reggio emilia
(da “quando
culicchia era qualcuno”
di fabrizio
venerandi)
Allora squilla il telefono io alzo la
cornetta è Antonio Koch, uno scrittore bolognese fico che ha la voce così,
cadenzata, ogni volta che dice una parola fa una pausa di mezz'ora, meno male
che scrive.
"Allora" dice e poi
"Bonaventura", e poi dice "Andiamo?".
Mi gratto la testa e dico, con te Koch
anche all'inferno, ma in questo caso dove.
"Eh" dice lui, e poi dice
anche "pensavo" e anche "sapessi", e in breve, si fa per
dire, mi dice che deve andare a Reggio Emilia, capito, Reggio Emilia.
"Allora" mi chiede,
"m'aiuti?".
Butto lo sguardo fuori dalla mia
finestra si vedono i balconcini del condominio di fronte, c'è una signora che
versa l'acqua sui gerani. Sospiro.
"Cazzo Koch -gli dico- sei di
bologna, da bologna a reggo Emilia prenditi un treno, non posso scendere io da
genova!" e aggiungo che se mi telefonava per i soldi del biglietto cascava
male, aspettavo ancora il bonifico della mia ultima serie di conferenze, sette
euro di diritti di autore che mi sarebbero stati pagati da lì a due anni, per
motivi fiscali.
"No" mi anticipa in ritardo
il Koch, e dice che non c'entrano i biglietti, sembra sorpreso di questa mia
venalità. "Scherzi?" mi chiede pure. Deve andare a Reggio Emilia per
il laboratorio di scrittura, quello che si chiama ricercare ed è fatto dagli
scrittori di sinistra, quelli vecchi del gruppo '63. Deve leggere dei pezzi di
suoi racconti, davanti a critici e pubblico a alla fine i critici e il pubblico
salgono sul palco e dicono quello che pensano dei suoi racconti.
"Quelli" dice, "mi" aggiunge, "ammazzano"
conclude.
"Capisco" mento, e lui
continua a frammentare la sua sintassi e mi dice che ha avuto questa idea, per
pararsi il culo, di farmi scrivere un pezzo in cui dico che, cazzo, Koch è un
genio e poi dopo che lui ha letto i suoi pezzi, io salgo e faccio finta di
essere uno del pubblico e praticamente leggo la mia conferenza, ma senza che si
capisca che è una conferenza, deve sembrare spontaneo, deve essere una cosa
pesa, così i critici se ne stanno e non lo stroncano del tutto, voglio dire,
devo essere affabulatorio.
"Mi paghi?" chiedo, e qui c'è
una pausa più lunga del previsto che termina con un sussurro del Koch:
"vedremo" dice, e io penso sì, verso damasco.
Butto giù il telefono e ripenso a
Koch, a come l'ho conosciuto, a perché dovrei aiutarlo, Koch l'ho conosciuto
via internet scriveva questi raccontini divertenti e io dicevo bravo questo
Koch, pensavo Koch come se dicessi coccinella, togliendo inella, avevo sempre
pensato bravo Koch con questo rumore di piatti che si scontrano, cocc. Poi un
giorno ci siamo visti dal vivo e gli ho detto"ciao cocc"e lui mi ha
detto "eh, guarda che mi chiamo cocc", e ha pronunciato cocc come io
pronuncerei coccodrillo, senza odrillo. "Ah non cocc?" gli avevo
chiesto con il mio modo di dirlo. "No, cocc" mi aveva risposto lui,
con il suo modo di dirlo. Ero rimasto pensieroso, in fondo mi dava fastidio
chiamarlo cocc, come coccodrillo, ero talmente abituato a chiamarlo cocc come
coccinella, e poi cocc come coccodrillo non mi piaceva il suono, mi sembrava
l'uovo, l'uovo alla cocc. "Ma ti dà fastidio se ti chiamo cocc?" gli
avevo chiesto, mantenendo il mio suono. Koch era rimasto zitto per un attimo e
poi aveva detto, preferisco cocc, con il suo suono. Così eravamo entrati in
grande intimità, avevamo fatto il suono del suo cognome.
Io e Koch c'è gente che dice che scriviamo
nello stesso modo, ma non è vero, Koch viaggia su altri livelli, Koch è uno
scrittore astrale.
Penso di telefonare a paolina per
chiederle se mi accompagna, poi lascio perdere, figurati, Reggio Emilia,
scoppierebbe un casino. E poi, detto papale papale, a Paolina non frega un
cazzo delle mie conferenze, all'inizio le leggeva curiosa di tutte le cose che
mi impegnavo a mettere in bella fila, poi una volta capita l'antifona, ovvero
che l'attività di conferenziere non ha niente di più nobile di quella di un
pulitore di cessi o di un agrimensore, faccio per dire, la paolina aveva smesso
di spiare le mie dita passeggiare nel ventinove per ventuno virgola qualcosa
che delimita lo spazio creativo della mia tastiera apple keyboard pro, e
adesso, esclusi i coiti viperini di cui mi faceva generoso dono, se ne stava
con le sue amichette a giocare a chiappala chiappala, nascondendo sotto il suo
corpicino da adolescente un po' grassoccia, una porcheria di donna tutta da
venire, vorrei spendere ancora due parole su paolina, la prima volta che vidi
paolina era pressapoco una bambina con i ginocchi smozzicati, i capelli biondi
e stava uscendo da casa reggendo in mano un pallone di gomma marca supertele,
quelli rossi a righe nere che tiri un calcio e finiscono nell'iperuranio, e
nell'altra mano un olezzoso sacco della spazzatura, che gocciolava morte di
tanto in tanto. "Dove vai ?" le avevo chiesto e quella aveva alzate
le spalle senza rispondermi. Camminando dignitosamente portando il suo grave
peso, era arrivata al bidone dell'immondizia e ci aveva cacciato dentro il
sacco, con un solo gesto non privo di una certa grazia. Allora si era girata
verso di me, tenendosi abbracciata al supertele a mo' di scudo difensivo e
"Vado alla festa di smarties" mi aveva risposto in un eccesso di
confidenza che le sarebbe costato caro. "Uh, quella della reclame?"
le avevo chiesto e lei aveva annuito con superba convinzione e mi aveva
spiegato che la festa di smarties c'è davvero, è una festa dove vai e ti fanno
delle foto e ti regalano un sacco di smarties e io le avevo detto certo, ti
accompagno, sperando in chissà cosa, e invece alla fine era veramente la festa
di smarties, esiste davvero. Comunque
crescendo paolina si è un po' rovinata, da piccola aveva il naso aquilino,
adesso è un po' ingrassata, e una volta esaurite le porcate base, torna sempre
sulle stesse, non ha grande fantasia e poca voglia di imparare, è dannatamente
pigra, le ragazzine pigre mi fanno impazzire, paolina è un tesoro e più si
rovina più migliora, come le lame autofilettanti dei robot, ho divagato.
Il viaggio in treno per Reggio Emilia
è iniziato nel peggiore dei modi, in luogo di qualche ficazza come compagna di
viaggio, mi sono beccato tre ragazzi ebrei, ma non ebrei nel senso tipo
spielberg, che ti dicono che è ebreo e tu pensi beh io sono vegetariano ad
ognuno il suo, ma ebrei veri, con il cappellino nero sulla testa, una barbetta
sfatta e una lingua lamentosa che mi mette un po' di paura. Ebrei che dici,
cazzo questi sono diversi da me.
Spesso nei film e nei romanzi uno si
immagina viaggi particolarissimi, avventura sul treno, c'è un'ampia letteratura
su questo tipo di cose, ma nella verità il novantanove per cento dei viaggi
sono viaggi normali in cui mi faccio i cazzi miei e finisco con noiose
famigliole che badano solo a non fottere troppo la propria socialità interna, e
nella mia vita mi è successo solo due volte di avere un viaggio interessante,
una ragazza di genova che aveva il ragazzo a voghera e che nel viaggio mi ha
raccontato tutta la storia di lei di genova e lui di voghera che si vedevano a
metà strada, quindi forse lui non era di voghera, la metà strada era voghera,
lui era di torino forse torino, che si erano incontrati al mare e avevano fatto
delle grandi scopate e ciao, capito, finita l'estate finito tutto, e invece si
erano telefonati, così per sapere come buttava e alla fine stavano troppo
assieme, anche se si vedevano solo di sabato o domenica. E lei mi parlava di
queste cose e io la guardavo e pensavo che era bello entrare dentro questa ragazza,
intendo nella sua vita, era come vedere un film raccontato, non c'erano
responsabilità io ne stavo fuori ma teoricamente potevo anche farne parte, però
poi non si è fatto niente io sono sceso a genova e lei mi ha ringraziato del
racconto a quel tempo mi faceva piacere ascoltare le persone ero molto
tranquillo. La seconda volta era uno psicanalista con la barbetta che voleva
portarmi a casa sua, ma a quell'epoca giravo di estate caldissima con una
camicia bianca aperta, e avevo un rosario nel dito medio sinistro, ero molto
particolare, e io gli ho detto no che mia madre poi s'incazza, e lui mi ha
chiesto ma tu dici tutto a tua madre e io gli ho risposto certo, tutto, e in
effetti finché non sono arrivato ai livelli del neutro roberts o le
masturbazioni di gruppo, insomma, ero molto sincero su tutto il resto.
Fino ad un certo punto, probabilmente
finché il mio essere interiore non ha deciso di passare dall'essere bambino
all'essere ragazzo, poi questa cosa la spiego meglio.
L'unica cosa strana del viaggio è che
c'è questo tipo che mi spia, all'inizio non me ne ero accorto, pensavo fosse il
bigliettista che controllava, ma poi questo tipo ritornava e mi guardava,
avrà cinquant'anni, dei baffetti
mefistofelici e i capelli tutti arruffati, la bocca piccolina a culo d'uccello.
Il viso verde. Sbuca fuori dal corridoio e mi fissa con occhi fiammeggianti,
poi sparisce e ritorna dopo qualche minuto, come se controllasse che io sia
ancora lì, seduto al mio posto.
Alla fine gli ho anche fatto il segno
della piramide con la mano, e lui c'è rimasto male, come se lo avessi scoperto
dietro un nascondiglio impenetrabile, è fuggito verso i cessi e poi non l'ho
più visto.
Ma il suo viso mi era familiare, in
qualche modo familiare.
L'arrivo a Reggio Emilia è un normale
arrivo in una stazione che non si conosce, si cercano con gli occhi quella
serie di icone stilizzate che ci fanno capire dove si mangia, dove si caga e
dove si esce dalla stazione, un po' un riassunto della nostra vita, facciamo
della vostra, io spero sempre di essere un po' superiore agli altri, anche se a
volte mi accorgo che non è specificatamente vero, comunque mi fa piacere
pensarlo, se non lo pensassi non sarei adesso qua a raccontarvi queste
frottole.
Appena scendo dal predellino riconosco
la figura del vecchio Koch, con lo sguardo da ragazzino che potresti rubargli
le caramelle, ma lui ti anticipa e te le offre e se non le vuoi le posa su un
tavolo e se le dimentica. Appena mi vede fa come se si svegliasse e mi sorride.
"Oh!" dice, e fa lo stupito di vedermi in quel posto.
"Mi avvicinai a lui e gli tesi la
mano" dico tendendogliela e lui la stringe. "Lui mi strinse la mano e
alzò gli occhi al cielo" continuo mettendomi al suo fianco e iniziando a
camminare verso il sottopassaggio.
"Divertente" dice Koch
fissando una cosa a caso.
Usciamo dalla stazione e ci dirigiamo
verso una specie di centro storico, dove per centro storico intendo un posto
con del ciottolato e con divieto di accesso alle automobili, mi accontento di
poco. Ogni cento metri un cartellone annuncia il laboratorio di poesia e ci
sono delle lettere grigie che volano per la locandina e i nomi degli scrittori
tra cui Antonio Koch e i nomi dei critici ne conosco solo due, i redattori di
una rivista di canelli.
"Si fermarono ad osservare il
cartellone e Bonaventura indicò il nome di Antonio Koch. 'Questo sei tu!'
disse, scoppiando poi in una grossa risata" dico e Koch alza le spalle e
dice "eh". Poi aggiunge "è pesa" e sospira. E' agitato e
tira fuori un pacchetto di sigarette.
Poi mi offre da bere, in un locale
dice che è un locale buono, è un locale da scrittori.
Ad un certo punto, siamo in questo
posto e io sto bene mi sento proprio bene, ho preso un sfatto è il nome
dell'aperitivo, era un locale dove si erano inventati più di cento alcolici con
dei nomi strani, e io avevo preso un sfatto e mi sentivo proprio bene, mi aveva
preso la testa e mi rendevo conto che a fare due passi sarei caduto, ma stavo
bene ridevo come un matto e dicevo ad Antonio che gli volevo bene, cazzo
Antonio ti voglio bene, sono felice di vederti, e Antonio faceva un sorrisino
mite, Antonio sorrideva mite e guardava simone, che era il suo amichetto, che
era uno davvero fico, di solito gli amici di Antonio sono fichi ma sono dei
fottuti isterici, mentre questo era fico, si dava il trucco sotto gli occhi, ma
leggero, dato bene, e diceva cose spiritose, muoveva le mani e se le stirava
sulle ginocchia come i gatti.
Comunque, siamo in questo posto e ad
un certo punto vedo due o tre che vanno sul palco e io penso adesso suonano e
invece no, tirano fuori dei fogli e parlano tra di loro avvicinandosi ai
microfoni, sono tre ragazzi e una ragazza, i ragazzi hanno la faccia di tre
commessi dell'ikea e la ragazza è una biondina insignificante, sorride a tutti
e tiene in mano dei fogli scritti a mano.
"Che cazzo fanno?" chiedo ad
Antonio e lui mi dice boh.
Insomma uno a uno salgono sul palco e
si mettono a leggere dei fogli, con la voce bassa, e capisco che fanno delle
poesie, non si capisce un cazzo, un po' perché le frasi che dicono sono scritte
difficili, tipo io e te siamo un vertiginoso niente/siamo i residui del
destino, o cose del genere, un po' perché il microfono lancia dei fischi come
un cavallo morente, non si sente molto. Insomma ogni tanto ci sono dei loro
amici che gridano bravi e parte l'applauso freddino, ma tutti speriamo che si
tolgano presto dalle balle perché danno fastidio. Per ultima sale la ragazza,
sorride a tutti, e inizia a leggere anche lei cose da letteratura, e a un certo
punto due seduti al tavolino iniziano a chiaccherare e lei si ferma e li fissa
e resta zitta e tutti allora si girano verso quei due che se ne accorgono e
rimangono un po' così, cioé non se lo aspettavano e poi si mettono a ridere e
se ne vanno un po' scazzati, e allora la poetessa riprende da dove si era
interrotta, e io penso, vedi la finta gatta morta, sembrava una che tutta
sorrisi e timidezza poi ha i controcazzi. E continua a leggere con la seconda
poesia, e quì c'è il grande cambiamento, perché adesso inizia a dire cose che
capisco, sono un po' tortuose, ma alla fine mi rendo conto che sta raccontando
di lei che sbottona i pantaloni al suo uomo, e in effetti l'uditorio a questa
poesia sta molto più silenzioso di prima, e questa biondina che non gli avrei
dato mille lire, si mette a raccontare i cazzi suoi, e parla di un 'pompino
arcobaleno', racconta tutta questa cosa del suo uomo che geme e lei che lo
succhia e mentre lo succhia pensa a cose di poesia tipo che lui e il suo uomo
sono un vertiginoso niente e che sono i residui del destino, ma con tutta
questa ambientazione del pompino che rende la poesia molto più interessante
infatti alla fine tutti le fanno un grosso applauso tranne uno dei suoi amici
che resta gelido immobile con lo sguardo scuro e io capisco che era stato il
destinatario del pompino arcobaleno poveraccio.
E lei è felice di vedere che
finalmente il pubblico di avventori è entrato nella sua poetica e allora passa
a leggere un pezzo in cui lei cucina e io già mi sto per rompere di nuovo le
palle quando, poco a poco, mi rendo conto che lei parla di cucinare, ma intende
scopare, e non lo capisco perché me lo dice Antonio, ma perché ad un certo
punto lei descrive le sue dita che si infilano dentro ad un carciofo come se
cercassero il clitoride/ di una fica sconosciuta e questa immagine del
clitoride del carciofo spalanca un baratro nella mia vita, mai più carciofi,
come posso mangiare i carciofi pensando al loro clitoride fritto con l'aglio?
E continua così, tutte le cose da
mangiare sono cose che vogliono dire o il cazzo o la fica, e lei, la poetessa,
si mette queste cose in bocca e intende dire di nuovo il pompino, insomma, la
faccio breve, sono delle poesie, ma con dentro delle porcate.
Mi giro verso Antonio e lui mi dice
che non è male la tipa, e io dico che me l'ha fatto venire duro, deve essere
una brava poetessa.
"Lei è quella di prima?" le
chiedo davanti ai bagni, stiamo tutti e due aspettando che si liberi il cesso,
ce ne è solo uno per i maschi e per le femmine.
"Sì" fa lei sorridendo.
"E' brava" dico io, davvero brava
e lei dice grazie.
Restiamo in silenzio.
"Ma sono autobiografici? Voglio
dire, le cose delle poesie?" dico tanto per passare il tempo e lei dice
che dipende, c'è il transfert.
"Il transfert?" le chiedo
perplesso e lei mi spiega che i veri poeti e i veri scrittori usano un
transfert, come se la sua anima uscisse dal suo corpo e entrasse in quello di
un'altra persona e le dice quello che provano le altre persone. Il transfert.
"Ho capito" dico e qui
starei dovuto stare zitto e invece aggiungo: "allora niente pompini?"
e mentre dico la frase mi rendo conto che non è proprio lusinghiera, è come se
l'avesse detta un altro e io avessi pensato che testa di cazzo, e invece
quell'altro sono io. E infatti lei fa una faccia un po' stupita e ride per
cortesia e non dice niente.
E restiamo zitti per un po', poi lei
all'improvviso dice che i pompini non sono transfert, e io mi giro verso di lei
e vedo che lei mi fissa e io di nuovo mi dico, vedi, questa è stata alle
dorotee, crude fuori e morbide dentro.
E questa volta sorrido io e non so
cosa cazzo dire, ma ci pensa lei e mi fa un altro esempio che ha scritto una
poesia di lei che si scopa una ragazzina, e c'è tutta la descrizione di lei con
il cazzo che penetra questa ragazzina, e quella è tutto transfert, quasi tutto.
"Meno male" dico e lei ride,
alla fine è una piena di sé, si mette di nuovo a parlare delle cose che scrive,
di come la sua poesia sia una poesia che nasce dalle cose della vita, insomma
una palla, ma mi fa sesso, mi rendo conto che vedere una che ha il coraggio di
leggere della roba in cui si parla di lei che fa un pompino davanti a venti
persone che mentre lei legge, si immaginano la sua bocca, di lei che adesso
legge, la sua bocca che fa un pompino, ecco ci vuole un certo temperamento. E
mentre mi eccito di averla così vicina che mi parla di pompini letterari, mi
rendo conto che vorrei che adesso mi dicesse entriamo tutti e due in bagno, e
che nel bagno mi facesse un pompino, così a freddo, e poi ci scrivesse subito
una bella poesia e andasse di nuovo nella sala e salisse sul palco e leggesse
la poesia dove lei racconta che è appena stata nel bagno del locale e ha fatto
un pompino ad uno sconosciuto, e io mi godrei due volte quel pompino, in parte
perché l'ho goduto fisicamente, e in parte perché ho anche aiutato la poesia
contemporanea.
Ma d'altro canto tutta questa
eccitazione mi dà fastidio, perché sono in coda davanti al cesso e ho la
vescica piena di piscio, tutta la roba che ho bevuto, e insomma, quando ho un
erezione non riesco più a pisciare, e quindi inizio a stare male e sudare e poi
il solo pensiero di lei che mi dice entriamo ti faccio un pompino, e io che sto
lì a vedere che lei mi fa il pompino con il mio cazzo giustamente duro, e tutta
la piscia che mi si blocca nella vescica e mentre lei lecca e pensa cose
eccitanti nella sua testa, o agli scampoli di destino, io invece penso che mi
scappa fottutamente da pisciare e che non riesco a farla, che se poi ho anche
un orgasmo è un disastro, per un ora buona non si piscia, non ci sono santi. Non
so se fa così a tutti i maschi o solo a me. Una volta ne ho parlato con un
medico mio amico e lui è restato sul vago, sembrava perplesso, forse capita
solo a me, come il fatto che dopo che mangio asparagi l'odore della mia piscia
cambia, l'ho raccontato ad Antonio e lui è caduto dalle nuvole, ha detto che
lui non ci ha mai fatto caso, che non gli sembra proprio, e invece io sono
sicuro, se mangio degli asparagi mi puzza la piscia di dolce, è una cosa che ho
sempre avuto.
E quindi sono lì, che da un lato spero
che lei mi dica che mi ha scelto come soggetto per una nuova poesia, e
dall'altro che non lo faccia assolutamente prima che io abbia pisciato,
potremmo anche entrare tutti e due nel cesso e lei potrebbe dirmi, te lo
faccio, ma prima pisciamo, anche lei in fondo sta aspettando di pisciare,
magari anche a lei non piace fare un pompino mentre gli scappa da pisciare,
insomma il difetto di noi uomini è che pensiamo alle donne solo come oggetti, e
non come esseri con una loro sensibilità e questa cosa mi sembra abbastanza
poetica e la dico alla tipa, le dico proprio che in fondo noi maschi
consideriamo le donne come oggetti, nelle cose di sesso ad esempio, e non come
delle colleghe, ecco delle colleghe. "In che senso?" mi chiede lei, e
io gli faccio l'esempio della pipì e del pompino, e le spiego che io mi stavo
immaginando una scena di sesso, mi capita non ci posso fare niente, devono
essere gli ormoni, di lei poetessa che entra nel bagno e eccetera e tutta la
questione della piscia e della bocca, e di come non avevo pensato che anche per
lei fare un pompino mentre le scappa da pisciare deve essere fastidioso, quanto
lo deve essere per me, perché in fondo ho una mentalità da maschio che vede la
donna solo come oggetto che gli fa del sesso.
La poetessa rimane silenziosa per un
attimo, come se stesse riflettendo sulla mia visione del maschilismo e del
femminismo, e poi dice che non lo sa, magari fare un pompino quando ti scappa
da pisciare è eccitante, bisognerebbe provare. "Magari anche per te,
mentre ti faccio un pompino tu mi pisci addosso, non è eccitante?" mi
chiede e io la maledico tra me e me, perché questa domanda chiude
definitivamente lo scambio pipì/sperma, e ora la pisciata me la scordo, e sento
la vescica che si contrae contro i polmoni, si fa per dire.
"No, guarda, io non riesco a
pisciare se ho l'erezione" le spiego con tono mesto.
"Ma dai?" fa lei stupita.
"Giuro, ho anche problemi con gli
asparagi, poi ti racconto" le dico.
Lei ride, e mi dice che se voglio
sentirla ha scritto una poesia sulla guerra in Irak, una poesia sui morti, che
magari quella me lo smolla un po' e riesco a pisciare, e io le dico va bene
valla a prendere, io ti tengo il posto.
Appena lei se ne va il cesso si libera
finalmente esce un ragazzino basso e brufoloso che galleggia quasi sopra delle
rebook blu, e io entro e faccio una pisciata colossale, devo contrarmi tutto e
schiacciarmi con le nocche delle dita la parte bassa della pancia, ma alla fine
sento che la pipì esce calda, a poco a poco, passa attraverso il pene duro,
come se avessi un catetere invisibile, ma ce la fa esce non tutta, ma
abbastanza da non darmi più fastidio.
In quel momento bussano alla porta: è
la poetessa che è tornata. Mi tiro su le braghe, senza neppure chiudere la
cerniera e socchiudo la porta, giusto per vedere che è sola.
"Guarda -le dico- per la pisciata
sono riuscito a risolvere. Lascia perdere l'irak. Se ti interessa l'altro
discorso invece, il pompino, possiamo prendere un po' di appunti" e lei fa
una faccia come se avesse un po' di nausea, ma una nausea che le fa bene, mi
sembra un po' bevuta anche lei, si guarda dietro che non ci sia nessuno ed
entra dentro tutta.
Dopo il pompino le chiedo come si
chiama e lei mi dice sabrina, e io penso che è un bel nome per una poetessa
tutto sommato.
Quando torno in sala, al tavolino con
Koch c'è un'altro tipo, un ragazzo padre, ce l'ha scritto in faccia che è
ragazzo e che è anche padre, e da lì a poco scoprirò essere il semiologo,
perché ha fatto gli studi di semiologia, non so bene cosa voglia dire.
"Oh" fa Koch quando mi vede
tornare. Mi indica il nuovo arrivo e nell'orecchio mi dice "il
semiologo". Poi lo indica da dietro e aggiunge "è un poeta!"
Il semiologo si gira verso di me, mi
squadra e fa un sorrisino amichevole, io sorrido di rimando, pare che mostrarsi
i denti abbia un significato di stai attento ragazzo e sicuramente noi stiamo
ben attenti. E' un tipo magro, con il volto che sembra parzialmente scavato
dalla fame e parzialmente da qualcos'altro che non sai cosa sia: e preferisci
non saperlo. Gli occhietti vitrei sono nascosti dietro ad un paio di occhiali
finto trasandato ed indossa una giacchetta di lana verde, che dà l'idea di
essere di terza mano, ma a guardarla bene capisci che è *nata* per sembrare una
giacca di terza mano. Insomma, per farla breve è uno che sembra aver dormito
sotto la cuccia del cane però puzza di soldi.
Sul palco intanto è salito un ragazzo
smunto, con i capelli neri che gli cascano sopra sulla fronte, ha preso in mano
dei fogli, si è messo a ridere parlando con i ragazzi delle prime file e poi ha
detto al microfono: "no, io non uso il microfono!" e lo ha
allontanato da sé.
Poi si è schiarito la voce e ha fatto
questa cosa, nel senso che interpretava le cose che diceva, ad esempio urlava
"io sono!" e poi si rannicchiava per terra e faceva la vocina il
falsetto e urlava "piccolo!" e poi si alzava e diceva che dentro a
lui c'era però un grande, e si alzava sulla sedia e urlava con tutta la voce
che aveva in corpo " BOATO!" e poi scendeva ed è andato avanti così
per parecchi minuti leggendo queste poesie in cui si parla di sé, oppure delle
vittime della guerra e tutti non capiscono un cazzo di quello che dice ma
ridono per questa cosa dell'interpretazione perché è una cosa che fa davvero
ridere vederlo.
A quel punto il semiologo si è girato
verso Koch e gli ha chiesto quanti anni ha quello sul palco e Koch gli ha detto
boh, trentacinque.
"L'età giusta per smettere"
dice allora il semiologo e si alza dicendo che lui esce a prendere dell'aria poi
va in una galleria d'arte che di sera c'era la presentazione di un suo libro e
forse passava anche sanguineti e lo doveva salutare. Mi guarda, mi fa lo stesso
sorrisino di prima, distratto, ed esce di scena, per ora.
Intanto il poeta ha finito, i suoi amici
gli fanno l'applauso e il poeta riprende il microfono e dice che tra il
pubblico c'è il suo maestro, indica un tavolino dove un tipo alto con lo
sguardo teso alza un braccio e resta serio, non dice niente, e vicino a lui c'è
una tipa vestita da fica, ma con la faccia brutta, dietro a due lenti spesse un
centimetro che sembra dire certo ragazzo io non sono fica davvero ma ti posso
fare tutte le stesse cose che ti fa una fica tra cui le posture e una certa
aria da ochetta che però conosce le cose della vita, tipo so capire -alla
seconda- se una poesia è di montale o di saba e non ti faccio manco sfigurare
davanti agli amici critici, chiamiamoli amici, tutto questo senza dire niente,
si vede che non era una poetessa.
E, insomma, questo maestro si alza, fa
tre passi con le sue gambe ossute, si piazza vicino all'allievo che si va a
sedere tra il pubblico, c'è sempre questo scambio tipo osmosi tra poeta e
pubblico della poesia, sembra quasi un gruppo di psicanalisi di gruppo, adesso
tocca a te fare il pubblico ora è il mio turno fare il poeta, eccetera, insomma
il maestro prende il microfono, si stira la camicia grigia sui jeans blù, e
inizia a dare dei colpi di tacco con questa specie di evoluzione dei camperos
che porta ai piedi, sono degli stivaletti di cuoio che gli arrivano a metà
tibia, tira questi colpi di tacco sul palchetto di legno e tutti restano zitti
a guardarlo fare 'sti colpi e allora lui si avvicina al microfono e inizia pure
a darsi dei pugni sul petto e declama -a memoria- dei versi, tipo vado per il
mondo con la terra dentro agli occhi, e mentre declama la terra dentro agli
occhi si dà questi colpi sul petto in modo che diano ritmo alle cose che sta
dicendo e anche con il piede, con i camperos.
"Uh" dico tra me e me e mi
giro verso Koch che mi guarda e lo indica con un dito e poi mi si avvicina
all'orecchio e mi dice 'peso!', e io mi allontano da Koch e mi passo una mano
sulla faccia.
Intanto l'amichetto di Koch, che
finora se ne era stato acciambellato vicino ad Antonio, mi si avvicina con la
faccia e mi dice che quello è una merda, ma è meglio tenerselo buono.
"Mena?" chiedo intimidito
dall'aspetto cupo del suo volto poetico, ma soprattutto dai grossi camperos a
punta metallica.
"No" mi sorride
nell'orecchio l'amichetto di Koch, ma -mi spiega- è uno che conta perché ha
fatto il festival internazionale della poesia e ha trovato quel valore aggiunto
che trasforma la poesia da semplice passatempo per ex-laureati, in vera poesia
con la v maiuscola e la p pure.
"L'ispirazione?" chiedo io
un po' ingenuamente.
"No, i soldi" fa il mio
confidente, e racconta in dettaglio come sia riuscito ad avere una valanga di
soldi dal comune per organizzare ogni anno questo benedetto festival
internazionale della poesia e abbia pagato gente da tutto il mondo a partecipare,
attori, cantanti, gente che non c'entra un cazzo con la poesia ma che la gente
viene a vederli perché magari è gente della televisione, e tu ci infili dentro
anche la poesia. Tutto fa. Quest'anno lui si era dovuto sorbire, per amore
dell'amico Koch, una serata dedicata alla poesia femminile slovena, due ore e
mezzo. Senza traduzione. Tre poetesse cinquantenni che hanno declamato, molto
serie in viso, le loro liriche in lingua slovena.
"E cosa ci capivate?" chiedo
io perplesso.
"Ragazzo, la poesia è
universale" fa lui ironico, la poesia di qualsiasi lingua la capisci anche
solo ascoltandola, c'è la musicalità del verso.
"Peccato che non valga anche per
la manualistica informatica" faccio io sospirando, le traduzioni costano
un patrimonio.
Mentre sono lì a sorbirmi il poeta dei
camperos, mi volto all'indietro verso la porta del localino e vedo per un
attimo il volto verde del tipo che mi spiava sul treno. E' proprio verde,
poggiato contro la porta del locale che mi fissa con gli occhi cattivi, e appena
si rende conto che mi sono accorto della sua presenza spalanca gli occhi,
arranca la porta con una mano e sparisce nel buio della notte.
"Cazzo" dico a bassa voce
alzandomi e iniziando a navigare verso la porticina da cui è fuggito il
piccoletto, mi butto in quell'avviluppo di corpi, tutti ragazzi per bene che
reggono in miracolose evoluzioni bicchierini di alcolici colorati e fumano,
fumano e bevono, e urlano sotto l'assordante frastuono della poesia da strada
mentre io striscio tra corpo e corpo, come nei film quando c'è qulche
inseguimento importante e il cattivo scappa e al buono finiscono tra le braccia
tutta una serie persone che stanno facendosi i cazzi loro, tipo vecchiette con
la borsa dela spesa o fidanzatini mano nella mano, e il buono si incazza e le
spinge via, e intanto per colpa di questi ottusi che vivevano la loro vita di
tutti i giorni e non capivano il più alto disegno che è dentro alla testa del
buono, per colpa loro il cattivo sparisce nel nulla e il buono resta ansimante
a fissare il punto dell'orizzonte e chiedersi dove minchia sia finito il
cattivo che -nel frattempo- fuori scena sta riprendendo fiato tirando un calcio
ad una lattina vuota.
Così io scivolo in quella massa
carnale, salendo su piedi, assalito da ragazze sudate che ridono dandomi la
schiena e tipi che fanno i magnifici cercando di vedersi da fuori, di capire
che figura facciano con quei gesti con la loro voce per chi li vede dal di
fuori, e sono costretto a fare dei giri assurdi per arrivare alla porta ci
metto un sacco di tempo, tanto che ad un certo punto non sento più la voce del
poeta mettono della musica ad un volume altissimo, e io sono sudato marcio
ormai, non riesco a respirare, voglio solo uscire, e poi chiudo gli occhi e mi
lascio spingere, non so più dove sto andando, sento solo questi corpi tutto
intorno che mi stanno spingendo, non per volontà loro, ma per il solo fatto di
esserci, di esistere in quel momento attorno a me, non riesco nemmeno a cadere
da quanti sono, devo restare in piedi e continuare ad andare.
Quando riesco a raggiungere la porta
mi sembra che sia passato un secolo, mi giro un attimo indietro e non riesco a
vedere il tavolino di Koch, anche il poeta dei camperos sembra un ricordo
lontanissimo, non riconosco niente non sono neppure sicuro che sia lo stesso
bar è solo letteratura.
C'è un po' di gente fuori dal locale
che si prende una boccata d'aria, il tipo è sparito di nuovo, sono solo dei
ragazzi in mezzo a questa piazzetta del centro storico di Reggio Emilia. Mi siedo su uno scalino e mi butto la testa
fra le mani, devo andarmene in albergo, devo dormire, penso.
"Il tuo amico Koch è un
alienato" mi dice una voce femminile da dietro, ed è la poetessa che mi
accende una sigaretta e me la porge.
"Uh. Nel senso di posseduto da
extraterrestri?" faccio io prendendo la sigaretta e spegnendola sotto la
scarpa, non fumo.
"Nel senso di fuori di
testa" precisa lei e fa un gesto circolare attorno alla tempia, con un
dito.
"Ah" faccio io deluso. Non è
una grande novità, a ben vedere tutta l'umanità è fuori di testa.
La poetessa parla e fuma, adesso fa la
vissuta e dice che ora andiamo che c'è una festa dove c'è un sacco di gente
interessante, ci sono dei pittori, e dei critici che scrivono per le riviste di
arte e anche dei giornalisti e dei poeti, ma quelli veri, che scrivono per
einaudi.
Vedo soltanto allora Antonio, lontano,
che scherza in mezzo a un gruppetto di ragazzi, quando si accorge che lo sto
fissando alza la mano verso il cielo, stringe un bicchiere tra le dita, è una
specie di brindisi a distanza, e mi manda un sorriso che non riesco a
interpretare.
Arriviamo in questa galleria d'arte
che poi sono tre stanzoni al primo piano di un vecchio stabile nel centro
storico di Reggio Emilia. Davanti a me c'è Koch che cammina stordito tenendo in
mano una sigaretta accesa, mentre al mio fianco la poetessa dei pompini guarda
le pareti reggendo un bicchiere pieno di negroni, con il ghiaccio mezzo
sciolto, se lo è portato via dal locale. Alle pareti ci sono i quadri del
pittore, sono dei disegni di omini e di serpenti che mostrano la lingua e
urlano, tutti i disegno hanno lo stesso tema, omini stilizzati e serpenti che
urlano, cambia solo l'ordine in cui sono disegnati sul quadro, c'è un grosso
vantaggio penso io perché se ne comperi due o tre stanno bene assieme, li puoi
mettere in un corridoio o in due stanze attigue, il vantaggio dell'arte seriale
e che è facile fare abbinamenti, è un po' l'ikea degli intellettuali.
In giro c'è gente simile a me o a
Koch, siamo tutti vestiti in maniera abbastanza simile e addossata ad una delle
pareti c'è una tavola di legno grezzo retta da due cavalletti sempre di legno,
e sopra la tavola ci sono dei triangolini di pan carré e sopra spalmata della
roba, che potrebbe essere una cosa tipo derivato della maionese, roba rosa salmonata,
e così io che non ho mangiato ancora niente, mi ero sparato solo
quell'aperitivo e ora mi veniva di nuovo quel senso di vomito del dopo
aperitivo, quando l'alcol evapora dentro al mio corpo e mi resta tutto lo
zucchero a depositarsi lì nelle vene e crearmi quella malattia che mi porterà
alla morte che si chiama diabete, fin da piccolo mia madre aveva il terrore che
io avessi il diabete e comperava in farmacia delle cose piccole, come degli
spilli che ti dovevi infilare nel pollice e farci uscire del sangue da mettere
su un pezzo di carta che se cambiava colore voleva dire che tuo figlio aveva il
diabete e allora lei mi rincorreva per le camere di casa nostra e io scappavo
perché non volevo che mi infilasse nella carne quella cosa metallica e alla fine
ci trovavamo attorno al tavolo della cucina io da una parte lei dall'altra e
facevamo il compromesso che lei mi dava la punta e il buco me lo facevo io e
invece di darci un colpo secco facevo entrare la punta a poco a poco,
millimetro per millimetro perché -pensavo- quello che mi fa paura non è il
dolore, ma il fatto che non sapevo *quanto* mi avrebbe fatto male e così invece
piano piano mi rendevo conto del male, non era un trauma, magari soffrivo di
più a ben vedere, ma a me andava meglio così e mia madre scuoteva la testa e
diceva che avrei fatto meglio a farlo subito il buco di colpo, ma io preferivo
millimetro per millimetro e poi la carta colorata non cambiava colore e mia
madre restava a guardarla e diceva che non avevo il diabete, ma non era convinta
mica da questo test che poi definiva solo precauzionale che non era davvero
sicuro, e da un lato era contenta che suo figlio non avesse il diabete,
dall'altro si sentiva un po' truffata perché il test in farmacia costava un
sacco di soldi e alla fine erano soldi buttati via perché ero sano come un
pesce, era una medicina per uno che stava bene, comunque in famiglia ci sono
molti diabetici, diceva lei, e quindi il diabete te lo prenderai lo stesso
diceva mia madre, e così io dopo un aperitivo mi sento sempre questo zucchero
che mi circola per le vene e sono tranquillo perché tanto morirò per il diabete
non ci posso fare niente, e mentre sono lì che addento la terza tartina e mi
rendo conto con orrore che da bere c'è solo una serie di lattine fidel, una birraccia
dei tedeschi e quindi una birra che mi
farebbe scendere di gradazione, dal superalcolico, che era l'aperitivo,
dovrei scendere all'alcolicità della birra, e questo mi hanno insegnato che è
male, quando inizi a bere devi solo salire e mai scendere che se scendo poi
vomiti, regola numero uno che si impara, mai fare mischioni e mai scendere e
allora resto con queste tartine salmonate in bocca che ancora muovono la coda e
non so bene cosa fare, resto a fissare la birra fidel, che poi non è una vera
marca di birra, la marca fidel non esiste è la stessa birra che fanno per tutti
i supermercati e poi ogni supermercato ci mette la sua etichetta e si inventa
una birra, tipo birra primia o birra fidel o birra krona, tutti nomi che non
vogliono dire un cazzo perché la birra è la stessa la fanno nello stesso posto,
in via birolli otto a roma fateci caso hanno tutti gradazione quattro virgola
sette, è sempre la stessa birra nelle stesse bottiglie ma poi ci mettono un
marchio inventato perché la gente non vuole solo la birra, vuole il marchio, ha
bisogno di una marca, del logo, di un grafico che gli dia la garanzia che
quella birra che sta per bere non è una birra qualsiasi, ma è la birra fidel,
cazzo, la birra fidel, che miseria duemila anni di scienze filosofiche per
finire a fare il consumatore, che miseria penso mentre sono lì che reggo questa
bottiglietta di birra in mano senza sapere bene cosa fare quando si avvicina un
tipo con i capelli lunghi e una barbetta sfatta e senza guardarmi mi dice
vorrei un bicchiere di nero fermo.
Io resto zitto e quello come se niente
fosse mi ripete, ho chiesto un bicchiere di nero fermo.
Fingo di deglutire.
"C'è solo la birra fidel"
gli biascico, immaginandomi la pasta del pan carré che mi si muccica nella
bocca.
Allora lui si volta verso di me, e
finalmente mi guarda dentro agli occhi e ho questa visione che mi trapassa
l'anima, due occhi scuri e profondi, un flash rapido di uno che ha capito tutto
della vita e in un momento mi trapassa, davvero, mi sento come se avesse letto
tutto quello che avevo dentro e dice niente, non dice nulla, solo questo
sguardo folgorante e si gira e se ne va, e io resto bruciato dentro con la
birra fidel in mano che lentamente mi scivola dalle dita verso la tavola di
legno.
"Hai conosciuto il pittore"
mi dice una voce da dietro ed è di nuovo il semiologo che muove la mano davanti
a sé, indeciso su quale tartina prendere sono tutte uguali. "E' lui che ha
fatto questi" aggiunge, e distrattamente indica i quadri appesi alle
pareti da cui siamo bene o male circondati.
"Che tipo è?" chiedo io
continuando a masticare faticosamente, riprendendo in mano la birra fidel e
tornando a soppesarne le eventuali capacità gastro-endemiche.
Il semiologo non dice nulla, continua
a passare la mano tra tartina e tartina, come se si compiacesse di poter
scegliere se mangiare o non mangiarne, e poi alla fine alza le spalle e fa una
faccia che lui crede estremamente
espressiva, e in effetti lo è, ma non so cosa voglia esprimere e quindi
resto lì a fissarlo, sorridendo come se avessi capito un invisibile sottinteso
che poi magari manco esiste.
Alla fine il semiologo mi dice che
avrò modo di conoscerlo bene il pittore e così dicendo prende in mano una
tartina salmonata, la soppesa, e poi la rimette in mezzo alle altre e se ne và,
tipo i pescatori che pescano il pesce e dopo averlo pescato lo ributtano in
mare, si allontana a passo cadenzato, e poi sento che urla un 'oh! carissimo!'
e si avvicina ad un vecchietto raggrinzito con il naso a punta.
'Berrò l'acqua del bronzino' penso io
lasciando cadere per sempre la birra fidel assieme alle sue compagne e vado in
giro chiedendo un po' a tutti dove sia il cesso, ci sarà anche un cesso in una
galleria d'arte.
Il cesso c'è, è lo stesso per maschi è
femmine devono essere stati gli anni passati sotto le amministrazioni di
sinistra a creare questi bagni unisex in Emilia romagna, a genova è tutto
diverso, non ci sono proprio i cessi, esistono solo dei reliquari chiamati
vespasiani, che sono dei posti bellissimi, roba incrostata di decennali acidi
umani con uno scrollio di acqua che arriva da chissà dove e va a finire chissà
dove (in mare), conglomerato di malattie batteriche che pigre amministrazioni
di sinistra e di destra non si sono mai degnate di far tornare ad uno stato sanitariamente
innocuo, ogni nuova amministrazione a genova spende soldi per costruire *nuovi*
cessi biologici, fichissimi, mecanizzati che di norma reggono per tre mesi poi
le amministrazioni si accorgono che -oh- tenere in piedi quei costosissimi
cessi autopulenti costa più che installarli e -oh- nessuna amministrazione si è
mai degnata di mettere in preventivo i soldi per la *gestione* di questi
tecnologici raccoglitori di merde e di piscie umane , e quindi restano lì, con
un lucchetto a serrarli per mostrare alle genti che -badate- la tecnologia non
è adatta all'uomo.
E quindi quando entro nel cesso
romagnolo ci trovo una ragazza che sta vomitando nel lavandino dove avevo
pensato in un primo momento di lavarmi le mani dall'untuosa salsedine delle
tartine e di bere un po' di acqua del bronzino.
Quando mi vede entrare, la tipa cerca
di darsi un contegno, sbocca ancora un attimo i resti organici di una piadina
romagnola, e poi -tagliando con un gesto rapido il filo di umanità che la
unisce al lavandino- mi dice che è una giornalista.
"Ah" dico io, come
tranquillizzato e non capisco cosa cazzo c'entri il fatto che è una
giornalista, ma vedo che è fatta, ha gli occhi viola e sorride barcollando
passo passo fin dentro a uno dei cessi e inizia a pisciare senza nessun
ritegno.
"Una scrittrice
giornalista!" mi urla con uno strano accento, e ride di nuovo e poi esce e
torna al lavandino e si sciacqua le mani e poi si ributta in avanti, di colpo
fa dei versi con la bocca, ma sputa soltanto alla fine, e mi dice che domani
leggerà al ricercare, capito, è una scrittrice vera, domani tutti la sentiranno
leggere al ricercare e mi passa davanti come se non esistessi e esce e resto
solo nel cesso e fisso il lavandino con le macchie verdi mi è passata la sete.
Durante la serata nella galleria
d'arte parlo con un sacco di persone, alcuni scrittori interessantissimi che
hanno pubblicato parecchi romanzi su internet, dove per pubblicato parecchi
romanzi intendono dire che hanno messo su internet il testo del loro romanzo e
quindi adesso sono scrittori, ma vedi che non sono felici, quando nessuno li
vede si rosicchiano le unghia delle dita.
Koch mi resta vicino e mi dice che lui
ha parlato con il pittore, che ha uno sguardo che ti scava dentro, si vede che
è un'artista e che dopo andiamo tutti a casa sua, del pittore intendo.
"Koch io sono a pezzi, devo
dormire" mi lamento e Koch mi guarda e dice che non c'è problema posso
dormire dal pittore.
"Uh. Sei sicuro?"
"Tra artisti usa" fa lui
sicuro e mi dice che molte volte lui dorme sui divani della gente, e io crollo
la testa in mezzo al capo e seguo il Koch che si avvicina a una tipa che sta
parlando di ricercare che inizia domani e lui è curioso di sentire cosa dice,
c'è anche l'amichetto del Koch che sorride e beve una birra fidel, con la
tranquillità di chi non gliene frega niente.
La giornalista vomitatrice con le
macchie di piadina romagnola sul maglioncino crema ci dice di essere americana
e pare che si sia messa in testa che -dannazione- deve convincerci tutti quanti
che la guerra in medio oriente è una cosa giusta e santa, e urla con gli occhi
che le ridono che quello là, saddam, dovevano già farlo fuori dieci anni fa,
cazzo, non ci sarebbe stato l'undici settembre.
"Uh -faccio io- credo che tu stia
mescolando due guerre per la libertà diverse. Era bin laden quello delle
torri" e lei mi brucia con lo sguardo e dice che è tutta la stessa gente,
saddam, bin laden, arafat, tutta gente che bisognava già ammazzarla dieci anni
fa. "Voi -continua indicando solo me- voi non avete avuto l'undici
settembre, non potete parlare voi!", e io resto zitto e questo salto dal
dieci al dodici non me lo ricordavo, si vede che dormivo.
Sorrido, e quella continua, mi lancia
un'occhiata di tanto in tanto e va avanti dicendo che tutta la religione
mussulmana è basata sull'odio, che quelli ammazzano a sassate le donne che
fanno i figli, capite, le donne che fanno i figli, le ammazzano a sassate, e la
chiamano giustizia.
"Beh, anche voi cattolici
friggete le persone sulla sedia elettrica, che voglio dire, non è proprio un
insegnamento cristiano", e la giornalista si volta verso di me e si ritrae
indietro, nello stesso tempo, mi dice gesù cristo, che cazzo centra gesù cristo
gesù cristo è un perdente un loser di sinistra. "Noi americani abbiamo un dialogo
diretto!" esclama e ride, e poi spiega god bless america, god, mica gesù
cristo bless america, niente intermediari.
"Dio benedice gli americani"
spiega ponendo le mani a piramide davanti alla mia faccia e agitandole come se
si trattenesse per non buttarmele negli occhi, e io -pensando a Dio con
l'aspersorio colmo di acqua santa che bendice la sua america- capisco di colpo
il diluvio.
Voglio dire per i giapponesi la loro
isoletta è un po' di sperma di dio caduto in acqua, sono molto più onesti i
giapponesi, hanno un dio ejaculatore, quello americano è un dio piscione.
Ad un certo punto uno chiede ma che
cazzo di ore sono e un'altro risponde che è mezzanotte che la prima giornata è
finita.
Quando mi risveglio, due giorni dopo, ho
un forte mal di testa e la luce è diventata una cosa insopportabile, l'aria
puzza di acido e mi sento tutto incrostato, la pelle tutta come se fosse
dipinta, un impressione di questo tipo. Qui cambiamo registro.
Rimango immobile, con gli occhi
socchiusi a fessura, anche se ho freddo, anche se ho una fame fottuta, mi devo
essere svegliato per quello, una fame che mi balla nello stomaco battendo i
piedi e scuotendo le mani. Mi sento come se le palpebre si fossero riempite
d'acqua e ora stessero gonfie a schiacciare la massa bianca verso l'interno
della mia povera testa.
Sono ancora nella casa del pittore,
quel poco di cosmo che si azzarda ad entrarmi dentro agli occhi mi mostra il
soffitto della stanza scarna che da due giorni è diventata la mia tana, e quella
di Antonio.
Man mano che prendo consapevolezza del
fatto che -no- non sto più dormendo, che sono passato dallo stato di
beatitudine tipico delle nature morte, a quello agitato e nervoso delle nature
vive, nel momento in cui voi state leggendo, ecco che tutta una serie di
avvenimenti iniziano a rimbalzare dalla mia parte, come se ci fosse un monitor
del tutto nero e poi si vedono dei pallini è poi capisci che quei pallini sono
solo una rappresentazione di cose tridimensionali che -in effetti- si stanno avvicinando
sempre di più, e man mano che si fanno più vicine il livello di dettaglio si fa
sempre maggiore e piano piano capisci cosa sono, cosa rappresentano, è una
specie di salvaschermo della memoria, ma in questo caso non mi salva per
niente, anzi, mi condanna, perché le cose che vedo avvicinarsi sono cose che
non vorrei vedere, che chiuderei gli occhi per non vedere, solo che gli occhi
sono già chiusi e quindi al limite posso solo aprirli, ma so inconsciamente che
se li aprissi vedrei le stesse cose che nella mia memoria si stanno avvicinando
così lentamente, quasi una deriva sognante, una barca che viaggia in un nero
assoluto e perfetto, e allora me ne resto con gli occhi chiusi, come se fossi
seduto sulla riva del fiume a vedere il cadavere di Koch che passa, la
pompinara che ride come una pazza, il pittore sdraiato per terra mezzo nudo con
una rivoltella a mirare il cielo stellato e sparare, lo strindberghiano che
urla disperato indicando un foglio che brucia, il cane bell che cade come se inciampasse e non si rialza più, e io
in mezzo che indico tutte queste cose e non dico niente e adesso apro gli occhi
e mi giro e vedo il cadavere di Koch sdraiato anche lui con gli occhi aperti a
fissare senza vedere un quadro del pittore, un serpentello bendato che urla
cieco.
"Koch" dico a bassa voce, e dietro a Koch c'è il pittore
che sta dipingendo, ha messo il cavalletto tra la porta d'ingresso e il
cadavere di Koch e ora lo sta ritraendo, con una mano tiene il pennello e con
l'altra una tazza fumante. E' tranquillo, con quel suo sguardo che sembra avere
compreso tutto della vita, e quando si accorge che mi sono svegliato mi chiede
se voglio un caffé, che lo ha fatto da poco che è ancora caldo.
"Ho mal di testa" rispondo
con un filo di voce e poi aggiungo che non mi ricordo un cazzo, non mi ricordo
proprio un cazzo, il pittore continua a dipingere nel silenzio e poi dice che
ci crede, ci crede che non mi ricordo un cazzo, dopo quello che mi ero fatto
ieri sera è il minimo, e poi resta immobile a fissare il quadro per qualche
secondo, per poi riprendere a dipingere, e va avanti così, è il suo mestiere.
Mi tiro sù sui gomiti e resto a
fissare il volto di Koch, è dimagrito, è diventato brutto, mi fa paura, mi
viene da pensare che all'improvviso si giri verso di mee si metta a parlare,
chiedermi da bere, una cosa del genere, e questo tipo di pensiero mi
terrorizza.
"E' morto" chiedo al
pittore, senza nessuna interrogazione nella voce, e lui non mi risponde,
continua il suo lavoro e dopo un po' dice che dobbiamo buttarlo via, che devo
dargli una mano per portarlo da qualche altra parte, che se lo trovano lì lui
passa dei gran casini. "Lo avvolgiamo in delle coperte e lo portiamo alla discarica, prima che si
metta a puzzare" mi spiega.
"Quanto tempo abbiamo?"
chiedo.
Il pittore alza le spalle, dice che
non ne ha idea, sa solo che dopo un po' puzzano, è una di quelle cose che si
sanno e basta.
Butto un'occhiata sul mio corpo
disteso sul divano, sono nudo, completamente nudo e coperto di macchie scure,
come se mi avessero verniciato, e quando ci passo una mano sopra vedo che si
sbriciola, capisco che è sangue, che potrebbe essere sangue.
"Devo farmi una doccia" dico
al pittore e quello alza le spalle, dice che va benissimo così lui ha tempo di
finire il quadro.
Quando gli passo alle spalle vedo che
sta disegnando uno dei suoi soliti quadri con i serpenti che urlano e gli omini
che corrono, non c'è niente di diverso da tutti i suoi altri quadri, guarda il
cadavere di Koch e poi disegna un omino che corre, identico a tutti gli altri.
Entro nel bagno e penso adesso vomito,
per il pensiero del cadavere di Koch adesso vomito, in un film mi sarei messo a
vomitare, ma nella realtà non mi scappa da vomitare, ho nausea, quello sì, e
mal di testa, ma niente a che vedere con il vomitare e infatti apro l'acqua e
mi metto sotto la doccia, il bagno del pittore è piccolissimo, c'è solo la
doccia e il cesso, il lavandino è
sepolto sotto un ammasso di pennelli sporchi lasciati a colare la loro tinta
verso lo scarico.
Mentre sono sotto la doccia cerco di
ricordare cosa è successo, mi ritornano alla mente un po' di cose, rivedo Koch
che legge il suo pezzo e io che salgo a leggere il mio intervento, ricordo la
giornalista americana e il suo articolo, e ancora prima ricordo il semiologo
che presentava il suo libro , e poi l'avventura con lo strindberghiano dalla
faccia verde, di notte nella biblioteca di Franco Perelli.
Ma sono solo frammenti che fanno a
pugni tra di loro, come se mi fossi messo a fare un puzzle in cui ci sono tutti
i pezzi e tutti effettivamente rappresentano lo stesso soggetto fatto a pezzi,
ma la sagometta che li distingue gli uni dagli altri, fosse stata fatta in modo
che i pezzi singoli si potessero al massimo accostare gli uni agli altri, senza
poterli incastrare veramente, alla fine avevi un'idea di massima di quello che
andavano rappresentando, ma era solo una deduzione, una tua intuizione di
quello che sarebbe potuto essere, e non un disegno uniforme.
Quando esco dalla doccia mi sento più
confuso di prima, mi rivesto con gli stessi vestiti di prima e mi fa schifo
l'odore che sento, è un odore selvatico, come di una bestia che dorme nelle
lenzuola del suo padrone.
Nello studio il pittore ha già steso
per terra delle coperte e ci ha trascinato sopra Koch. E' rigido, sembra un
manichino, ogni volta che ne sposti una parte si sposta tutto il corpo, non
posso fare a meno che sorridere e poi aiutare il pittore ad avvolgerli attorno
le prime coperte e poi farlo rotolare, sembrava tanto piccolo e invece è
pesantissimo.
Appena abbiamo finito il pittore va
alla porta e la spalanca, mostrando il piccolo pianerottolo della scala che,
ripida, si getta nel buio verso il pianoterra. Il pittore si gira verso di me,
come se valutasse qualcosa, e poi toglie i fermi per spalancare anche la seconda
anta, per poterci passare più comodamente.
"E se ci vedono? Non è meglio
aspettare che sia notte?" chiedo io perplesso.
Il pittore mi fissa per qualche
secondo e poi mi dice che sono le tre di notte, che il fatto che io mi sia
svegliato non vuol dire che sia giorno, sono le tre di notte ripete e mi fa
segno di prendere le gambe del fagotto con dentro Koch.
Io sorrido e mi scuso, dico che
pensavo fosse mattino, guardo le finestre e in effetti sono tutte chiuse, e
persiane sono bloccate e gli scuri serrati, chissà perché, mi ero svegliato
pensando fosse mattino. Mi chiedo cosa sarebbe successo se non mi fossi
svegliato per la fame, se mi fossi alzato veramente domani mattina, avremmo
tenuto con noi Koch tutto il giorno?
Il pittore rientra e prende Koch dalla
parte della testa, io lo prendo dalle gambe e usciamo, a fatica , da casa sua.
"Fermati" mi dice quando
siamo fuori, e posa la sua parte di Koch per terra e torna indietro a chiudere
tutto, rimette i fermi e dà due giri di chiave, non si sa mai, mi dice.
Scendiamo per le scale con la stessa
cura che si ha per i mobili, facciamo dei giri scomodissimi perché non prenda
colpi, quando me ne rendo conto mi sembra assurdo, ma poi continuo a fare le cose
con grande attenzione, come se si potesse ancora fare male, in fondo è stato un
grande scrittore.
Proprio fuori dal portone c'è la due
cavalli del pittore. Mi dice di posare Koch a terra e poi esce, apre il
portellone, tira giù i sedili di dietro, e poi torna a blocca il portone. Fuori
è notte piena, ci sono solo gli alberi immersi nel buio del cortile.
Mentre ci dirigiamo verso il centro
città il pittore mi dice che adesso che ci pensa non ha la più pallida idea di
dove sia la discarica. "Non ci sono mai stato" aggiunge muovendo una
mano nell'aria, nell'altra dà dei colpi al volante. Io non dico niente, resto
zitto a pensare a Koch, a come cazzo era morto e lui dice che allora possiamo
lasciarlo in un cassonetto, che in fondo è la stessa cosa, scendiamo dall'altra
parte della città e lo lasciamo in un cassonetto, magari in un posto fuori
mano, distante da casa sua, nessuno potrà pensare a lui.
Poggio la fronte contro il finestrino
e vedo scivolare fuori le case illuminate dai lampioni silenziosi, c'è quella
situazione irreale nella quale il motore della macchina diventa la cosa più
importante da ascoltare, una cosa del genere. Man mano che procediamo le case
diventano sempre più rade e, ad un certo punto, siamo come in campagna, è tutto
piatto e ci sono campi coltivati, di tanto in tanto si vede in lontananza una
macchina che ci viene incontro con gli abbaglianti, e appena si accorge di noi
mette gli anabbaglianti, poi ci supera e rimette gli abbaglianti, lo vedo dallo
specchietto retrovisore.
"Ma perché in un
cassonetto?" chiedo dopo un po' che guidiamo in questo posto di campi
coltivati, perché non lo lasciamo in uno di questi campi, è pieno di campi
tutto intorno. Il pittore mi guarda come se mi vedesse solo in quel momento,
poi guarda i campi e dice le scarpe, nei campi ci andiamo a infangare tutte le
scarpe.
Inconsciamente guardo verso i piedi e
non vedo niente, è buio.
"Voglio dire, dal fango
potrebbero risalire a noi" aggiunge il pittore, di solito nei film
succede, è una cosa possibile.
All'improvviso ci fermiamo di fronte
ad un cassonetto grigio, appoggiato ad un palo della luce, nel mezzo di un
rettilineo che arriva e si perde nel buio. Il pittore posteggia l'auto, nel
senso che arranca sul bordo della strada, sussulta e si ferma.
Apre la portiera e lo vedo fuori dalla
macchina che fa qualche passo verso il cassonetto, e agita le braccia come per
scaldarsi. Stando dentro l'auto mi sembra che il pittore sia finito in un altro
mondo, è dall'altra parte dal vetro e ho come l'impressione di vederlo come
attraverso un film, ho questa visione di io seduto in questo cinema
piccolissimo e il pittore dietro allo schermo. Poi vedo che fa due passi verso
il cassonetto lo apre, guarda dentro per un tempo che mi sembra lunghissimo, lo
richiude velocemente e torna in auto sbattendo la portiera.
"Beh?" faccio io.
"E' pieno" dice lui
riaccendendo la macchina. "Koch non ci sta lì dentro".
Ripartiamo, e torniamo ad immergerci
nell'oscurità che ci circonda, dallo specchietto vedo il telo bianco che copre
il corpo di Koch, ondeggia appena per il vento che entra dal finestrino che il
pittore si ostina a tenere aperto.
Finalmente il pittore prende una
strada in salita, mette la freccia e si inerpica in questa strada sterrata che
ci scrocchia sotto le ruote e i fari illuminano un fondo di terra rossa e
grossi pietroni.
Continuiamo a salire per una serie di
strettissimi tornanti, il pittore guida e mentre guida cerca con una mano
qualcosa che non trova dentro alle tasche, forse una sigaretta.
"In cima!" mi urla indicando
il buio davanti a sé ma poi si ferma, perché ha trovato quello che cercava un
pacchetto di marlboro.
'Questo prodotto uccide' penso
guardando la grossa scritta nera sul pacchetto che avverte che, insomma, il
fumo eccetera.
"Un ristorante!" aggiunge
finalmente il pittore, mentre il vento gli scompiglia i capelli. Sulla cima c'è
un ristorante, e poi dice che di inverno è chiuso, apre solo d'estate, per le
sagre. "Fuori dal ristorante c'è un cassonetto, lo molliamo lì
dentro!" conclude, indicando il mio compagno, io sto zitto.
Saliamo sempre, curva dopo curva, e il
Koch dietro intanto si sbatacchia da una parte all'altra, va ad abbattersi
contro i nostri sedili, contro le portiere, e io penso meno male che non
dobbiamo togliere le lenzuola prima di buttarlo, avrei paura a vederlo rotto da
qualche parte, un buco, delle dita spezzate senza dolore.
Finalmente arriviamo alla fine di
questa strada, e ci troviamo sulla cima di una collina ripidissima, c'è un
prato nero immerso nel silenzio e un cielo senza stelle sopra, deve essere
nuvoloso. I fari illuminano per un attimo una costruzione in legno, e poi
niente, il pittore ha spento i fari e siamo piombati nella notte.
"Non si vede niente!"
protesto, ma quello è già sceso, è andato dietro ad aprire il portellone per
prendere Koch.
"Poi gli occhi si abituano, dopo
un po'" mi risponde quando scendo dall'auto per dargli una mano.
Il cassonetto è sul limitare della
strada, è incastrato tra due pali metallici per evitare che scivoli sulle ruote
per la discesa ripida.
"Giù" mi dice il pittore, e
si piega per posare Koch per terra.
Un grosso fagotto bianco, sembra quasi
brillare al buio.
Per aprire il cassonetto c'è una
specie di leva laterale, che il pittore non riesce a bloccare: ogni volta che apre
il cassonetto e molla la leva per aiutarmi a prendere Koch, il cassonetto si
richiude. Fa così per due o tre volte, poi si infuria, tira sù di forza Koch e
lo appoggia al cassonetto, apre il
cassonetto e tenendo lo sportello con una mano ci entra dentro, mette l'altra
mano sul bordo, un piede sulla testa di Koch, e fa un salto dentro al
cassonetto che rimbomba sotto i suoi scarponi, deve essere del tutto vuoto.
Da dentro tiene aperto lo sportellone
con il suo stesso corpo e con le mani afferra dall'alto Koch.
"Alzalo!"mi ordina e io
prendo le gambe di Koch, le sollevo e inizio a spingerle verso il pittore che
si mette a tirare e -a un certo punto- sento che il corpo di Koch vola quasi
dentro al cassonetto, mi scappa proprio dalle mani e sento un colpo sordo, e
poi un secondo clangore metallico, io scivolo in avanti, mi ritrovo con la
faccia per terra, le mani sbucciate sulle pietre.
Quando mi rialzo sono solo, non c'è
nessuno, il cassonetto è chiuso.
Mi giro intorno perplesso, non c'è
proprio nessuno.
"Apri!" sento urlare da
dentro il cassonetto. "Apri!" di nuovo e sento come qualcuno che dà
un pugno.
Osservo il cassonetto e capisco che il
pittore è rimasto chiuso dentro.
"Apri!" urla ancora e dice
che da dentro non riesce ad aprire, e c'è puzza, apri cazzo apri!
Allora io mi avvicino al cassonetto e
afferro le due maniglie che stanno in basso e tiro il cassonetto verso di me e
quello scivola sulle ruote, lentamente per il peso e per le due sbarre di ferro
che lo tengono rivolto verso l'alto, ma io continuo a tirare con tutte le mie
forze, punto i piedi finché non sento che si sta muovendo, centimetro dopo
centimetro le ruote lo fanno venire in avanti liberandolo dalle due sbarre e
intanto sento il pittore che urla e che mi chiede cosa cazzo sto facendo e io
continuo a tirare, e più tiro, più il cassonetto si libera delle sbarre e
inizia a sentire l'inclinazione della strada, e diventa sempre più facile da
spostare finché non mi rendo conto che mi sta venendo addosso, fino ad un
secondo prima ero io a tirare, adesso il cassonetto si muove da solo verso il
basso, ha preso la strada sterrata e io mi butto su un lato e vedo che passa
vicino a me, lentamente, ma sempre più rapido, ogni metro prende velocità e lo
vedo che corre verso il basso, sento le urla del pittore sempre più lontane e
io lo seguo da distante ridendo, finché non arriviamo al primo tornante e il
cassonetto a tutta velocità esce dalla strada e sparisce, semplicemente, nel
vuoto.
Quando arrivo ansimando per la corsa
vedo solo un precipizio a picco sulla scogliera, e sotto l'ombra immobile del
mare che non si è mosso per niente.
Tornando verso Reggio Emilia guido
lentamente, vedo i cartelli verdi dell'autostrada che mi rotolano contro,
appaiono dal buio e scompaiono nel buio dietro di me. Dal filo dell'orizzonte
spunta la linea bianca dell'aurora, e io mi dico che devo ricordare quello che
è successo, devo fare l'astrazione è la cosa più semplice, devo uscire dal mio
corpo e vedermi da fuori, come se fossi un personaggio, una persona che non
sono io e che si muove in posti in cui sono stato nel mio passato, così ci sarò
sia io che questa persona che si muove, il signor Bonaventura, ecco, potrebbe
essere il signor Bonaventura che si passa una mano sulla faccia e sente uno che
chiede che ore sono e un'altro che si gira e apre la bocca, magari le cose sono
andate proprio così.
Qualcuno rispose che era passata la
mezzanotte, e il signor Bonaventura pensò che il primo era finito, si era già
nel secondo.
Nella galleria d'arte c'era un gran
casino adesso, si era riempito di gente che a intervalli si accalcava attorno a
un tipo anziano magro con il naso aquilino, che parlava a bassa voce stringendo
il bicchiere di birra fidèl, come se mollandolo avesse rischiato di precipitare
sul pavimento piastrellato.
Bonaventura era stanco, buttava
sguardi attorno per cercare il Koch o -in seconda istanza- il pittore, non si
rendeva conto che quello era il momento topico della serata, tutti erano venuti
per quella mezz'oretta che era appena cominciata, mentre Bonaventura si
innervosiva perché si sentiva stanco o sporco o affamato a scelta, tutti gli
altri entravano nel grande periodo, vedevano quelli che dovevano vedere,
parlavano e dalla loro bocca usciva quella serie di musiche che da tempo
aspettavano di uscire, era il momento tanto atteso per raggiungere il loro
scopo e molti di loro lo stavano effettivamente raggiungendo, la giornalista
americana, Koch, l'amichetto di Koch, il pittore, il semiologo, il vecchio
sanguineti, tutti erano al loro posto a fare la loro parte e tutto stava
andando benissimo, era quello che tutti si aspettavano, l'aria era piena del
fiato delle persone che inspiravano ed espiravano e così facendo si scambiavano
la parte invisibile dell'adrenalina, quella sostanza incorporea che corre sulla
pelle e ti entra dentro e ti fa stare bene ti rende più forte, te lo fa sentire
duro e intelligente, entrare ed uscire, tutta l'aria era piena di spore aliene
che germogliavano ed esplodevano in forme cristalline che tintinnavano per via
delle risate o per via dei movimenti di quei corpi tutti in piedi tesi ad
incrociarsi e a dividersi, era un grande successo, era il momento topico,
quello che dura al massimo mezz'ora, contando i preliminari e gli strascichi, e
tutto stava andando benissimo, c'era un odore di vita nell'aria, c'era la
fertilità che abbracciava tutto l'orgoglio spumeggiante che saliva dagli
stomachi ricolmi di fidel per sgorgare verso il soffitto in colonne ascendenti
cariche di amore e di sopravvivenza, era il momento topico, l'ho già detto, e
solo Bonaventura puzzava.
Puzzava Bonaventura della puzza che
fanno gli ospiti dopo tre giorni la stessa dei pesci, ma lui puzzava già da
prima, ci sono persone a cui succede, si alzano alla mattina e già puzzano di
cadavere, si spostano e fanno le loro cose sacrostante, tutti i santi giorni, e
si portano dietro quell'odore fastidioso, una puzza di morto che ti nasce
dentro quando sei ragazzino e tutti pensano magari crescendo poi migliora,
magari con la pubertà e tutte quelle cose legate alla pubertà poi cambia e
l'odore, non diciamo sparisce, ma si attenua, lo sente solo uno che ci dorme
assieme nel letto, è una scelta, vivere tutta la propria vita con un uomo che
odora leggermente di morte, anche quando ride a tavola anche quando ti sta scopando
nel buio della stanza, un eterno odore di morte che lo accompagna, ecco come
stanno le cose, c'è chi fa una scelta di viverci assieme e magari l'uomo si
dimentica anche di questa cosa che puzza di morto, perché c'è chi ride con lui
a tavola o si fa scopare nel letto, faccio per dire, sono solo degli esempi, e
lui si dimentica di questa cosa che puzza di morto e fa finta di non puzzare di
morte finché non invecchia e non muore, a quel punto la puzza sparisce, tutti
quelli venuti a fare le loro preghiere, a snocciolare il loro rosario, a
fumarsi le loro sigarette fuori dalla stanza, si rendon conto che adesso quel
grosso pezzo di carne non puzza più di morte, semplicemente non puzza di
niente, una faccia tirata, la pancia svuotata, e nessun odore, niente di
niente, tutti che pregano o piangono e tirano su con il naso e non sentono
niente, polvere sei e polvere tornerai, ecco come stanno le cose, ecco come era
Bonaventura con il suo abito rosso e il suo assegno di un milione di euro in
tasca, e l'odore pestilenziale che lo circondava, che ricordava a tutti che
-ragazzi- godetevi la vita che poi si crepa, e tutti godevano, era la mezz'ora
magica ricordate, era il momento topico, non ci eravamo spostati di un
millimetro, eravamo sempre nello stesso posto, tutti erano pronti e solo
Bonaventura puzzava.
Quella notte Koch fece quello che non
doveva fare, sparì nel nulla, fino a un momento prima era lì che ascoltava un
tipo con gli occhiali di osso, un critico che scriveva per un giornale d'arte
sardo, e poi semplicemente era sparito, del tutto sparito voglio dire,
Bonaventura girava tra le persone senza neppure vederle e non trovava il suo
Koch, il vecchio Koch, dannazione, gli occhi di Bonaventura saltavano da un
punto all'altro della stanza, e Koch non c'era, c'erano solo questi cerchi di
persone che aumentavano e diminuivano la loro densita e poi si riunivano di
nuovo e di nuovo si separavano, la versione sudata della simulazione life
quella con i pallini bianchi e neri, e Bonaventura capiva che era solo, che Koch
era sparito, magari il pittore se ne era andato via e Koch lo aveva seguito,
ubriaco, e si era dimenticato di Bonaventura, il vecchio Bonaventura che adesso
correva giù per le scale, fuori da quella dannata galleria d'arte, e fuori non
c'era nulla, solo gente che camminava e qualcuno che correva via, e cosa ti fa
il Bonaventura?, il Bonaventura va a pensare che quello che corre via sia Koch,
che abbia ricevuto qualche messaggino sul cellulare e che sia fuggito senza
pensare all'amico, al buon Bonaventura che adesso si lanciava dentro a un
vicolo, seguendo quella figura scura che scompariva alla fine di una curva e
poi ancora, curva dopo curva, mostrando pian piano che no, davvero no, non era
Koch, era più basso, e aveva le mani con dei guanti neri, vestiva completamente
diverso, non era per nulla Koch, ma stava continuando a fuggire e Bonaventura
lo continuava a inseguire, quello si girava indietro per un attimo,
nell'oscurità della notte e quando vedeva Bonaventura riprendeva la sua folle
corsa, e più continuava l'inseguimento più Bonaventura capiva che quella corsa
era cominciata per lui, per Bonaventura, che quel tipo doveva essere scappato
nel momento in cui Bonaventura era uscito pert cercare il Koch, non era un
caso, quel tipo lo stava aspettando e quando lo aveva visto era scappato a
gambe levate, si fa per dire, e Bonaventura lo aveva inseguito fantasticando
che quello fosse il suo angelo, l'angelo che sempre ci segue, e lui fosse
giobbe, colpito dalla disgrazia divina che cerca vendetta nel giardino di
Stoccolma, e insegue l'angelo per combattere contro di lui e vincere, e così
vincendo continuava a correre , sfinito Bonaventura correva e continuava la sua
corsa senza fine, ma che aveva fatto
bene ad intraprendere perché, ad una curva che dava in salita santa brigida, un
lampione aveva illuminato il viso dell'inseguito, ed era il volto verde del
tipo del treno, quello che aveva spiato Bonaventura fin dalla sua partenza da
genova ecco che continuava a stargli dietro, a tallonarlo, anche nel locale e poi
lì fuori dal pittore, era rimasto fuori ad aspettare Bonaventura per sapere
dove andasse, per sapere quello che facesse, ed ecco che ora gli lanciava
un'occhiata rancorosa, chiudendo le labbra a culo di uccello, e stringendo il
bavero del cappotto a coprigli il piccolo petto, ecco che riprendeva la sua
corsa per salita santa brigida, arrancando scalino dopo scalino e sconoscendo,
il tipo dalla faccia verde, baffetti
mefistofelici e la bocca a chiusura di culo, che la scala di santa brigida di
norma -è vero- conduce nella parte alta di Reggio Emilia, ma in quel
particolare periodo in cui si svolgono i fatti da noi narrati, portava solo ad
un giardinetto rifugio estivo di tossicodipendenti sciancati che si facevano le
pere sugli scivoli made in usa destinati a bambini futuri consumatori, e
sconoscendo pure che la parte finale della scalinata era chiusa per i lavori di
"Reggio Emilia centro europeo della cultura 2002", mai terminati per
un ricorso legale di una delle ditte che avrebbero dovuto avere il subappalto
dalla regione e poi erano state scartate per favorire un'altra azienda di
costruzioni tanto cara a un tipo a roma di cui non possiamo fare il nome, anche
perché non esiste ci stiamo inventando un po' di cose verisimili di sana
pianta, e quindi, per farla breve, la scala era stata demolita nella sua parte
finale, quella in cemento armato, per rifarla con laterizi fichetti che
giacevano in un magazzino all'aperto a Montebello di Battaglia e si
sbriciolavano anno dopo anno, e quindi, siamo a fine periodo, la famosa salita
di santa brigida aveva preso il nome gergale di salita degli spilli, o salita
delle spade, in riferimento alle summenzionate siringhe che bella vista
facevano di sé lungo l'improvvisata via crucis dei tossici costretti a farsi
qualcosa come settecento scalini prima di potersi fare un po' di roba in
assoluta pace, parlo di quella eterna.
Così si trovarono di fronte l'uno
all'altro, parlo di Bonaventura e del tipo del treno che ansimava per la lunga
corsa e guardava con rabbia la transenna rossa e bianca che gli impediva la
fuga verso l'alto, era bloccato in quei giardinetti di asfalto, dove solo gli
scheletri dei giochi per bimbi svettavano con la loro scura ombra contro il
freddo cielo notturno, e a quel punto il tipo si voltò verso Bonaventura che
era arrivato pure lui e si era fermato, mettendo le mani sopra le ginocchia
piegate, come se questo potesse aiutarlo a riprendere fiato, era distrutto dal
viaggio e dalla corsa, fissava il pezzo di mondo sui cui poggiavano i suoi
piedi, senza vederlo, e di tanto in tanto alzava la testa verso il suo
antagonista, per paura che potesse sfuggirgli, adesso che l'aveva preso in
trappola.
"Chi sei?" chiese
Bonaventura nel silenzio rotto solo dal rumore continuo della automobili, in
ogni parte del giorno e della notte c'è sempre qualche automobile che gira, c'è
sempre qualche persona rinchiusa in quel metro quadrato di spazio, che guida da
un punto all'altro, gente persa nell'inizio del suo lavoro notturno o gente che
si sta fottendo la parte finale della sua giornata, le braccia aggrappate sul
volante, l'autoradio che rimbomba uno
nel sedile dietro che ti parla e ride gesticolando con gli occhi iniettati di
sangue e niente, tutto questo fa rumore, il continuo rumore delle automobili,
in ogni città non esiste veramente un momento in cui *tutte* le automobili si
spengono, un secondo, un attimo, in cui nessuna auto sta girando per la città,
in cui ogni cosa è ferma, magari uno che gira con il cane per le strade e
osserva i semafori lampeggiare il loro giallo idiota , uno che non riesce a
dormire perché ha una cosa che gli rovina la testa e allora dice al proprio
cane, su fedele bell, facciamo un giro supplementare per la piscia, e così esce fuori e si trova in questa città
senza rumori, nessuna auto che si muove,
i televisori muti, il niente, per un momento soltanto il tipo con il
cane sente questo niente e allora si rende conto del qualcosa, come quella
teoria che i pianeti girando producano rumore, ma essendo un rumore continuo
noi non lo sentiamo, eccetera, prendere appunti su chi abbia scritto una cosa
del genere, temo siano i greci, ecco i pensieri che attraversavano la testa del
povero Bonaventura quella sera, chi sei chiese in quel preciso frammento di
tempo in cui tutta la città si era fermata Bonaventura al tipo con la faccia
verde e il tipo tossì, crollò le spalle e con una voce squillante e nasale
disse che lui era Strindberg.
"Uh" fece Bonaventura.
"Il famoso scrittore di origine svedese, amico di Nietzche e di Emil
Zolà?"
"In persona" rispose il tipo
facendo un leggero inchino.
"Temo che lei sia morto nel
1912" aggiunse Bonaventura con il viso di chi ha il timore di anticipare
una brutta notizia a chi non l'ha ancora ricevuta ufficialmente.
Il tipo scosse la testa esprimendo
commiserazione. "Non sono l'originale -precisò- sono la
reincarnazione".
"Ah" fece Bonaventura senza
pensare a niente. "Piacere" aggiunse dopo un attimo tendendo la mano.
Per farla breve venne fuori che questo
Strindberg era un tipo di Varese Ligure che verso i trent'anni aveva capito di
essere la reincarnazione di Strindberg vero, quello morto nel 1912, perché
tutte le cose che gli succedevano poi le ritrovava scritte paro paro nei libri
dello scrittore e drammaturgo svedese. Si era infoiato allora nel leggere e
studiare i libri di Strindberg, si era divorato tutta la croce nera
strindberghiana, dai drammi da camera, ai romanzi nietzchiani, fino alle
improbabili favole per bambini stampate da feltrinelli per errore o al primo
dei sette tomi di L'opera narrativa della Mursia, i cui voluminosi resi
invenduti avevano portato ad una saggia soppressione dei restanti sei, mai
stampati.
Era qui il problema.
Pare che la reincarnazione di
Strindberg, per oscuri disegni cari solo ai buddisti, non conoscesse una sola
parola di svedese, e questo aveva posto un grave limite nella lettura
dell'opera omnia del prolisso autore nordico, circoscrivendo la conoscenza
della precedente vita del tipo di Varese Ligure ai soli testi tradotti in
lingua italiana che, considerando la sterminata produzione strindbeghiana,
erano come cacate di piccione schizzate su di una immensa scogliera immersa
nelle tenebre.
"Capisce -diceva la
reincarnazione gesticolando- qua in
Italia abbiamo venti edizioni de La stanza rossa, che è un po' l'hit single di
Strindberg perché fa ridere, ma niente degli studi sulla vita dei contadini
francesi della fine del milleottocento, niente zibaldone di riflessioni
alchemico-filosofiche, niente Sylva Sylvarum in cui Strindberg scrisse capitoli
di mistica ecologica tipo il ciclamino illumina il grande disordine e la
coerenza infinita, niente di niente!".
"Una grave perdita" ammise
Bonaventura facendo la faccia contrita. "Ma cosa c'entro io?"
aggiunse poi, mettendo le dita in modo da formare la famosa figura della
piramide egiziana.
La reincarnazione allargò gli occhi
per mostrare stupore e poi dise beh, lei ha scritto questo! e il questo! era un
libro che il tipo tirò fuori da una tasca dell'impermeabile, e la copertina del
libro ricordava in effetti qualcosa a Bonaventura, le nere parole del titolo
recitavano STRINDBERG E LA PROGRAMMAZIONE LOGICA e Bonaventura pensò cazzo,
cazzo quel libro!
Strindberg e la programmazione logica
era un libro fasullo, una delle toppe scritte ad hoc in un pomeriggio, per
tappare qualche conferenza improvvisata malamente, che doveva aver causato come
strascico la richiesta di questo essenziale tomo citato nella bibliografia.
Bonaventura aveva preso dallo scaffale in basso della libreria del salotto il
manuale di Programmare in Prolog di clocksin-mellish, dallo scaffale in alto
Inferno di Strindberg, e dalla porta del bagno che sbatteva continuamente per
la corrente, il fondamentale fermaporte Godel escher bachdi Hofstadter, e si
era messo di buzzo buono a copiare e incollare periodi ora dall'uno ora
dall'altro, con risultati particolarmente suggestivi come:
Se si introduce la natura del ciclamino
di crescere con un cotiledone, per avere un comportamento corretto con una
struttura sintattica di una certa forma, non c'è alcuna garanzia che il
comportamento abbia ancora senso nel caso appaiano strutture sintattiche con
altre forme, quelle che Strindberg definisce 'protralli di crittogrami'.
Insomma, un centone spurio senza ne capo
ne coda, che però doveva aver convinto lo sconosciuto professore torinese che
lo aveva richiesto e che -ora- Bonaventura intuiva essere stato soltanto un
prestanome per la fame di conoscenza della reincarnazione strindberghiana.
"Lei ha scritto questo capolavoro
-disse il tipo di Varese Ligure indicando il tomo- e solo a lei debbo la
citazione in italiano di testi mai tradotti dallo svedese".
"Lei non sa quanto è fortunato.
Torniamo di sotto, le offro un maraschino" disse Bonaventura con
l'accondiscendenza universale che si usa con i pazzi, indicando la scala che
discendeva verso il basso.
Durante il percorso che riportava nel
centro città, la reincarnazione di Strindberg continuò a parlare ed arricchì il
suo confuso racconto, era stata la lettura del testo del Bonaventura che aveva
convinto la reincarnazione dello svedese a lasciare Varese Ligure per
intraprendere la missione che avrebbe radicalmente modificato la sua vita,
ovvero lo avrebbe portato a quella metempsicosi della memoria, per dirla con le
parole del poeta, passando per la lettura delle pagine ancora a lui precluse
dello Strindberg numero uno.
"Un corso di svedese?"
azzardò ingenuamente il Bonaventura, e la reincarnazione abbassò gli occhi
stringendo i pugni, e disse che no, che già ci aveva provato con scarsi
risultati, anzi scarsissimi, sapeva a stento dire kvala che voleva dire,
'grazie', ma in polacco, in svedese non lo sapeva, dannate ragazze polacche dai
capelli color biondo-cenere e le tette calde. "Le svedesi -spiegò meglio
Strindberg- le ragazze svedesi sono la versione in fast forward di dorian grey,
quando ne vedi una davvero fica scopri che ha quindici anni, il che non è di
per sé un problema, se non fosse che superata la fatidica soglia dei sedici
anni la pelle di queste bianche bellezze nordiche assume una tonalità rosso
ubriaco, la faccia si gonfia come se si fossero siliconate le guance e il corpo
straborda in rotoli grassosi cumuliformi, insomma dopo i sedici anni le svedesi
diventano tedesche, povere donne".
Bisogna restare per forza sotto i
quindici, concludeva Strindberg perso in questa divagazione coitale e il
Bonaventura annuiva e rispondeva che -in generale- il problema dei ragazzini o
delle ragazzine era che a Bonaventura piacevano, lui credeva che l'umanità non
crescesse partendo da zero e diventando
man mano adulta e poi vecchia e poi amen, in un processo omogeneo di sviluppo.
"Sono tutte cazzate per femminucce" affermava serio Bonaventura
scendendo gli scalini, roba zen. "In realtà noi entriamo in possesso di
una serie di esseri man mano diversi, pur mantenendo il nostro nucleo più
interno che è poi quello che ci permette di ricordare le cose, ameno una parte.
Quindi una ragazzina non è un qualcosa che diventerà una donna -proseguiva il
Bonaventura- ma è un essere posseduto temporaneamente da qualcosa che poi in
seguito possederà un essere donna e così via, questo per dire che le ragazzine
sono esseri finiti, capaci di fare cose che le donne non possono fare, hanno
una loro dignità e una loro identità, tutta quella roba dell'educazione, della
formazione, del plagio sono tutte cazzate venute su in quest'ultimo secolo con
le scuole dei professori tedeschi che hanno avuto la bella idea di insegnarci
cosa pensiamo dentro di noi, e invece quelli si sono solo inventati delle storielle,
e noi a crederci e a fare leggi adeguandoci a storie inventate è una follia. Le
ragazzine sono esseri completi, ecco quello che penso io, esseri completi che
sanno benissimo cosa vogliono e come ottenerlo".
Bonaventura si passò una mano sul
volto, come per riflettere ancora e poi aggiunse: "L'unico appunto che
faccio è per l'odore, le ragazzine a quest'età puzzano, sono esseri dignitosi
ma puzzano c'è poco da fare".
"Amen" disse Strindberg e si
fece il segno della croce, per poi riprendere il filo del suo discorso
interrotto, parlava stringendosi nervosamente nel cappotto, acciambellando le
mani l'una dentro all'altra, si guardava attorno con sospetto, con il suo
visino verde che fiammeggiava nell'oscurità della notte, mescolava assieme
fierezza e timore mentre apriva la bocca e tirava fuori le cose che doveva
dire, nello specifico che quella sera l'avrebbero fatto, sarebbero entrati
nella sua casa e gli avrebbero rubato i manoscritti, tutti i manoscritti e
soprattutto quello che gli stava più a cuore, le ultime pagine del libro blu,
scritte frettolosamente dallo Strindberg pochi minuti prima che uscisse dal suo
appartamento a stoccolma, scendesse le scale avvolto nel cappello e nel
pastrano nero, e si avventurasse nella tormenta di neve che frustava le vie
nordiche sbattendole nell'indistinto bianco della morte. "Da quell'ultimo
viaggio mai più ritornò Strindberg -si
lamentava la reincarnazione- e io ricordo distintamente che in quelle ultime
pagine era scritto qualcosa di importante, qualcosa che avevo scritto proprio
perché la mia vaga memoria di ottuagenario non le perdesse per sempre". A
queste parole la reincarnazione tirò su di naso, come se il ricordo della sua
precedente morte lo avesse commosso. "Insomma devo rileggerle, dobbiamo
penetrare in casa sua" concluse passandosi la mano guantata nello spazio
di pelle presente tra naso e inizio labbra, là dove spesso crescono ispidi
baffi.
"Casa sua, nel senso casa di
Strindberg?" chiese perplesso Bonaventura nel silenzio che si era creato.
"Casa sua nel senso di
Perelli!" rispose Strindberg indignato.
"Perelli..." disse
Bonavenuta annuendo e pensando chi cazzo fosse Perelli, dissimulando la
completa ignoranza delle parole che il tipo di varese distribuiva attorno a sé.
"Quel maledetto non solo si è tradotto
tutte le opere di Strindberg e le tiene per sé in una cassaforte nascosta nella
camera da letto, ma ha anche acquisito il fondo Codignola, l'unico altro grande
studioso e traduttore dello Strindberg in Italia" spiegò la reincarnazione
indicando con i guanti un punto invisibile tra loro e la città addormentata.
"Due soli traduttori decenti di Strindberg, che hanno tradotto -sì- ma per
se stessi, e ora solo Perelli può godere del Sylva Sylvarum, della relazione
dei contadini francesi, dell'epistolario con Swedenborg!" continuava a
parlare ed accusare la reincarnazione, e più parlava più si infoiava e il suo
volto prendeva ombre smeraldo che baluginavano pallide.
Bonaventura corrugò la fronte, come se
grandi pensieri gli attraversassero la testa, mentre era la frase 'swedenborg
tennista?' che gli arrivava dallo stomaco fino alla punta del palato e poi si
affossava in quella zona invisibile della bocca dove una sorta di naturale
freno inibitore faceva arenare frasi sfortunate che non avrebbero portato nessun
vantaggio al rapporto Bonaventura-Strindberg, cosicché Bonaventura camminava
come perso in profonde riflessioni, ripetendo dentro di sé "swedemborg
tennista?", "swedemborg tennista?", "swedemborg
tennista?", quasi una sorta di mantra laico che si riproduceva
prendendendo lo spazio deputato ad altri tipi di ragionamento, probabilmente
più sensati, in fondo il cervello umano ha bisogno dei suoi virus, di piccoli
niente che macinino se stessi ripetendosi ad occupare tutta la memoria
disponibile, a saturare tutti i processi interni, virus che sono la voglia di
fottere, faccio per dire, oppure l'immaginarsi di diventare un grande
conferenziere che tutti aprono la bocca quando passi per strada, oppure la
parola sofficicini findus il sorriso che c'è in te, o anche lines liberty non
si muove, tu muoviti quanto vuoi, o anche microprocessore a sei gigahertz a bus
sessantaquattro bit, o cose di questo tipo, di esempi se ne possono fare tanti,
roba che moltiplica la sua immagine per saturare il processo principale, il
grande task che è partito all'avvio e procede continuamente fino alla sua fine,
che è il timer che tiene conto di quanto manca allo spegnimento, ecco diciamola
tutta, il grande processo che tutti questi virus cercano di mettere in
background è questo piccolo timer, un programma del cazzo tipo x = x + 1 , se x
è uguale o superiore a 20000000000000000, allora quitta, esci, fai il tuo
dannato shotdown, se è inferiore, beh torna all'inizio, ecco questo è il grande
processo ridotto all'osso, e tu nasci e ti rendi conto che questo è il processo
che ti tieni dentro, una specie di timer bomba che ci condanna e insieme è lo
scopo della nostra vita, portare a termine quel dannato timer che quando
finisce si spegne, tutti i processi sono finiti, ci preoccupiamo tanto che
nessuno ci ammazzi da fuori quando è dentro la nostra morte, e allora
swedemborg tennista, pensava Bonaventura, swedemborg tennista, ripeteva e
ripeteva per fare silenzio dentro di sé, swedemborg tennista.
"Capisco" mentì invece
Bonaventura, e chiese cosa centrasse lui (Bonaventura) in tutta questa storia,
voglio dire, lui non era la reincarnazione di nessuno, o almeno non se lo
ricordava.
Strindberg si fermò sul fondo della
scala e si voltò a fissare con attenzione il compagno. "Lei mi deve
aiutare. Solo una persona della sua sensibilità (tirò fuori il tomo di
Strindberg e la programmazione logica)
può capire il mio stato e farsi compagno di questa mia missione di conoscenza,
solo lei" disse e aggiunse che lui (Strindberg) era solo ed aveva bisogno
di un compagno, qualcuno che avesse il coraggio di penetrare con lui
all'interno di casa Perelli e trafugare le sue traduzioni, anche perché
Strindberg era cinofobo.
"Prego?" chiese Bonaventura.
"Perelli ha un cane. Un orrendo botolo di nome Bell che si trascina
penoso di stanza in stanza e che abbaia con colpi mostruosi ed inumani"
confidò Strindberg con vaghi gesti nell'aria, con le mani. "Ed io ne sono
terrorizzato" concluse, specificando però che la cosa lo faceva contento
perché anche lo Strindberg vero detestava i cani.
Bonaventura rimase silenzioso ad
osservare la nuca del suo interlocutore, e poi -oltre- la città avvolta ancora
nel buio della notte, su cui aleggiava il chiarore strano ultravioletto di
quella cosa che poi, con opportuni spostamenti celesti, diventerà un aurora.
"D'accordo" disse
Bonaventura tirando su di naso. "La aiuterò, ma si ricordi che do ut
des"
"Uh? E' svedese?" chiese
Strindberg voltandosi ad osservare il volto assonnato del compagno.
"No, latino, vuol dire che sto
per crollare dalla stanchezza e non ho un posto dove andare a dormire".
Il tipo di Varese Ligure sorris e
disse che non c'era problema, che lui aveva preso in albergo una camera
matrimoniale.
"Matrimoniale nel senso?"
chiese Bonaventura.
"Nel senso" rispose Strindberg
tornando a fargli strada verso il basso.
Il posto dove si teneva il famoso
laboratorio di scrittura ricercare era una struttura antica a due piani, il
tipico posto post-fichetto, soffitti altissimi, affreschi, stucchi bianchi,
marmi, tavolozzi in legno, e la grande sala delle letture che era la versione
messa a lucido di una qualunque aula magna di un qualunque liceo classico
provinciale.
Il posto era gremito di tutto quello
che ruota attorno al reparto editoria: scrittori, editori, poeti laureati, agenti
letterari, giornalisti, artisti in genere, avvoltoi, politici e critici, tutti
mescolati ad un pubblico di aspiranti scrittori, aspiranti editori, aspiranti
poeti laureati, aspiranti agenti letterari, aspiranti giornalisti, aspiranti
artisti in genere, aspiranti avvoltoi, aspiranti politici e aspiranti critici,
in un frullamento di membra che andava stringendoli ed allargandoli, fino a
farne un indistinto pastone, di per sé ben diviso per casa editrice, città,
giornale, corrente letteraria, fonte di stipendio e altre cose del genere.
"Dio mio" disse Bonaventura
entrando nella bolgia e cercando con gli occhi il Koch, che doveva essersi
fatto piccolo piccolo per il terrore, era sparito.
Mentre il Bonaventura, forte dei suoi
due caffé e perplesso ancora per il fatto di essersi svegliato con un braccio
dello Strindberg sotto alla maglietta alla pelle che giochicchiava (lo
Strindberg) con i suoi (di Bonaventura) peletti capezzoidali e un secondo
braccio infilato sotto alle mutande sue (del Bonaventura) mentre tirava (lo
Strindberg) dolcemente e poi mollava svariati peletti pubici (del Bonaventura
ovviamente), perplesso -dicevamo- per il fatto di aver trovato la cosa
tutt'altro che spiacevole (sempre Bonaventura), mentre lui, dunque, forte dei
suoi due caffé presi con lo Strindberg sotto l'albergo che faceva finta di
nulla (lo Strindberg, non l'albergo) ma ogni tanto si passava una mano sotto i
baffetti ispidi (sempre lo Strindberg qui, fino a fine periodo) e aspirava
voluttuosamente gonfiando il suo viso verde, ecco, mentre il Bonaventura forte
dei suoi due caffé girava la testa ora a destra ora a sinistra a cercare
il Koch, una voce amplificata avvertiva
che si iniziava e si lanciava in una presentazione e ringraziamenti vari a
tutti gli enti e tutti i politici che avevano sganciato i soldi anche
quell'anno per la manifestazione che eccetera, tradizionalmente eccetera, la
letturatura eccetera, eccetera, le solite menate ad uso e consumo dei giornali
regionali.
E qui avveniva questa esplosione
centripeta, nel senso che mentre nella sala centrale cominciava la
rappresentazione per la quale tutto il pubblico era accorso, nelle salette
laterali si dava avvio a un incontro sommesso e sussurrato di scrittori ed
editori, tutti preoccupati a scambiarsi diritti di autore come se fossero
figurine panini, con tanto di serie a, b e c e anche di scudetti, ogni tanto
veniva fuori anche uno scudetto, e poi mani che si tendevano gente che guardava
il soffitto e la stessa atmosfera che il Bonaventura respirava durante le sue
non frequentissime gite allo smau milanese, gente in giacca e cravatta che dice
la parola tecnologia tante di quelle volte che alla fine tutti si rendono conto
di quale surrogato medioevale sia questa tecnologia in conto deposito, e qui
era uguale, la parola scrittura veniva usata come intercalare di tanto in
tanto, fino ad assumere il suo reale significato, che era merce, era prodotto,
era quello che veramente era e non quella cosina colorata e complessa che il
Bonaventura si sognava quando, tredicenne pene al vento, sfogliava i magici
libri misteriosi del lovecraft, vedendo i cento anni di solitudine della sua
casa usher crollare in una pletora di ciabatte scompagnate che volevano poi
dire, fuor di metafora, quando culicchia era qualcuno poteva ancora immaginare
il Bonaventura che la scrittura avesse dentro di sé un suo significato, a
prescindere da quello che veniva fuori mettendo tutti quei segni in fila
indiana, da sinistra verso destra, e con quel bel salto della testa da destra a
sinistra che altre popolazioni -bontà loro- non hanno, ma che è tanto simile al
respiro, nessuno ha mai notato che si parla soltanto buttando fuori aria?
nessuno ha mai fatto caso che miseria sia rantolare via concetti tanto da
doverli allontanare da sé con un invisibile rutto nascosto -quello sì-
all'interno dei dittonghi legati in un periodare così stancante? Ecco: quella
rappresentazione, quella cianfrusaglia di scrittori ed editori, quei volti tesi
e rilassati, mostravano chiaramente che dentro alle parole non c'era niente di
nascosto, nessun rutto messo per iscritto, le parole erano davvero soltanto
quello che erano, ovvero stringhe alfanumeriche che in determinate situazioni
fortunate potevano assumere un senso per chi avesse la pazienza di tradurle in
quei semplici concetti base ben catalogati nei vari dizionari uso scuole medie.
Quesi erano i pensieri del Bonaventura
mentre da distante vedeva il corpicino del Koch, abbandonato solo su di una
sedia maron nel mezzo del salone, completamente fottuto dalla stanchezza, con
gli occhi rossi dal sonno, con la testa che ciondolava e che di tanto in tanto
crollava nel mezzo del petto, per poi risollevarsi, come un pallone aerostatico
giunto alla sua cosiddetta fase diapason, nella quale si accascia e si rialza
non avendo abbastanza gas nervino per slanciarsi in alto ma non così poco da
rilassarsi a terra come un, boh, budello suino, sono solo immagini.
Bonaventura si sedette a fianco del
Koch che, quando si accorse dell'arrivo del compagno, disse a bassa voce domani
mi ammazzano, nient'altro che questo , domani mi ammazzano.
In quel momento la giornalista
americana salì i suoi tre gradini e iniziò a leggere al microfono, muovendo la
grossa bocca viola, e -per quanto Bonaventura si mettesse di impegno- non si
sentiva niente, solo un continuo rumore di bocca.
L'editore si leccava i baffi e diceva
a Bonaventura trecentomila battute di coiti, ecco quello che Bonaventura doveva
scrivere, e lui lo avrebbe pagato, ovviamente tutto sotto pseudonimo, tipo
madame e poi un nome in francese, e
nella biografia ci mettiamo che sei una troia e Bonaventura rispose che mai
biografia fu più azzeccata.
Intorno ai due, editori ed autori si
toccavano e sorridevano, masticando il freddo buffet riservato agli addetti ai
lavori.
"Poi mi serve un'altra cosa"
aggiunse il mentore stringendo tra le dita i folti baffetti morbidi.
"Ho l'herpes" fece
Bonaventura tirandosi indietro.
"Cretino" disse l'editore, facendo sbucare da sotto la
giacca una copia delle Undicimila verghe di Apollinaire.
"E' un presente?" chiese
Bonaventura sospettoso, e l'editore disse che no, che si dovevano contare i
coiti.
"Prego?"
"Esce una nuova collana di
saggistica pornografica" spiegò, e il primo libro lo scrive un giovane
universitario molto promettente con una ricerca sul numero di coiti presenti
nei classici dell'erotismo, e insomma parlando viene fuori che questo giovane
promettente è il figlio dell'editore e alla fine il libro lo sta scrivendo
direttamente il padre, l'editore, perché il figlio quando legge i libri porni
si fa le seghette e perde i conti è un disastro.
Ma l'editore da solo non riesce in
questa impresa, si vede che anche per lui è una cosa stancante, e quindi sta
subappaltando pezzi di libro a tutti quelli che incontra, e tutti i dipendenti
della sua casa editrice "Il fagiuolo" sono stati messi sotto a
contare coiti, dalla donna delle pulizie alla nobile schiatta degli scrittori.
Bonaventura prese il libro in mano e
iniziò a sfogliarlo.
"Ma coiti maschili o
femminili?" chiese alzando gli occhi dalle pagine, e l'editore alzò le
spalle e disse tutti e due.
"Un attimo, un attimo"
protestò il Bonaventura mettendosi due dita all'incrocio degli occhi. "Per
coito intendi che gode lui, che gode lei, o che godono entrambi?" chiese.
L'editore sbiancò. Disse che quelli
erano sofismi, che se due scopano è coito, senza farsi tanti problemi.
"E se due scopano e l'uomo viene
e la donna no, è coito?"
"Si capisce!"
"E se lei viene due volte e lui
una, come lo conto, coito unico o sono tre coiti?"
L'editore sembrava perplesso, a questo
non aveva pensato e Bonventura rincarò la dose. "E come stabilisco se il
coito è coito, voglio dire, se lui viene è coito? Ci deve essere sperma? E lei,
come capisco se ha goduto o se ha solo simulato? Oppure se lui la sta scopando
e mentre la scopa da davanti uno la scopa da dietro, ecco una cosa del genere,
come faccio il calcolo? E se uno dei due, quello che se la incula, faccio per
dire, ad un certo punto la strangola per troppa passione, e quella crepa senza
aver goduto, e poi lui esce, e esce anche il suo collega, mettiamo che vogliano
tenersi carichi per la figlia della assassinata, ecco, in un caso del genere
cosa conto, niente coito perché nessuno dei tre ha goduto e una è pure
morta?".
L'editore a quel punto si mise le mani
nei capelli, li avese avuti, infatti era calvo e si passava le mani sul cranio
raso, forse per abitudine e diceva a Bonaventura ragazzo tu mi crei più
problemi di quelli che mi risolvi.
Alla fine venne fatta una scelta di
comodo: è coito ogni rapporto tra uomo e donna, o uomo e bestia, che arrivi
all'orgasmo o meno. Ogni personaggio attivo o passivo che partecipi al coito
crea coito.
"E se è morto?" chiese
Bonaventura.
"Trattasi di soggetto
passivo" spiegò con fare colto l'editore. "Anche se cadavere sta
coitando".
"Quindi due che scopano, uno
viene uno no, sono due coiti?" chiese Bionaventura un po' stupito.
"Sì" ammise perplesso
l'editore.
"E se uno, quello che ha goduto,
alla fine fa un pompino a chi non ha goduto, ricade nei primi due coiti o ne
crea un terzo?"
"Sono quattro coiti in tutto,
l'uomo che scopa e gode, l'uomo scopato che non gode, l'uomo che pompina e non
gode e l'uomo pompinato che gode"
"E se uno sta guardando alla
finestra e si eccita e non viene?"
"Oh vaffanculo ridammi il
libro!" esclamò l'editore esasperato buttando le dita contro il povero
tomo dell'Appolinaire.
Bonaventura nascose il tomo dietro
alla schiena, facendo anche un passo indietro. "Scherzavo" disse, i
soldi sono soldi. Avrebbe contato i coiti, ma quanto lo avrebbe pagato
l'editore, un tot a coito? L'editore scosse la testa, disse che un tot a coito
sarebbe finito in disgrazia, lo avrebbe pagato un tot a libro e allora
Bonaventura disse che era ingiusto, non poteva mettere sullo stesso piano un
libro come le undicimila verghe che trasudano coiti ogni pagina, con -chessò-
il deserto dei tartari che forse ce ne è uno, non si ricordava neppure.
"Il deserto dei tartari non è un
testo erotico" disse l'editore sospettoso e Bonaventura disse che -boh-
dipendeva dai punti di vista, a lui buzzati lo faceva venire duro.
"Nella mia collana non c'è"
rispose l'editore mostrando una certa fretta.
"Forse mi sbaglio, forse è
Verga" aggiunse Bonaventura e l'editore disse che quello sì, di verghe
nella sua collana era pieno e si mise a ridere per simpatia con se stesso.
Il corpo di Perelli giaceva a terra,
in una pozza di sangue e Strindberg continuava a dargli mazzate sulla testa con
quello strano candelabro a otto punte, e ad ogni mazzata Strindberg mandava un
urlo soffocato, quasi un gorgoglio della gola.
Bonaventura si passò una mano sul
polso destro, osservando con preoccupazione i segni viola della dentata del
cane, il povero Bell, pace all'anima sua, adesso riposava per sempre a fianco
del caminetto.
Poi si avvicinò alla scrivania dello
studioso, illuminata dalla luce fioca del secondo candelabro acceso e fumante,
e vide lì, in bella vista, la traduzione dell'ultima pagina dello svedese, le
ultime righe vergate dallo Strindberg originale prima della sua morte, e messe
in buon italiano dal Perelli.
Era un semplice foglio bianco, scritto
a penna, e sotto c'erano delle annotazioni del Perelli su alcune sfumature di
significato e poi caro amico, ti invio la mia traduzione delle ultime parole
dello Strindberg prima della morte per chiederti consiglio sull'uso del termine
'debito' in un caso come questo, eccetera, certo di una tua pronta risposta, et
ceteram tuo franco perelli.
Si voltò un attimo verso Strindberg
che continuava a devastare la testa grigia del Perelli, e poi lesse quelle
righe tanto desiderate dallo Strindberg di Varese Ligure:
La
serva deve avere di nuovo toccato i miei libri. Credo ne manchi uno, ma non so
quale.
Ricordarsi
di pagare il debito con il panettiere. Verificare la somma richiesta, deve aver
ritoccato i pesi della sua bilancia!
Oggi ho trovato per terra un pezzo di
pietra a forma di oca e me lo sono messo in tasca. Non lo trovo più.
Non c'era altro. Bonaventura rimase in
silenzio a fissare la pagina bianca e quegli inutili segni neri e poi annunciò
che aveva trovato la pagina, eccola, disse voltandosi verso Strindberg e
indicandola.
Girandosi, il soprabito rosso si
impigliò con uno dei braccioli del candelabro che oscillò per un attimo e poi
cadde pesantemente sui fogli della scrivania, con una vampata solenne ed
improvvisa.
Così rimase immobile Bonaventura,
mentre vedeva le fiamme che si alzavano verso l'alto a lambire il soffitto e la
figura spettrale di Strindberg non dire niente, stare zitta e fissare quel
fuoco senza voce che saliva in fumo verso l'alto e Bonaventura si chiese cosa
sarebbe successo da ora in poi, cosa farai domani povero Bonaventura, ora sei
venuto al paragone pensava Bonaventura, 'cosa farai domani Bonaventura?' si
chiedeva, cosa farai domani di fronte a quelli che aspetteranno le tue parole,
di fronte a Strindberg che adesso vorrà sapere cosa c'era scritto in quel
dannato foglio, se tu avevi avuto il tempo di leggerlo, e cosa farai domani di
fronte a Koch che ti chiederà se sei pronto, che il suo momento topico è arrivato,
che tocca a lui leggere, e che tu dovrei parargli il culo, come promesso, per i
tuoi amati bonifici, allora, cosa farai Bonaventura domani, cosa farai?
Beh Bonaventura, tu ti sveglierai,
questo capita a tutti, la mattina ci si sveglia, prima o dopo ci si sveglia e
si aprono gli occhi e anche tu domani aprirai i tuoi occhi e tutto ti sembrerà
diverso, ci metterai un po' a capire dove sei finito, perché ti ritroverai
nella stanza da letto dello svedese, anche lui nel tuo stesso letto e anche lui
perplesso a cercare le lenti a contatto che la sera prima aveva buttato in un
barattolino rosso e poi -nei vostri sussulti nel cuore della notte- aveva
sentito cadere per terra e rotolare sul pavimento di finto palquette ikea che
scricchiolerà soffice sotto al suo peso, adesso che è sceso a cercare, cito,
"quelle cazzo di lenti a contatto", e tu lo osserverai piegarsi come
i cani e rivedrai alla luce del primo mattino il sedere dello Strindberg di
varese ligure e penserai quanti peli, dannazione quanti peli che ha sulle
chiappe e quante brigole rosse, questa notte la tua lingua ci ha scivolato
sopra ma tu eri tutto infoiato e non hai sentito niente, adesso il solo
pensiero che hai leccato quella parte del culo dello svedese ti farà schifo,
anche perché non avrai più voglia di scopare, di stare nel letto di un tuo
simile, di uno che ti somiglia fin troppo, e allora ti alzerai e senza dire
niente andrai al cesso e penserai che quello che ci vuole è una bella doccia,
ecco quello che penserai, proprio una bella doccia, ecco cosa ci vuole di primo
mattino, dopo una scopata del genere, una scopata dannatamente lunga, una di
quelle che dici cazzo questa è una scopata da ricordare, e invece l'unica cosa
che tu vorrai fare sarà di dimenticare tutto, di dimenticare in maniera così
compiuta da poter dire che non era mai successo, ecco cosa penserai e poi
penserai anche, dove cazzo tiene lo shampoo questo imbecille, ti guarderai
attorno e vedrai una cosa proprio sulla specchiera, posata tra il pettine e la
crema ai cetrioli, una cosa nera che tu guarderai senza dire niente, ti
sembrerà di essere in una scena di un film o una cosa del genere, e ti
avvicinerai a quella cosa e vedrai la tua faccia finalmente dall'altra parte
dello specchio, un tuo sosia riflesso identico a te che prende quella cosa e la
stringe nalla mano, guardandola con la curiosità con cui si guarda una bestia
amputata, faccio per dire.
Una rivoltella, ecco cosa vedrai
stretta nella mano del tuo sosia, niente bestie amputate era solo un esempio,
una rivoltella lucida e nera e fredda, al tatto probabilmente fredda, il tuo
sosia allo specchio la stringerà e la alzerà in alto, per guardarla meglio in
tutte le sue parti, non aveva mai stretto una rivoltella il tuo sosia, mai
vista una rivoltella, e poi tu aprirai l'acqua della doccia, per far capire al
tuo compagno che stai facendo la doccia, e andrai sotto l'acqua bollente che si
produrrà in sbuffi di vapore acqueo, e intanto tu da sotto la doccia
controllerai il tuo sosia che è rimasto fuori di te, dall'altra parte dello
specchio e che continuerà a guardare quella dannata rivoltella, girandosela
davanti agli occhi, stupito, e tu ti farai la doccia tranquillo e con la
coscienza pulita, ti metterai a canticchiare pure, una canzoncina allegra tipo
le serenate all'istituto magistrale nell'ora di ginnastica, eccetera, e di
religione, eccetera, e dove cazzo avrà messolo sciampo Strindberg ti chiederai
guardandoti attorno tra creme e lozioni per tenere la pelle delicata, e alla
fine ti laverai i capelli con la saponetta, quella per lem ani, dove riccioluti
peli dello Strindberg si saranno incastonati, come conchiglie fossili nella
pietra pomice.
Quando uscirai dalla doccia il tuo
sosia sarà sparito, nascosto dietro allo specchio coperto dal vapore che adesso
bagna tutte le piastrelle con microgocce tiepide che -di tanto in tanto-
sbocciano in lacrime verticali verso il pavimento umido. Prenderai un
asciugamano ed inizierai a passartelo sul corpo, quando sentirai Strindberg
bussare alla porta del bagno e dire che sono le undici, il caffé è pronto, sono le undici, e tu
penserai le undici e poi cazzo, le undici e ti ricorderai di Antonio Koch, del
fatto che quella mattina, donami mattina, Koch leggerà di fronte ai critici e
al pubblico degli scrittori e tu dovresti già essere là, che devi parargli il
culo, devi leggere la tua conferenza, te ne eri dimenticato, e allora uscirai,
ecco come andranno le cose, uscirai seminudo dal bagno dicendo cazzo devo
andare a ricercare, e Strindberg ti dirà ricercare cosa?, ricercare dove?, e ti
osserverà reggendo una tazzina di caffé d'orzo, mentre tu, come un pazzo,
correrai per la stanza a cercare i tuoi vestiti che la sera prima ti eri tolto
qua e là per fare il fico davanti a Strindberg, e mentre tu sarai tutto
affaccendato in questa ricerca, lo Strindberg ti indicherà adesso quel capo di
vestiario, adesso quell'altro capo, e tu seguirai distrattamente le sue
indicazioni, ritrovandoti alla fine vestito di tutto punto, con il tuo pastrano
rosso, il cappellino a punta e il bastone che tanto successo hanno avuto nella
tua iconografia.
E mentre -scese le scale- correrai a
perdifiato verso la sala dove si svolgeva ricercare all'epoca della narrazione
di questi fatti , mentre sarai tutto
preso a mettere i piedi gli uni davanti agli altri, ti ricorderai a poco a poco
il perché e il come eri finito nel letto dello svedese, tutto quel dialogo
fitto fitto in cui lui ti chiedeva cosa ci fosse scritta in quella dannata
ultima pagina pre-mortem, e di te che ti guardavi i piedi e rispondevi il risultato
alchemico, e lui ti aveva chiesto che risultato, che alchemico, e tu gli avevi
detto la pietra filosofale, la formula chimica per generare oro a partire dalla
paglia, ecco cosa gli avevi risposto, la formula chimica per trasformare l'oro
dalla paglia e lui si era messo a piangere era commosso e ti aveva abbracciato
e aveva detto che era vero, adesso che glielo avevi ricordato gli era venuto in
mente, ecco cosa aveva scritto prima di infilarsi -a fatica- nel grosso
cappotto, ecco quale grande segreto aveva messo per iscritto per trarne poi
grande vantaggio. "Se solo la morte avesse aspettato qualche anno, come
sarebbe stata diversa la mia prima vita!" aveva esclamato lo Strindberg
sempre stretto al tuo corpo e tu avevi iniziato a sentire umido sotto la camicia
e avevi detto, basta basta non piangere, e l'avevi ripetuto per due o tre volte
e alla fine ti eri ritrovato a passargli una mano tra i capelli, per calmare
quel suo pianto caldo che adesso ti stava irrigidendo un capezzolo destro per
te sinistro per chi guarda, e quelle carezze dopo un po' ti erano sembrate
niente male, qualcosa di nuovo e lui da sotto aveva alzato lo sguardo e aperto
la bocca e lo sventurato aveva risposto, si fa per dire, da cosa era iniziata
cosa, si voleva così in quel posto dove si avverano le cose che si desiderano,
e più non domandare.
Queste cose ti ricorderai a poco a
poco, entrando nel grande palazzo di ricercare e iniziando a salire l'ampia
scalinata che ti porterà al piano di sopra e arriverai nelle stanze antico
nobiliari che danno nella grande sala centrale, gremita di gente seduta ad
ascoltare su sedie di plastica maròn il Koch che -appena tu entrerai nella
sala- si allontanerà dal microfono e tutti applaudiranno debolmente e tu vedrai
Koch scendere dal palconcino e tornare a sedersi tra il pubblico, con quel suo
sorriso ingenuo di chi ha fatto solo quello che doveva fare, cioé non è che lui
scrive quelle cose perché è un fichetto, è la sua dannata vita ad essere un
fottuto capolavoro minimalista, lui semplicemente mette per iscritto, ecco cosa
leggerai nel suo sorrisetto normale, attraverso quella pelle bianca da bestia
che si nutre a colpi di plancton, e tu resterai per un attimo immobile in quel
breve momento che si crea quando una esperienza è finita e si va ad iniziare
quella successiva, e un tipo bassino dai capelli bianchi si avvicinerà al
microfono appena abbandonato dal Koch e dirà, chi vuole fare qualche commento
venga pure, e allora uno dei critici poggerà i gomiti sui braccioli e sbufferà
per lo sforzo di spostare il suo peso da una parte del corpo (il culo) ad altra
parte del corpo (la testa che, per il movimento della braccia contro i
braccioli, si sarà sporta in avanti, come se quell'oscillazione di peso da sola
potesse bastare a modificare la volontà del critico stesso), e nel preciso
momento in cui il sedere del critico abbandonerà il puro contatto
crino-epidermico con la sedia, ecco in quel momento tu attraverserai a passi
fermi e decisi il corridoio
naturalmente creatosi tra la parte destra del salone e la parte sinistra dello
stesso e salirai i tre gradini di legno che portano alla parte alta del
palchetto, afferrerai il microfono tondeggiante e dirai, questi racconti di
Koch, questi frammenti di racconto di Koch, dell'unico grande racconto di
Antonio Koch che parte dal primo momento in cui Antonio Koch decise (se mai si
può veramente determinare l'istante preciso della necessità di uno scrittore di
mettersi a scrivere) di prendere penna e foglio e di mettersi a scrivere, a
dare avvio a quel processo che mai terminerà completamente di creare una
propria seconda identità che non ha niente a che vedere con quella umana,
quella di Koch che si alza e gira per camera sua confuso senza trovare
l'interuttore per accendere la luce e dopo due o tre calci agli spigoli dei
mobili, e soprattutto dopo che una voce femminile gli dice Antonio, Antonio ti
sei alzato?, ecco in quel momento il Koch capisce che non è a casa sua e
smarrito dice al buio che voleva pisciare, semplicemente pisciare, ma si era
perso al buio, era solo un esempio, la natura umana non ha niente a che vedere
con questa seconda identità che è quella dello scrittore, ovvero una identità
virtuale che nasce e si impasta nello stile fino a creare un secondo Antonio
Koch, il primo è quello smarrito al buio che vuole pisciare, il secondo Koch è
un Koch diciamo così virtuale, un Koch da desumersi a partire dalle indicazioni
di lettura che lo stesso Koch mette per iscritto buttando le dita a peso morto
su una delle tante tastiere qwerty dateci in dotazione dal popolo americano, e
così salva con nome quell'impasto di cui si parlava precedentemente, l'impasto
narativo-poetico di questo secondo Koch che finge -dannatamente bene- di
raccontarci sinceramente la vita e i miracoli del primo Koch che -nel
frattempo- si è sentito prendere la mano da una ragazza gentile che gli ha
detto, sprofondata nel buio, vieni ti accompagno io, e lo ha guidato fino al
cesso dove Koch è stato costretto a sedersi sulla tazza e pisciare sottolo
sguardo curioso e freddo della suddetta ragazza che -pare- ami vedere i maschi
pisciare, seduti alla maniera delle donne e poi impedisce agli stessi maschi di
tirare la catena dello sciacquone perché desidera lei stessa chinarsi verso la
tazza, quantificare la densità del giallo, tirare su di naso per apprezzare
l'odore nevralgico dell'acido, e poi premere il pulsante di plastica bianca che
determina quello scarico orgasmico dell'acqua, ecco cosa ci vuole raccontare il
secondo Antonio Koch, la meraviglia insita nel raccontare frottole sulle
piccole cose che accadono al primo Antonio Koch, questa è una notazione
importante, non stiamo parlando di un diario di viaggio minimalista di questo
Antonio Koch nella vita quotidiana, ma di un "attenzione non è
spazzatura" la roba che vedete nella grande gabbia delle scimmie, quei
pezzetti di foglie e di legnetti che le scimmie vanno in giro a prendere e
lasciare e ogni tanto mangiucchiare sono state messe a bella posta dagli
addetti al bioparco, e dietro alcuni legnetti o foglie o cosa cazzo sono, c'è
il cibo, dietro altre no, e quindi le scimmie vanno in giro e cercano girando
dove sia il cibo e dove non sia e tutto questo è un grosso paradosso della
letteratura tutta, decontestualizzato dagli addetti al bioparco per fini più
prettamente ecologici, ma reinterpretato letterariamente dall'Antonio Koch che
è ben attento a distinguere le due cose, la semplice foglia o pezzetto di legno
senza nessun significato particolare, e la foglia o pezzetto di legno che
contiene il cibo, che è poi -fuor di metafora- lo stile che trasforma le cose
da dire in cose dette nel senso di messe per iscritto, ed è in questa
traduzione che si innesta la natura demiurgica del terzo Koch, posto in mezzo
al primo Koch che vive e che adesso, tornato nel letto con la ragazza con quei
problemi orinari di cui sopra resta con gli occhi sbarrati a fissare il buio
senza poter riprendere sonno, e il secondo Koch che è quello che si muove nelle
storie notturne, perso in una descrizione frammentata e minima di una realtà
che gli si compone e gli si frantuma attorno nello stesso momento, e che non ha
una storia prima di sé o dopo di sé, perché è solo invenzione del terzo Koch,
il Koch invisibile, che è in mezzo e traduce tutto dal piano della realtà ad un
nuovo e secondo piano della realtà e questa traduzione avviene grazie
all'invenzione, ecco questa piccola parola, l'invenzione che poi non esiste,
anche l'invenzione è solo un algoritmo particolarmente sofisticato, e se
l'invenzione è un algoritmo particolarmente sofisticato, il terzo Koch ne è
semplicemente il programmatore, ha inventato questa funzione che chiama
l'algoritmo e semplicemente sta a vedere cosa viene fuori, crea un impasto
desunto, una ridondanza di codice che diventa prodottolei stessa, a tutto
vantaggio del pubblico dei lettori, che siete voi adesso, che siete arrivati
fino a questo punto della narrazione e restate in attesa di vedere e di
quantificare quanto Koch resti dentro di voi una volta chiuso il libro, finito
il racconto, esaurita la spinta delle dita che porta a girare l'ultima pagina e
ci costringe a fissare muti la quarta di copertina, con le note che sembrano
volerci convincere di nuovo che dobbiamo comprare il libro che abbiamo appena
usato, e che per noi diventa uno strumento sostanzialmente inutile, un
parallelepipedo che prenderà polvere e spazio per segnalare che -in quel posto
senza spazio e tempo- ci siamo stati attraverso quel parallelepipedo di carta e
colla, e tutto questo è Antonio Koch, è felicità, ecco come stanno le cose,
ecco il risultato finale, ecco cosa dirai a voce tremante caro Bonaventura, di
fronte alla platea muta dei critici e del pubblico di scrittori e cercherai con
lo sguardo Koch che ti fisserà come al solito, come se non avessi detto niente
di particolarmente importante, e poi aggiungerai ho finito e scenderai dai tre
gradini di legno ed uscirai dalla prima porta a sinistra e ti ritroverai solo
nel saloncino dove su una bancarella saranno posti i libri degli scrittori che
hanno letto e di fronte ci sarà un grosso pannello con la rassegna stampa e
allora sentirai echeggiare dalla stanza a fianco la voce di un critico che dirà
parole come 'minimalismo storico' e 'reiterazione compulsiva' e tu resterai
solo a fissare le fotocopie degli articoli ritagliati, senza vederli e ti
godrai quell'eco indistinta proveniente dalla sala centrale.
A quel punto vedrai un articolo sulla
pagina culturale di Genova, e nella pagina culturale di Genova ci sarà un
articolo su ricercare e in questo articolo su ricercare ci sarà la foto della
giornalista americana e un pezzo del suo racconto e basta, cioé di tutta la
rassegna, di tutti quelli che hanno letto ci sarà solo una frase che dice che è
iniziata la rassegna di ricercare e che ha avuto molto eco il racconto della
giornalista americana di cui il giornale genovese pubblicava in esclusiva un
pezzo del racconto e c'era davvero un pezzo del racconto e tu ti chiedevi
perché cazzo di trenta scrittori che ci sono tra cui Antonio Koch si parla solo
di questa qua che è una cagna a scrivere e mentre sarai lì a grattarti la testa
sentirai da dietro dei passi e vedrai il semiologo, che ti saluterà con un
gesto delle mano e ti dirà che hai fatto bene ad uscire, dentro stanno
massacrando Koch, e aggiungerà che quando arriva uno che non ha nessuno alle
spalle, nel senso non ha un editore che lo fa proteggere, i critici lo
ammazzano, e tu alzerai le spalle, tu il tuo dovere l'avrai fatto penserai, e
indicherai l'articolo e indicherai l'articolo della giornalista americana e
chiederai ma questa? e il semiologo dirà, eh beh, chi credi che scriva in quel
giornale, chi credi che abbia scritto quell'articolo? e tu tornerai a fissare
quelle parole messe di fila e sentirai ancora il semiologo dire che la sera
stessa la giornalista è tornata a genova e che aveva già l'articolo pronto,
ecco come stanno le cose.
Nella casa del pittore non si vedrà il
mare e tu resterai a fissare le luci della discoteca di fronte alla casa del
pittore, proprio sopra riccione, e sentirai dietro di te Koch che canterà come
un pazzo, completamente fatto, buttato sul divano con i suoi capelli riccioli
che saetteranno come antenne e gli occhi che non vedranno niente, che canterà
una canzone di ligabue o di zucchero sbagliando le parole e inventando interi
ritornelli mentre il pittore mescolerà le carte e dirà di fare presto che avrà
voglia di giocare a scala quaranta prima di uscire stasera bisogna festeggiare
dirà, bisogna festeggiare ripeterà Koch cantando la frase, bisogna festeggiare,
e tu dirai ma cosa festeggiamo, e il pittore dirà la vita, e ti trapasserà con
il suo sguardo magnetico di quello che ha compreso ogni cosa della suddetta
vita e tu te ne starai zitto, sentendoti anche un po' stronzo per la tua
osservazione, ti staccherai dsalla finestra e ti siederai a fianco del pittore
e dirai a Koch, cazzo Koch vieni a sederti anche tu e il Koch si alzerà dalla
poltrona e si siederà sulla terza sedia e dirà cazzo ragazzi stasera sto
benissimo, mi sembra che sia tutto splendido, e il pittore non lo guarderà
neppure e continuerà a mescolare le carte, e allora Koch guarderà te con il suo
sguardo da bambino, adesso Koch avrà uno sguardo da bambino, solo lo sguardo e
tu dirai va bene ma non a scala quaranta, facciamo che giochiamo a macchiavelli
che è più divertente o Koch dirà ma sì certo macchiavelli è più divertente e a
queste parole il pittore alzerà il suo sguardo e dirà non so giocare a
macchiavelli e tu dirai è facile te lo spiego, è simile alla scala quaranta e
gli dirai quelle tre regole stronze che trasformano la scala quaranta in
macchiavelli e lui, il pittore, ti fisserà attento, con gli occhi scuri che
fiammeggeranno, e quando tu avrai finito la tua descrizione lui ti dirà, quindi
non devo scartare gli assi.
"Che cazzo c'entrano gli
assi?" chiederai tu, alzando le spalle e dirai che gli assi non c'entrano,
la differenza è che si attacca a quello che hanno messo in tavola gli altri e
di nuovo il pittore ti fulminerà con il suo sguardo assoluto e dirà che quindi
non si scarta mai.
Allora tu fisserai il Koch che a qual
punto scoppierà a ridere e dirà non ha capito un cazzo, il pittore non capisce
un cazzo e tu ti volterai ancora verso il pittore per capire se ti sta
prendendo in giro e vedrai che si gratterà la testa e ti renderai conto che
davvero il pittore non sta capendo un cazzo, e rimarrai impressionato perché il
pittore continuerà a fissarti con il suo sguardo indagatore di chi ha in mano
il senso della vita e più tu proverai a fare esempi di come si gioca a
macchiavelli più ti renderai conto che il pittore è un idiota, che non sta
capendo un cazzo di una cosa semplice come il macchiavelli, soprattutto per chi
sa già giocare a scala quaranta.
"Forse ho capito" dirà ad un
certo punto e prenderà il mazzo dicendo che però dovrete togliere le figure, un
gioco così si gioca senza figure.
"Lasciamo perdere" dirai tu
snervato, buttandoti sullo schienale della sedia, facciamo scala quaranta se
sei capace è meglio per tutti, e il pittore sembrerà sollevato, tranquillo,
rimetterà dentro le figure e tornerà a mescolare le carte, e poi le darà a Koch
dicendogli "taglia" e tu sbufferai, e gli dirai, cazzo sono io che
devo tagliare, il giro è così, e farai un gesto circolare con la mano, e il
pittore farà l'offeso, resterà con le carte in mano come se gli si fossero
attaccate, lo sguardo corrucciato a fissare il tavolo.
"Ho qualcosa per voi" dirà
il pittore durante la notte, Koch avrà tirato fuori il suo portatile e avrà
iniziato a scrivere delle cose, delle e-mail, e il pittore si alzerà dal tavolo
e aprirà un cassetto alla ricerca di qualcosa.
Tu resterai con la bocca asciutta a fissare
il corpo nudo di Koch, diceva che stava bruciando e si era spogliato del tutto,
Koch sarà fottuto e infatti si incazzerà con il portatile dirà frasi come
"portatile del cazzo" o "tastiera del cazzo", perché non
riuscirà a scrivere niente, le dita molli che premono due tasti per volta, e tu
lo fisserai a bocca aperta e noterai che Koch è ingrassato, così nudo piegato
sul divano a scrivere noterai che Koch è ingrassato, ha una brutta pancia che
lo fa sembrare gravido.
"Ecco" dirà allora il
pittore portando in tavola quella specie di ostia arancione e tu chiederai cosa
è, e lui dirà mangia e tu prenderai l'ostia e la mangerai, senza farti troppi
problemi.
Qui siamo arrivati alla fine, non
c'era più molto da dire, poco a poco anche tu starai meglio, ti sentirai più
rilassato, da un lato ti renderai conto che tutto quello che il tuo corpo non
voleva era proprio mangiare quell'ostia, aveva nausea di quell'ostia ancora
prima di metterla in bocca, dall'altra parte ti sentirai talmente bene che
vorrai soltanto uno spazio e del tempo per startene in santa pace, ma non da
solo, cercate un posto dove stare così bene con il pittore e con Koch e lì io
pianterò la mia tenda, ecco cosa penserai e ti metterai a ridere senza motivo e
vedrai che anche il pittore adesso starà ridendo, e mentre riderà gli occhi si
saranno fatti lucidi, adesso non sembreranno più profondi come prima, adesso
sembreranno solo due specchi che ti riflettono Bonaventura, vedrai la tua
faccia stravolta Bonaventura e quella faccia negli occhi del pittore ti
sorriderà e avrà qualcosa in mano che tu non avrai, non capirai proprio bene,
ti sentirai davvero magnifico Bonaventura e dirai cazzo Koch scrivo anche io,
scrivo una delle mie conferenze, ecco cosa dirai al Koch che intanto continuerà
a dire portatile del cazzo e allora tu ti alzerai e crollerai con lui sul
divano, gli cascherai proprio addosso e lui ti dirà cazzo Bonaventura stai
attento mi sfasci il portatile e tu starai ancora ridendo, gli guarderai il
cazzo mollo messo per aria, e dirai sembri incinto Koch, sembri un fottuto
incinto, e gli piazzerai una mano sulla pancia, e Koch sarà ancora più
incazzato e ti dirà di togliere quella cazzo di mano dalla sua pancia, e tu
tirerai le mani indietro e dirai vabbene Koch, con la vocina strana, dirai vabbene
Koch e alzerai le mani al cielo e qui tu capirai una cosa molto importante,
ovvero che quando recitavi la tua conferenza per Koch, quella cosa dei tre
Koch, quello che vive, quello che è raccontato e quello che racconta, mentre ti
guadagnavi la tua pagnottina, ecco per un attimo avevi alzato lo sguardo verso
quelli che ascoltavi e per un attimo avevi visto le cose come davvero stavano,
ovvero che quelli lì messi seduti per sentirti non erano i magnifici esseri
alieni che pensavi, non erano netturiani fantastici, o gente davvero astrale,
erano semplici animali, ecco, li avevi visti dall'alto come semplici animali
uguali e normali a te, uguali a Koch, erano persone assolutamente normali che
si vestivano e che dicevano cose speciali per far dimenticare che erano persone
normali come tuti gli altri, erano tutti uguali, dietro alle loro parole
immaginate, c'era l'odore sudato dell'animale, il male al culo sulla sedia di
plastica maròn, la faccia che dice ho voglia di fottere di quello che fissa il
culo della poetessa, era tutto assolutamente normale e tu eri normale come
loro, anche il pittore era normale anche Koch eravate tutte bestie in quella
sala, tutta roba sacrificabile, solo un attimo avevi visto quelle cose per
davvero, poi tutti erano tornati esseri imperscrutabili e misteriosi, favolosi
pompinatori di ambulacrali sapienze, e questa cosa ti arriverà alla testa di
colpo, un orgasmo della memoria, un orgasmo all'incontrario mentre sarai sopra
il corpo nudo di Koch e mentre abbasserai una delle mani alzate in cielo a
tirare un ceffone al portatile che cascherà per terra tirandosi dietro il filo
dell'alimentazione e tu salirai con i ginocchi sopra la pancia di Koch che
intanto starà urlando ma solo con la bocca, tu non sentirai niente, solo la
grande risata del pittore dietro di te e quando ti volterai vedrai il pittore
con le lacrime negli occhi, rosso in volto che tossisce, ma terrà gli occhi
spalancati, gli occhi saranno due specchi e negli specchi vedrai il tuo doppio,
ecco chi era, ecco il tuo doppio sopra il corpo nudo di Koch che tiene in mano
la rivoltella, ecco cosa era che non riconoscevi, quella dannata rivoltella
l'aveva nascosta il tuo doppio, la rivoltella che il tuo doppio poserà come una
foglia sulla pancia gravida di Koch per fare quei rumori terribili.