pretese

 

(quartine)

 

 

 

 

 

 

Cambio carattere, metto su il fuoco, voglio fare

il ministro, l’assente, il cinematografico, voglio che

tu dica “sono stanca/o del passato”, o lo dico io, e

voglio che i fiori che mangio non finiscano mai. Fine.

 

Cambio carattere e argomento e m’organizzo per

avere sulle spalle file e file di cose, di scarpe, di oggetti

strani, pendenti, fiches, filamenti, e soffiarmi il naso

o parlarci: soffiami, naso, perditi, o perdi il senso

 

del colore, del muco, fatti spuntare gli accessori

intanto che dal tavolo della colazione m’alzo veloce

e strappo la tovaglia senza darti tempo (non tu, lei)

di visualizzarmi, di tenermi; eccoti spazzata via

 

mia cara, il mio delitto preferito, mia voce, mia

millesima perdita, mia bruttezza preferita che mi rubi

tutte le parole, “anzi” compresa, e mangi e ti ripeti

e ti annoi perché invece di sola sei tenebrosa, stanca

 

e non sai niente, non credi, non acquisti: non spendi:

alzi i volumi. E io voglio farmi bello, voglio essere potente

vocale, voglio alzarmi per sempre, voglio vedere i rossetti

luccicare e le piume, voglio gli animali, i presepi, voglio

 

continuare a fare che? a domandare niente (rispondo)

come per esempio: perché le foglie non cadono? perché

cadono? perché sono possibili, loro, sono bastarde:

se ne fottono. E io penso che basta pensare che non ci sei

 

(tu/lei). E allora? allora quello che dicevo (quando? prima)

s’è perso nel soffiato delle trombe, nel rumore del suono, nel

durante, nel dopo, nell’aria di tutti ubriachi che dal sonno

cascavano per le scale, sui gradini, tutti piegati, quasi morti

 

quasi vivi, quasi negati, in una parola: bugie. O spogliati

o vivi, e basta. E’ in questi momenti che mi torni comoda

come quando sei muta e t’imbarchi in queste cose accorate,

questi lamenti scenografici che neanche la banda dell’orchestra

 

soffre, teme: digitano, loro, tutti i membri, tutte le squadre.

Ma piove ed eccoti spalmata sul vetro, eccoti qua piatta, felice

ferita, tutta bella e insanguinata di quel colore lì, con quell’aspetto

quella falce in mano che chissà cosa ti dice all’orecchio. “Non credere”

 

forse, “non partire”. Ma io continuo a sentire odore di cioccolato

e tu sei ancora qui, e io lascio le chiavi sul tavolo e ti vengo sopra

ti smonto, ti tiro le diagonali e godo nella geometria, nella materia

prima: usare tutti i materiali: mi sono amici, mi avvisano: non mi

 

conoscono: mi amano: non vogliono niente. Tutto questo, tutto ciò

dura un giorno, un giorno solo. Il resto, quello che avanza o manca

ce lo metti tu riempiendo le stanze, gli hotel, le isole con le tue arie

di vacanze e le tue frasi pedanti, scomode, che appendi al soffitto

 

delle camere precedenti e le lasci lì a vibrare, a perdere peso mentre

ci ubriachiamo al cocktail (credi che io sia il barman e mi parli in inglese

mi vuoi per la notte, usando spesso la parola “certo” ti barrichi davanti

al mare, sopra il cielo stellato, in fondo al buco, e non sai niente, non vuoi

 

saperne di caramelle o dolcetti, non vuoi niente, vuoi solo me e lo ripeti

“me” dici, “me me me”, e saltelli, danzi, brilli ovunque, ti apri le calze

ti spogli dentro, esisti; e io non voglio più parlarne, o parlarti) e perdiamo

consistenza, ci facciamo solidi nella nostra unica fragilità: il mascarpone

 

il liquore, il liquido troppo solido. Contenta? Fumo distante, e non voglio

farlo, non voglio più. Invece: cosa canto? mi chiedo pigro. Mi suggerisci

sette battute al minuto, tieni il tempo, t’ingozzi di spille da balia, metti su

il teatrino, ci tieni tutti allegri (me/lui), ti perdi per strada, diventi roca

 

e mi fai chiedere perdono, mi fai cadere le ali, mi fai perdere un po’

d’equilibrio (quanto? non so), mi fai guardare tutti i film, mi fai mentire

mi fai più importante dell’intorno, mi dici che hai sonno, mi parli del dormire

del sogno, del turbamento, dell’ignoto: tutta roba mia. Hai la faccia sporca.

 

“Hai la faccia sporca” mi suggerisci e continui, continuo (ne ho abbastanza

sono furioso, sono acceso, sono di qua e di là, da tutte le parti, sono

sciolto, sono squamoso, ecco cosa sono: lucido, limpido, torbido, sono

grosso modo come una pozzanghera, un chiaroscuro, un contrasto)

 

continuo: “I know” dico e ti accarezzo i capelli, ti strappo la pelle. Audace

mi faccio, mi faccio tentatrice, sì, e t’invito al ballo, a un’altra serata: nessuno

sa cosa pensare e tutti hanno strade dove perdono le cose, si perdono le cose

per strada, si usa così, così si fa: tutti ne hanno bisogno e tu ti stupisci

 

è per questo che t’amo e ti raccolgo col cucchiaino, dopo, ti ricordi?

ti chiamavo con altri nomi e tu stavi aspettando l’autobus, il prossimo

il primo, l’unico, e l’autista con la barba, il bambino ricco, il passeggero

l’altro, il secondo, in altre parole: io. E il mio nome non era Jack.

 

E aspettammo, primi e unici, l’arrivo del terrore, ti ricordi? così insieme

aspettammo la consegna, l’allestimento del palcoscenico, le cerimonie

i microfoni, i bottoni o le camicie slacciate o le bandane, i fazzoletti

e tutte le varie nostre stanchezze (c’eravamo dimenticati, eravamo persi

 

non trovavamo più il marciapiede e anzi i piedi non sapevamo più cos’erano

se c’erano, se li avevamo, se ce n’erano in più, se eravamo in difficoltà, se

eravamo bianchi o neri o di quale colore, se c’erano i colori, l’arcobaleno

e se sì da quale finestra, e la macchina fotografica, lo scatto, il clic)

 

 

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