sotto la pianta sollevata dei piedi.

 

 

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