reggio emilia

 

(da “quando culicchia era qualcuno”

di fabrizio venerandi)

 

 

 

 

 

 

Primo giorno

 

Allora squilla il telefono io alzo la cornetta è Antonio Koch, uno scrittore bolognese fico che ha la voce così, cadenzata, ogni volta che dice una parola fa una pausa di mezz'ora, meno male che scrive.

"Allora" dice e poi "Bonaventura", e poi dice "Andiamo?".

Mi gratto la testa e dico, con te Koch anche all'inferno, ma in questo caso dove.

"Eh" dice lui, e poi dice anche "pensavo" e anche "sapessi", e in breve, si fa per dire, mi dice che deve andare a Reggio Emilia, capito, Reggio Emilia.

"Allora" mi chiede, "m'aiuti?".

Butto lo sguardo fuori dalla mia finestra si vedono i balconcini del condominio di fronte, c'è una signora che versa l'acqua sui gerani. Sospiro.

"Cazzo Koch -gli dico- sei di bologna, da bologna a reggo Emilia prenditi un treno, non posso scendere io da genova!" e aggiungo che se mi telefonava per i soldi del biglietto cascava male, aspettavo ancora il bonifico della mia ultima serie di conferenze, sette euro di diritti di autore che mi sarebbero stati pagati da lì a due anni, per motivi fiscali.

"No" mi anticipa in ritardo il Koch, e dice che non c'entrano i biglietti, sembra sorpreso di questa mia venalità. "Scherzi?" mi chiede pure. Deve andare a Reggio Emilia per il laboratorio di scrittura, quello che si chiama ricercare ed è fatto dagli scrittori di sinistra, quelli vecchi del gruppo '63. Deve leggere dei pezzi di suoi racconti, davanti a critici e pubblico a alla fine i critici e il pubblico salgono sul palco e dicono quello che pensano dei suoi racconti. "Quelli" dice, "mi" aggiunge, "ammazzano" conclude.

"Capisco" mento, e lui continua a frammentare la sua sintassi e mi dice che ha avuto questa idea, per pararsi il culo, di farmi scrivere un pezzo in cui dico che, cazzo, Koch è un genio e poi dopo che lui ha letto i suoi pezzi, io salgo e faccio finta di essere uno del pubblico e praticamente leggo la mia conferenza, ma senza che si capisca che è una conferenza, deve sembrare spontaneo, deve essere una cosa pesa, così i critici se ne stanno e non lo stroncano del tutto, voglio dire, devo essere affabulatorio.

"Mi paghi?" chiedo, e qui c'è una pausa più lunga del previsto che termina con un sussurro del Koch: "vedremo" dice, e io penso sì, verso damasco.

Butto giù il telefono e ripenso a Koch, a come l'ho conosciuto, a perché dovrei aiutarlo, Koch l'ho conosciuto via internet scriveva questi raccontini divertenti e io dicevo bravo questo Koch, pensavo Koch come se dicessi coccinella, togliendo inella, avevo sempre pensato bravo Koch con questo rumore di piatti che si scontrano, cocc. Poi un giorno ci siamo visti dal vivo e gli ho detto"ciao cocc"e lui mi ha detto "eh, guarda che mi chiamo cocc", e ha pronunciato cocc come io pronuncerei coccodrillo, senza odrillo. "Ah non cocc?" gli avevo chiesto con il mio modo di dirlo. "No, cocc" mi aveva risposto lui, con il suo modo di dirlo. Ero rimasto pensieroso, in fondo mi dava fastidio chiamarlo cocc, come coccodrillo, ero talmente abituato a chiamarlo cocc come coccinella, e poi cocc come coccodrillo non mi piaceva il suono, mi sembrava l'uovo, l'uovo alla cocc. "Ma ti dà fastidio se ti chiamo cocc?" gli avevo chiesto, mantenendo il mio suono. Koch era rimasto zitto per un attimo e poi aveva detto, preferisco cocc, con il suo suono. Così eravamo entrati in grande intimità, avevamo fatto il suono del suo cognome.

Io e Koch c'è gente che dice che scriviamo nello stesso modo, ma non è vero, Koch viaggia su altri livelli, Koch è uno scrittore astrale.

Penso di telefonare a paolina per chiederle se mi accompagna, poi lascio perdere, figurati, Reggio Emilia, scoppierebbe un casino. E poi, detto papale papale, a Paolina non frega un cazzo delle mie conferenze, all'inizio le leggeva curiosa di tutte le cose che mi impegnavo a mettere in bella fila, poi una volta capita l'antifona, ovvero che l'attività di conferenziere non ha niente di più nobile di quella di un pulitore di cessi o di un agrimensore, faccio per dire, la paolina aveva smesso di spiare le mie dita passeggiare nel ventinove per ventuno virgola qualcosa che delimita lo spazio creativo della mia tastiera apple keyboard pro, e adesso, esclusi i coiti viperini di cui mi faceva generoso dono, se ne stava con le sue amichette a giocare a chiappala chiappala, nascondendo sotto il suo corpicino da adolescente un po' grassoccia, una porcheria di donna tutta da venire, vorrei spendere ancora due parole su paolina, la prima volta che vidi paolina era pressapoco una bambina con i ginocchi smozzicati, i capelli biondi e stava uscendo da casa reggendo in mano un pallone di gomma marca supertele, quelli rossi a righe nere che tiri un calcio e finiscono nell'iperuranio, e nell'altra mano un olezzoso sacco della spazzatura, che gocciolava morte di tanto in tanto. "Dove vai ?" le avevo chiesto e quella aveva alzate le spalle senza rispondermi. Camminando dignitosamente portando il suo grave peso, era arrivata al bidone dell'immondizia e ci aveva cacciato dentro il sacco, con un solo gesto non privo di una certa grazia. Allora si era girata verso di me, tenendosi abbracciata al supertele a mo' di scudo difensivo e "Vado alla festa di smarties" mi aveva risposto in un eccesso di confidenza che le sarebbe costato caro. "Uh, quella della reclame?" le avevo chiesto e lei aveva annuito con superba convinzione e mi aveva spiegato che la festa di smarties c'è davvero, è una festa dove vai e ti fanno delle foto e ti regalano un sacco di smarties e io le avevo detto certo, ti accompagno, sperando in chissà cosa, e invece alla fine era veramente la festa di smarties, esiste davvero.  Comunque crescendo paolina si è un po' rovinata, da piccola aveva il naso aquilino, adesso è un po' ingrassata, e una volta esaurite le porcate base, torna sempre sulle stesse, non ha grande fantasia e poca voglia di imparare, è dannatamente pigra, le ragazzine pigre mi fanno impazzire, paolina è un tesoro e più si rovina più migliora, come le lame autofilettanti dei robot, ho divagato.

 

Il viaggio in treno per Reggio Emilia è iniziato nel peggiore dei modi, in luogo di qualche ficazza come compagna di viaggio, mi sono beccato tre ragazzi ebrei, ma non ebrei nel senso tipo spielberg, che ti dicono che è ebreo e tu pensi beh io sono vegetariano ad ognuno il suo, ma ebrei veri, con il cappellino nero sulla testa, una barbetta sfatta e una lingua lamentosa che mi mette un po' di paura. Ebrei che dici, cazzo questi sono diversi da me.

Spesso nei film e nei romanzi uno si immagina viaggi particolarissimi, avventura sul treno, c'è un'ampia letteratura su questo tipo di cose, ma nella verità il novantanove per cento dei viaggi sono viaggi normali in cui mi faccio i cazzi miei e finisco con noiose famigliole che badano solo a non fottere troppo la propria socialità interna, e nella mia vita mi è successo solo due volte di avere un viaggio interessante, una ragazza di genova che aveva il ragazzo a voghera e che nel viaggio mi ha raccontato tutta la storia di lei di genova e lui di voghera che si vedevano a metà strada, quindi forse lui non era di voghera, la metà strada era voghera, lui era di torino forse torino, che si erano incontrati al mare e avevano fatto delle grandi scopate e ciao, capito, finita l'estate finito tutto, e invece si erano telefonati, così per sapere come buttava e alla fine stavano troppo assieme, anche se si vedevano solo di sabato o domenica. E lei mi parlava di queste cose e io la guardavo e pensavo che era bello entrare dentro questa ragazza, intendo nella sua vita, era come vedere un film raccontato, non c'erano responsabilità io ne stavo fuori ma teoricamente potevo anche farne parte, però poi non si è fatto niente io sono sceso a genova e lei mi ha ringraziato del racconto a quel tempo mi faceva piacere ascoltare le persone ero molto tranquillo. La seconda volta era uno psicanalista con la barbetta che voleva portarmi a casa sua, ma a quell'epoca giravo di estate caldissima con una camicia bianca aperta, e avevo un rosario nel dito medio sinistro, ero molto particolare, e io gli ho detto no che mia madre poi s'incazza, e lui mi ha chiesto ma tu dici tutto a tua madre e io gli ho risposto certo, tutto, e in effetti finché non sono arrivato ai livelli del neutro roberts o le masturbazioni di gruppo, insomma, ero molto sincero su tutto il resto.

Fino ad un certo punto, probabilmente finché il mio essere interiore non ha deciso di passare dall'essere bambino all'essere ragazzo, poi questa cosa la spiego meglio.

L'unica cosa strana del viaggio è che c'è questo tipo che mi spia, all'inizio non me ne ero accorto, pensavo fosse il bigliettista che controllava, ma poi questo tipo ritornava e mi guardava, avrà  cinquant'anni, dei baffetti mefistofelici e i capelli tutti arruffati, la bocca piccolina a culo d'uccello. Il viso verde. Sbuca fuori dal corridoio e mi fissa con occhi fiammeggianti, poi sparisce e ritorna dopo qualche minuto, come se controllasse che io sia ancora lì, seduto al mio posto.

Alla fine gli ho anche fatto il segno della piramide con la mano, e lui c'è rimasto male, come se lo avessi scoperto dietro un nascondiglio impenetrabile, è fuggito verso i cessi e poi non l'ho più visto.

Ma il suo viso mi era familiare, in qualche modo familiare.

 

L'arrivo a Reggio Emilia è un normale arrivo in una stazione che non si conosce, si cercano con gli occhi quella serie di icone stilizzate che ci fanno capire dove si mangia, dove si caga e dove si esce dalla stazione, un po' un riassunto della nostra vita, facciamo della vostra, io spero sempre di essere un po' superiore agli altri, anche se a volte mi accorgo che non è specificatamente vero, comunque mi fa piacere pensarlo, se non lo pensassi non sarei adesso qua a raccontarvi queste frottole.

Appena scendo dal predellino riconosco la figura del vecchio Koch, con lo sguardo da ragazzino che potresti rubargli le caramelle, ma lui ti anticipa e te le offre e se non le vuoi le posa su un tavolo e se le dimentica. Appena mi vede fa come se si svegliasse e mi sorride. "Oh!" dice, e fa lo stupito di vedermi in quel posto.

"Mi avvicinai a lui e gli tesi la mano" dico tendendogliela e lui la stringe. "Lui mi strinse la mano e alzò gli occhi al cielo" continuo mettendomi al suo fianco e iniziando a camminare verso il sottopassaggio.

"Divertente" dice Koch fissando una cosa a caso.

Usciamo dalla stazione e ci dirigiamo verso una specie di centro storico, dove per centro storico intendo un posto con del ciottolato e con divieto di accesso alle automobili, mi accontento di poco. Ogni cento metri un cartellone annuncia il laboratorio di poesia e ci sono delle lettere grigie che volano per la locandina e i nomi degli scrittori tra cui Antonio Koch e i nomi dei critici ne conosco solo due, i redattori di una rivista di canelli.

"Si fermarono ad osservare il cartellone e Bonaventura indicò il nome di Antonio Koch. 'Questo sei tu!' disse, scoppiando poi in una grossa risata" dico e Koch alza le spalle e dice "eh". Poi aggiunge "è pesa" e sospira. E' agitato e tira fuori un pacchetto di sigarette.

Poi mi offre da bere, in un locale dice che è un locale buono, è un locale da scrittori.

 

Ad un certo punto, siamo in questo posto e io sto bene mi sento proprio bene, ho preso un sfatto è il nome dell'aperitivo, era un locale dove si erano inventati più di cento alcolici con dei nomi strani, e io avevo preso un sfatto e mi sentivo proprio bene, mi aveva preso la testa e mi rendevo conto che a fare due passi sarei caduto, ma stavo bene ridevo come un matto e dicevo ad Antonio che gli volevo bene, cazzo Antonio ti voglio bene, sono felice di vederti, e Antonio faceva un sorrisino mite, Antonio sorrideva mite e guardava simone, che era il suo amichetto, che era uno davvero fico, di solito gli amici di Antonio sono fichi ma sono dei fottuti isterici, mentre questo era fico, si dava il trucco sotto gli occhi, ma leggero, dato bene, e diceva cose spiritose, muoveva le mani e se le stirava sulle ginocchia come i gatti.

Comunque, siamo in questo posto e ad un certo punto vedo due o tre che vanno sul palco e io penso adesso suonano e invece no, tirano fuori dei fogli e parlano tra di loro avvicinandosi ai microfoni, sono tre ragazzi e una ragazza, i ragazzi hanno la faccia di tre commessi dell'ikea e la ragazza è una biondina insignificante, sorride a tutti e tiene in mano dei fogli scritti a mano.

"Che cazzo fanno?" chiedo ad Antonio e lui mi dice boh.

Insomma uno a uno salgono sul palco e si mettono a leggere dei fogli, con la voce bassa, e capisco che fanno delle poesie, non si capisce un cazzo, un po' perché le frasi che dicono sono scritte difficili, tipo io e te siamo un vertiginoso niente/siamo i residui del destino, o cose del genere, un po' perché il microfono lancia dei fischi come un cavallo morente, non si sente molto. Insomma ogni tanto ci sono dei loro amici che gridano bravi e parte l'applauso freddino, ma tutti speriamo che si tolgano presto dalle balle perché danno fastidio. Per ultima sale la ragazza, sorride a tutti, e inizia a leggere anche lei cose da letteratura, e a un certo punto due seduti al tavolino iniziano a chiaccherare e lei si ferma e li fissa e resta zitta e tutti allora si girano verso quei due che se ne accorgono e rimangono un po' così, cioé non se lo aspettavano e poi si mettono a ridere e se ne vanno un po' scazzati, e allora la poetessa riprende da dove si era interrotta, e io penso, vedi la finta gatta morta, sembrava una che tutta sorrisi e timidezza poi ha i controcazzi. E continua a leggere con la seconda poesia, e quì c'è il grande cambiamento, perché adesso inizia a dire cose che capisco, sono un po' tortuose, ma alla fine mi rendo conto che sta raccontando di lei che sbottona i pantaloni al suo uomo, e in effetti l'uditorio a questa poesia sta molto più silenzioso di prima, e questa biondina che non gli avrei dato mille lire, si mette a raccontare i cazzi suoi, e parla di un 'pompino arcobaleno', racconta tutta questa cosa del suo uomo che geme e lei che lo succhia e mentre lo succhia pensa a cose di poesia tipo che lui e il suo uomo sono un vertiginoso niente e che sono i residui del destino, ma con tutta questa ambientazione del pompino che rende la poesia molto più interessante infatti alla fine tutti le fanno un grosso applauso tranne uno dei suoi amici che resta gelido immobile con lo sguardo scuro e io capisco che era stato il destinatario del pompino arcobaleno poveraccio.

E lei è felice di vedere che finalmente il pubblico di avventori è entrato nella sua poetica e allora passa a leggere un pezzo in cui lei cucina e io già mi sto per rompere di nuovo le palle quando, poco a poco, mi rendo conto che lei parla di cucinare, ma intende scopare, e non lo capisco perché me lo dice Antonio, ma perché ad un certo punto lei descrive le sue dita che si infilano dentro ad un carciofo come se cercassero il clitoride/ di una fica sconosciuta e questa immagine del clitoride del carciofo spalanca un baratro nella mia vita, mai più carciofi, come posso mangiare i carciofi pensando al loro clitoride fritto con l'aglio?

E continua così, tutte le cose da mangiare sono cose che vogliono dire o il cazzo o la fica, e lei, la poetessa, si mette queste cose in bocca e intende dire di nuovo il pompino, insomma, la faccio breve, sono delle poesie, ma con dentro delle porcate.

Mi giro verso Antonio e lui mi dice che non è male la tipa, e io dico che me l'ha fatto venire duro, deve essere una brava poetessa.

 

"Lei è quella di prima?" le chiedo davanti ai bagni, stiamo tutti e due aspettando che si liberi il cesso, ce ne è solo uno per i maschi e per le femmine.

"Sì" fa lei sorridendo.

"E' brava" dico io, davvero brava e lei dice grazie.

Restiamo in silenzio.

"Ma sono autobiografici? Voglio dire, le cose delle poesie?" dico tanto per passare il tempo e lei dice che dipende, c'è il transfert.

"Il transfert?" le chiedo perplesso e lei mi spiega che i veri poeti e i veri scrittori usano un transfert, come se la sua anima uscisse dal suo corpo e entrasse in quello di un'altra persona e le dice quello che provano le altre persone. Il transfert.

"Ho capito" dico e qui starei dovuto stare zitto e invece aggiungo: "allora niente pompini?" e mentre dico la frase mi rendo conto che non è proprio lusinghiera, è come se l'avesse detta un altro e io avessi pensato che testa di cazzo, e invece quell'altro sono io. E infatti lei fa una faccia un po' stupita e ride per cortesia e non dice niente.

E restiamo zitti per un po', poi lei all'improvviso dice che i pompini non sono transfert, e io mi giro verso di lei e vedo che lei mi fissa e io di nuovo mi dico, vedi, questa è stata alle dorotee, crude fuori e morbide dentro.

E questa volta sorrido io e non so cosa cazzo dire, ma ci pensa lei e mi fa un altro esempio che ha scritto una poesia di lei che si scopa una ragazzina, e c'è tutta la descrizione di lei con il cazzo che penetra questa ragazzina, e quella è tutto transfert, quasi tutto.

"Meno male" dico e lei ride, alla fine è una piena di sé, si mette di nuovo a parlare delle cose che scrive, di come la sua poesia sia una poesia che nasce dalle cose della vita, insomma una palla, ma mi fa sesso, mi rendo conto che vedere una che ha il coraggio di leggere della roba in cui si parla di lei che fa un pompino davanti a venti persone che mentre lei legge, si immaginano la sua bocca, di lei che adesso legge, la sua bocca che fa un pompino, ecco ci vuole un certo temperamento. E mentre mi eccito di averla così vicina che mi parla di pompini letterari, mi rendo conto che vorrei che adesso mi dicesse entriamo tutti e due in bagno, e che nel bagno mi facesse un pompino, così a freddo, e poi ci scrivesse subito una bella poesia e andasse di nuovo nella sala e salisse sul palco e leggesse la poesia dove lei racconta che è appena stata nel bagno del locale e ha fatto un pompino ad uno sconosciuto, e io mi godrei due volte quel pompino, in parte perché l'ho goduto fisicamente, e in parte perché ho anche aiutato la poesia contemporanea.

Ma d'altro canto tutta questa eccitazione mi dà fastidio, perché sono in coda davanti al cesso e ho la vescica piena di piscio, tutta la roba che ho bevuto, e insomma, quando ho un erezione non riesco più a pisciare, e quindi inizio a stare male e sudare e poi il solo pensiero di lei che mi dice entriamo ti faccio un pompino, e io che sto lì a vedere che lei mi fa il pompino con il mio cazzo giustamente duro, e tutta la piscia che mi si blocca nella vescica e mentre lei lecca e pensa cose eccitanti nella sua testa, o agli scampoli di destino, io invece penso che mi scappa fottutamente da pisciare e che non riesco a farla, che se poi ho anche un orgasmo è un disastro, per un ora buona non si piscia, non ci sono santi. Non so se fa così a tutti i maschi o solo a me. Una volta ne ho parlato con un medico mio amico e lui è restato sul vago, sembrava perplesso, forse capita solo a me, come il fatto che dopo che mangio asparagi l'odore della mia piscia cambia, l'ho raccontato ad Antonio e lui è caduto dalle nuvole, ha detto che lui non ci ha mai fatto caso, che non gli sembra proprio, e invece io sono sicuro, se mangio degli asparagi mi puzza la piscia di dolce, è una cosa che ho sempre avuto.

E quindi sono lì, che da un lato spero che lei mi dica che mi ha scelto come soggetto per una nuova poesia, e dall'altro che non lo faccia assolutamente prima che io abbia pisciato, potremmo anche entrare tutti e due nel cesso e lei potrebbe dirmi, te lo faccio, ma prima pisciamo, anche lei in fondo sta aspettando di pisciare, magari anche a lei non piace fare un pompino mentre gli scappa da pisciare, insomma il difetto di noi uomini è che pensiamo alle donne solo come oggetti, e non come esseri con una loro sensibilità e questa cosa mi sembra abbastanza poetica e la dico alla tipa, le dico proprio che in fondo noi maschi consideriamo le donne come oggetti, nelle cose di sesso ad esempio, e non come delle colleghe, ecco delle colleghe. "In che senso?" mi chiede lei, e io gli faccio l'esempio della pipì e del pompino, e le spiego che io mi stavo immaginando una scena di sesso, mi capita non ci posso fare niente, devono essere gli ormoni, di lei poetessa che entra nel bagno e eccetera e tutta la questione della piscia e della bocca, e di come non avevo pensato che anche per lei fare un pompino mentre le scappa da pisciare deve essere fastidioso, quanto lo deve essere per me, perché in fondo ho una mentalità da maschio che vede la donna solo come oggetto che gli fa del sesso.

La poetessa rimane silenziosa per un attimo, come se stesse riflettendo sulla mia visione del maschilismo e del femminismo, e poi dice che non lo sa, magari fare un pompino quando ti scappa da pisciare è eccitante, bisognerebbe provare. "Magari anche per te, mentre ti faccio un pompino tu mi pisci addosso, non è eccitante?" mi chiede e io la maledico tra me e me, perché questa domanda chiude definitivamente lo scambio pipì/sperma, e ora la pisciata me la scordo, e sento la vescica che si contrae contro i polmoni, si fa per dire.

"No, guarda, io non riesco a pisciare se ho l'erezione" le spiego con tono mesto.

"Ma dai?" fa lei stupita.

"Giuro, ho anche problemi con gli asparagi, poi ti racconto" le dico.

Lei ride, e mi dice che se voglio sentirla ha scritto una poesia sulla guerra in Irak, una poesia sui morti, che magari quella me lo smolla un po' e riesco a pisciare, e io le dico va bene valla a prendere, io ti tengo il posto.

Appena lei se ne va il cesso si libera finalmente esce un ragazzino basso e brufoloso che galleggia quasi sopra delle rebook blu, e io entro e faccio una pisciata colossale, devo contrarmi tutto e schiacciarmi con le nocche delle dita la parte bassa della pancia, ma alla fine sento che la pipì esce calda, a poco a poco, passa attraverso il pene duro, come se avessi un catetere invisibile, ma ce la fa esce non tutta, ma abbastanza da non darmi più fastidio.

In quel momento bussano alla porta: è la poetessa che è tornata. Mi tiro su le braghe, senza neppure chiudere la cerniera e socchiudo la porta, giusto per vedere che è sola.

"Guarda -le dico- per la pisciata sono riuscito a risolvere. Lascia perdere l'irak. Se ti interessa l'altro discorso invece, il pompino, possiamo prendere un po' di appunti" e lei fa una faccia come se avesse un po' di nausea, ma una nausea che le fa bene, mi sembra un po' bevuta anche lei, si guarda dietro che non ci sia nessuno ed entra dentro tutta.

 

Dopo il pompino le chiedo come si chiama e lei mi dice sabrina, e io penso che è un bel nome per una poetessa tutto sommato.

Quando torno in sala, al tavolino con Koch c'è un'altro tipo, un ragazzo padre, ce l'ha scritto in faccia che è ragazzo e che è anche padre, e da lì a poco scoprirò essere il semiologo, perché ha fatto gli studi di semiologia, non so bene cosa voglia dire.

"Oh" fa Koch quando mi vede tornare. Mi indica il nuovo arrivo e nell'orecchio mi dice "il semiologo". Poi lo indica da dietro e aggiunge "è un poeta!"

Il semiologo si gira verso di me, mi squadra e fa un sorrisino amichevole, io sorrido di rimando, pare che mostrarsi i denti abbia un significato di stai attento ragazzo e sicuramente noi stiamo ben attenti. E' un tipo magro, con il volto che sembra parzialmente scavato dalla fame e parzialmente da qualcos'altro che non sai cosa sia: e preferisci non saperlo. Gli occhietti vitrei sono nascosti dietro ad un paio di occhiali finto trasandato ed indossa una giacchetta di lana verde, che dà l'idea di essere di terza mano, ma a guardarla bene capisci che è *nata* per sembrare una giacca di terza mano. Insomma, per farla breve è uno che sembra aver dormito sotto la cuccia del cane però puzza di soldi.

Sul palco intanto è salito un ragazzo smunto, con i capelli neri che gli cascano sopra sulla fronte, ha preso in mano dei fogli, si è messo a ridere parlando con i ragazzi delle prime file e poi ha detto al microfono: "no, io non uso il microfono!" e lo ha allontanato da sé.

Poi si è schiarito la voce e ha fatto questa cosa, nel senso che interpretava le cose che diceva, ad esempio urlava "io sono!" e poi si rannicchiava per terra e faceva la vocina il falsetto e urlava "piccolo!" e poi si alzava e diceva che dentro a lui c'era però un grande, e si alzava sulla sedia e urlava con tutta la voce che aveva in corpo " BOATO!" e poi scendeva ed è andato avanti così per parecchi minuti leggendo queste poesie in cui si parla di sé, oppure delle vittime della guerra e tutti non capiscono un cazzo di quello che dice ma ridono per questa cosa dell'interpretazione perché è una cosa che fa davvero ridere vederlo.

A quel punto il semiologo si è girato verso Koch e gli ha chiesto quanti anni ha quello sul palco e Koch gli ha detto boh, trentacinque.

"L'età giusta per smettere" dice allora il semiologo e si alza dicendo che lui esce a prendere dell'aria poi va in una galleria d'arte che di sera c'era la presentazione di un suo libro e forse passava anche sanguineti e lo doveva salutare. Mi guarda, mi fa lo stesso sorrisino di prima, distratto, ed esce di scena, per ora.

Intanto il poeta ha finito, i suoi amici gli fanno l'applauso e il poeta riprende il microfono e dice che tra il pubblico c'è il suo maestro, indica un tavolino dove un tipo alto con lo sguardo teso alza un braccio e resta serio, non dice niente, e vicino a lui c'è una tipa vestita da fica, ma con la faccia brutta, dietro a due lenti spesse un centimetro che sembra dire certo ragazzo io non sono fica davvero ma ti posso fare tutte le stesse cose che ti fa una fica tra cui le posture e una certa aria da ochetta che però conosce le cose della vita, tipo so capire -alla seconda- se una poesia è di montale o di saba e non ti faccio manco sfigurare davanti agli amici critici, chiamiamoli amici, tutto questo senza dire niente, si vede che non era una poetessa.

E, insomma, questo maestro si alza, fa tre passi con le sue gambe ossute, si piazza vicino all'allievo che si va a sedere tra il pubblico, c'è sempre questo scambio tipo osmosi tra poeta e pubblico della poesia, sembra quasi un gruppo di psicanalisi di gruppo, adesso tocca a te fare il pubblico ora è il mio turno fare il poeta, eccetera, insomma il maestro prende il microfono, si stira la camicia grigia sui jeans blù, e inizia a dare dei colpi di tacco con questa specie di evoluzione dei camperos che porta ai piedi, sono degli stivaletti di cuoio che gli arrivano a metà tibia, tira questi colpi di tacco sul palchetto di legno e tutti restano zitti a guardarlo fare 'sti colpi e allora lui si avvicina al microfono e inizia pure a darsi dei pugni sul petto e declama -a memoria- dei versi, tipo vado per il mondo con la terra dentro agli occhi, e mentre declama la terra dentro agli occhi si dà questi colpi sul petto in modo che diano ritmo alle cose che sta dicendo e anche con il piede, con i camperos.

"Uh" dico tra me e me e mi giro verso Koch che mi guarda e lo indica con un dito e poi mi si avvicina all'orecchio e mi dice 'peso!', e io mi allontano da Koch e mi passo una mano sulla faccia.

Intanto l'amichetto di Koch, che finora se ne era stato acciambellato vicino ad Antonio, mi si avvicina con la faccia e mi dice che quello è una merda, ma è meglio tenerselo buono.

"Mena?" chiedo intimidito dall'aspetto cupo del suo volto poetico, ma soprattutto dai grossi camperos a punta metallica.

"No" mi sorride nell'orecchio l'amichetto di Koch, ma -mi spiega- è uno che conta perché ha fatto il festival internazionale della poesia e ha trovato quel valore aggiunto che trasforma la poesia da semplice passatempo per ex-laureati, in vera poesia con la v maiuscola e la p pure.

"L'ispirazione?" chiedo io un po' ingenuamente.

"No, i soldi" fa il mio confidente, e racconta in dettaglio come sia riuscito ad avere una valanga di soldi dal comune per organizzare ogni anno questo benedetto festival internazionale della poesia e abbia pagato gente da tutto il mondo a partecipare, attori, cantanti, gente che non c'entra un cazzo con la poesia ma che la gente viene a vederli perché magari è gente della televisione, e tu ci infili dentro anche la poesia. Tutto fa. Quest'anno lui si era dovuto sorbire, per amore dell'amico Koch, una serata dedicata alla poesia femminile slovena, due ore e mezzo. Senza traduzione. Tre poetesse cinquantenni che hanno declamato, molto serie in viso, le loro liriche in lingua slovena.

"E cosa ci capivate?" chiedo io perplesso.

"Ragazzo, la poesia è universale" fa lui ironico, la poesia di qualsiasi lingua la capisci anche solo ascoltandola, c'è la musicalità del verso.

"Peccato che non valga anche per la manualistica informatica" faccio io sospirando, le traduzioni costano un patrimonio.

Mentre sono lì a sorbirmi il poeta dei camperos, mi volto all'indietro verso la porta del localino e vedo per un attimo il volto verde del tipo che mi spiava sul treno. E' proprio verde, poggiato contro la porta del locale che mi fissa con gli occhi cattivi, e appena si rende conto che mi sono accorto della sua presenza spalanca gli occhi, arranca la porta con una mano e sparisce nel buio della notte.

"Cazzo" dico a bassa voce alzandomi e iniziando a navigare verso la porticina da cui è fuggito il piccoletto, mi butto in quell'avviluppo di corpi, tutti ragazzi per bene che reggono in miracolose evoluzioni bicchierini di alcolici colorati e fumano, fumano e bevono, e urlano sotto l'assordante frastuono della poesia da strada mentre io striscio tra corpo e corpo, come nei film quando c'è qulche inseguimento importante e il cattivo scappa e al buono finiscono tra le braccia tutta una serie persone che stanno facendosi i cazzi loro, tipo vecchiette con la borsa dela spesa o fidanzatini mano nella mano, e il buono si incazza e le spinge via, e intanto per colpa di questi ottusi che vivevano la loro vita di tutti i giorni e non capivano il più alto disegno che è dentro alla testa del buono, per colpa loro il cattivo sparisce nel nulla e il buono resta ansimante a fissare il punto dell'orizzonte e chiedersi dove minchia sia finito il cattivo che -nel frattempo- fuori scena sta riprendendo fiato tirando un calcio ad una lattina vuota.

Così io scivolo in quella massa carnale, salendo su piedi, assalito da ragazze sudate che ridono dandomi la schiena e tipi che fanno i magnifici cercando di vedersi da fuori, di capire che figura facciano con quei gesti con la loro voce per chi li vede dal di fuori, e sono costretto a fare dei giri assurdi per arrivare alla porta ci metto un sacco di tempo, tanto che ad un certo punto non sento più la voce del poeta mettono della musica ad un volume altissimo, e io sono sudato marcio ormai, non riesco a respirare, voglio solo uscire, e poi chiudo gli occhi e mi lascio spingere, non so più dove sto andando, sento solo questi corpi tutto intorno che mi stanno spingendo, non per volontà loro, ma per il solo fatto di esserci, di esistere in quel momento attorno a me, non riesco nemmeno a cadere da quanti sono, devo restare in piedi e continuare ad andare.

Quando riesco a raggiungere la porta mi sembra che sia passato un secolo, mi giro un attimo indietro e non riesco a vedere il tavolino di Koch, anche il poeta dei camperos sembra un ricordo lontanissimo, non riconosco niente non sono neppure sicuro che sia lo stesso bar è solo letteratura.

 

C'è un po' di gente fuori dal locale che si prende una boccata d'aria, il tipo è sparito di nuovo, sono solo dei ragazzi in mezzo a questa piazzetta del centro storico di Reggio Emilia.  Mi siedo su uno scalino e mi butto la testa fra le mani, devo andarmene in albergo, devo dormire, penso.

"Il tuo amico Koch è un alienato" mi dice una voce femminile da dietro, ed è la poetessa che mi accende una sigaretta e me la porge.

"Uh. Nel senso di posseduto da extraterrestri?" faccio io prendendo la sigaretta e spegnendola sotto la scarpa, non fumo.

"Nel senso di fuori di testa" precisa lei e fa un gesto circolare attorno alla tempia, con un dito.

"Ah" faccio io deluso. Non è una grande novità, a ben vedere tutta l'umanità è fuori di testa.

La poetessa parla e fuma, adesso fa la vissuta e dice che ora andiamo che c'è una festa dove c'è un sacco di gente interessante, ci sono dei pittori, e dei critici che scrivono per le riviste di arte e anche dei giornalisti e dei poeti, ma quelli veri, che scrivono per einaudi.

Vedo soltanto allora Antonio, lontano, che scherza in mezzo a un gruppetto di ragazzi, quando si accorge che lo sto fissando alza la mano verso il cielo, stringe un bicchiere tra le dita, è una specie di brindisi a distanza, e mi manda un sorriso che non riesco a interpretare.

 

Arriviamo in questa galleria d'arte che poi sono tre stanzoni al primo piano di un vecchio stabile nel centro storico di Reggio Emilia. Davanti a me c'è Koch che cammina stordito tenendo in mano una sigaretta accesa, mentre al mio fianco la poetessa dei pompini guarda le pareti reggendo un bicchiere pieno di negroni, con il ghiaccio mezzo sciolto, se lo è portato via dal locale. Alle pareti ci sono i quadri del pittore, sono dei disegni di omini e di serpenti che mostrano la lingua e urlano, tutti i disegno hanno lo stesso tema, omini stilizzati e serpenti che urlano, cambia solo l'ordine in cui sono disegnati sul quadro, c'è un grosso vantaggio penso io perché se ne comperi due o tre stanno bene assieme, li puoi mettere in un corridoio o in due stanze attigue, il vantaggio dell'arte seriale e che è facile fare abbinamenti, è un po' l'ikea degli intellettuali.

In giro c'è gente simile a me o a Koch, siamo tutti vestiti in maniera abbastanza simile e addossata ad una delle pareti c'è una tavola di legno grezzo retta da due cavalletti sempre di legno, e sopra la tavola ci sono dei triangolini di pan carré e sopra spalmata della roba, che potrebbe essere una cosa tipo derivato della maionese, roba rosa salmonata, e così io che non ho mangiato ancora niente, mi ero sparato solo quell'aperitivo e ora mi veniva di nuovo quel senso di vomito del dopo aperitivo, quando l'alcol evapora dentro al mio corpo e mi resta tutto lo zucchero a depositarsi lì nelle vene e crearmi quella malattia che mi porterà alla morte che si chiama diabete, fin da piccolo mia madre aveva il terrore che io avessi il diabete e comperava in farmacia delle cose piccole, come degli spilli che ti dovevi infilare nel pollice e farci uscire del sangue da mettere su un pezzo di carta che se cambiava colore voleva dire che tuo figlio aveva il diabete e allora lei mi rincorreva per le camere di casa nostra e io scappavo perché non volevo che mi infilasse nella carne quella cosa metallica e alla fine ci trovavamo attorno al tavolo della cucina io da una parte lei dall'altra e facevamo il compromesso che lei mi dava la punta e il buco me lo facevo io e invece di darci un colpo secco facevo entrare la punta a poco a poco, millimetro per millimetro perché -pensavo- quello che mi fa paura non è il dolore, ma il fatto che non sapevo *quanto* mi avrebbe fatto male e così invece piano piano mi rendevo conto del male, non era un trauma, magari soffrivo di più a ben vedere, ma a me andava meglio così e mia madre scuoteva la testa e diceva che avrei fatto meglio a farlo subito il buco di colpo, ma io preferivo millimetro per millimetro e poi la carta colorata non cambiava colore e mia madre restava a guardarla e diceva che non avevo il diabete, ma non era convinta mica da questo test che poi definiva solo precauzionale che non era davvero sicuro, e da un lato era contenta che suo figlio non avesse il diabete, dall'altro si sentiva un po' truffata perché il test in farmacia costava un sacco di soldi e alla fine erano soldi buttati via perché ero sano come un pesce, era una medicina per uno che stava bene, comunque in famiglia ci sono molti diabetici, diceva lei, e quindi il diabete te lo prenderai lo stesso diceva mia madre, e così io dopo un aperitivo mi sento sempre questo zucchero che mi circola per le vene e sono tranquillo perché tanto morirò per il diabete non ci posso fare niente, e mentre sono lì che addento la terza tartina e mi rendo conto con orrore che da bere c'è solo una serie di lattine fidel, una birraccia dei tedeschi e quindi una birra che mi  farebbe scendere di gradazione, dal superalcolico, che era l'aperitivo, dovrei scendere all'alcolicità della birra, e questo mi hanno insegnato che è male, quando inizi a bere devi solo salire e mai scendere che se scendo poi vomiti, regola numero uno che si impara, mai fare mischioni e mai scendere e allora resto con queste tartine salmonate in bocca che ancora muovono la coda e non so bene cosa fare, resto a fissare la birra fidel, che poi non è una vera marca di birra, la marca fidel non esiste è la stessa birra che fanno per tutti i supermercati e poi ogni supermercato ci mette la sua etichetta e si inventa una birra, tipo birra primia o birra fidel o birra krona, tutti nomi che non vogliono dire un cazzo perché la birra è la stessa la fanno nello stesso posto, in via birolli otto a roma fateci caso hanno tutti gradazione quattro virgola sette, è sempre la stessa birra nelle stesse bottiglie ma poi ci mettono un marchio inventato perché la gente non vuole solo la birra, vuole il marchio, ha bisogno di una marca, del logo, di un grafico che gli dia la garanzia che quella birra che sta per bere non è una birra qualsiasi, ma è la birra fidel, cazzo, la birra fidel, che miseria duemila anni di scienze filosofiche per finire a fare il consumatore, che miseria penso mentre sono lì che reggo questa bottiglietta di birra in mano senza sapere bene cosa fare quando si avvicina un tipo con i capelli lunghi e una barbetta sfatta e senza guardarmi mi dice vorrei un bicchiere di nero fermo.

Io resto zitto e quello come se niente fosse mi ripete, ho chiesto un bicchiere di nero fermo. 

Fingo di deglutire.

"C'è solo la birra fidel" gli biascico, immaginandomi la pasta del pan carré che mi si muccica nella bocca.

Allora lui si volta verso di me, e finalmente mi guarda dentro agli occhi e ho questa visione che mi trapassa l'anima, due occhi scuri e profondi, un flash rapido di uno che ha capito tutto della vita e in un momento mi trapassa, davvero, mi sento come se avesse letto tutto quello che avevo dentro e dice niente, non dice nulla, solo questo sguardo folgorante e si gira e se ne va, e io resto bruciato dentro con la birra fidel in mano che lentamente mi scivola dalle dita verso la tavola di legno.

"Hai conosciuto il pittore" mi dice una voce da dietro ed è di nuovo il semiologo che muove la mano davanti a sé, indeciso su quale tartina prendere sono tutte uguali. "E' lui che ha fatto questi" aggiunge, e distrattamente indica i quadri appesi alle pareti da cui siamo bene o male circondati.

"Che tipo è?" chiedo io continuando a masticare faticosamente, riprendendo in mano la birra fidel e tornando a soppesarne le eventuali capacità gastro-endemiche.

Il semiologo non dice nulla, continua a passare la mano tra tartina e tartina, come se si compiacesse di poter scegliere se mangiare o non mangiarne, e poi alla fine alza le spalle e fa una faccia che lui crede estremamente  espressiva, e in effetti lo è, ma non so cosa voglia esprimere e quindi resto lì a fissarlo, sorridendo come se avessi capito un invisibile sottinteso che poi magari manco esiste.

Alla fine il semiologo mi dice che avrò modo di conoscerlo bene il pittore e così dicendo prende in mano una tartina salmonata, la soppesa, e poi la rimette in mezzo alle altre e se ne và, tipo i pescatori che pescano il pesce e dopo averlo pescato lo ributtano in mare, si allontana a passo cadenzato, e poi sento che urla un 'oh! carissimo!' e si avvicina ad un vecchietto raggrinzito con il naso a punta.

'Berrò l'acqua del bronzino' penso io lasciando cadere per sempre la birra fidel assieme alle sue compagne e vado in giro chiedendo un po' a tutti dove sia il cesso, ci sarà anche un cesso in una galleria d'arte.

 

Il cesso c'è, è lo stesso per maschi è femmine devono essere stati gli anni passati sotto le amministrazioni di sinistra a creare questi bagni unisex in Emilia romagna, a genova è tutto diverso, non ci sono proprio i cessi, esistono solo dei reliquari chiamati vespasiani, che sono dei posti bellissimi, roba incrostata di decennali acidi umani con uno scrollio di acqua che arriva da chissà dove e va a finire chissà dove (in mare), conglomerato di malattie batteriche che pigre amministrazioni di sinistra e di destra non si sono mai degnate di far tornare ad uno stato sanitariamente innocuo, ogni nuova amministrazione a genova spende soldi per costruire *nuovi* cessi biologici, fichissimi, mecanizzati che di norma reggono per tre mesi poi le amministrazioni si accorgono che -oh- tenere in piedi quei costosissimi cessi autopulenti costa più che installarli e -oh- nessuna amministrazione si è mai degnata di mettere in preventivo i soldi per la *gestione* di questi tecnologici raccoglitori di merde e di piscie umane , e quindi restano lì, con un lucchetto a serrarli per mostrare alle genti che -badate- la tecnologia non è adatta all'uomo.

E quindi quando entro nel cesso romagnolo ci trovo una ragazza che sta vomitando nel lavandino dove avevo pensato in un primo momento di lavarmi le mani dall'untuosa salsedine delle tartine e di bere un po' di acqua del bronzino.

Quando mi vede entrare, la tipa cerca di darsi un contegno, sbocca ancora un attimo i resti organici di una piadina romagnola, e poi -tagliando con un gesto rapido il filo di umanità che la unisce al lavandino- mi dice che è una giornalista.

"Ah" dico io, come tranquillizzato e non capisco cosa cazzo c'entri il fatto che è una giornalista, ma vedo che è fatta, ha gli occhi viola e sorride barcollando passo passo fin dentro a uno dei cessi e inizia a pisciare senza nessun ritegno.

"Una scrittrice giornalista!" mi urla con uno strano accento, e ride di nuovo e poi esce e torna al lavandino e si sciacqua le mani e poi si ributta in avanti, di colpo fa dei versi con la bocca, ma sputa soltanto alla fine, e mi dice che domani leggerà al ricercare, capito, è una scrittrice vera, domani tutti la sentiranno leggere al ricercare e mi passa davanti come se non esistessi e esce e resto solo nel cesso e fisso il lavandino con le macchie verdi mi è passata la sete.

 

Durante la serata nella galleria d'arte parlo con un sacco di persone, alcuni scrittori interessantissimi che hanno pubblicato parecchi romanzi su internet, dove per pubblicato parecchi romanzi intendono dire che hanno messo su internet il testo del loro romanzo e quindi adesso sono scrittori, ma vedi che non sono felici, quando nessuno li vede si rosicchiano le unghia delle dita.

Koch mi resta vicino e mi dice che lui ha parlato con il pittore, che ha uno sguardo che ti scava dentro, si vede che è un'artista e che dopo andiamo tutti a casa sua, del pittore intendo.

"Koch io sono a pezzi, devo dormire" mi lamento e Koch mi guarda e dice che non c'è problema posso dormire dal pittore.

"Uh. Sei sicuro?"

"Tra artisti usa" fa lui sicuro e mi dice che molte volte lui dorme sui divani della gente, e io crollo la testa in mezzo al capo e seguo il Koch che si avvicina a una tipa che sta parlando di ricercare che inizia domani e lui è curioso di sentire cosa dice, c'è anche l'amichetto del Koch che sorride e beve una birra fidel, con la tranquillità di chi non gliene frega niente.

 

La giornalista vomitatrice con le macchie di piadina romagnola sul maglioncino crema ci dice di essere americana e pare che si sia messa in testa che -dannazione- deve convincerci tutti quanti che la guerra in medio oriente è una cosa giusta e santa, e urla con gli occhi che le ridono che quello là, saddam, dovevano già farlo fuori dieci anni fa, cazzo, non ci sarebbe stato l'undici settembre.

"Uh -faccio io- credo che tu stia mescolando due guerre per la libertà diverse. Era bin laden quello delle torri" e lei mi brucia con lo sguardo e dice che è tutta la stessa gente, saddam, bin laden, arafat, tutta gente che bisognava già ammazzarla dieci anni fa. "Voi -continua indicando solo me- voi non avete avuto l'undici settembre, non potete parlare voi!", e io resto zitto e questo salto dal dieci al dodici non me lo ricordavo, si vede che dormivo.

Sorrido, e quella continua, mi lancia un'occhiata di tanto in tanto e va avanti dicendo che tutta la religione mussulmana è basata sull'odio, che quelli ammazzano a sassate le donne che fanno i figli, capite, le donne che fanno i figli, le ammazzano a sassate, e la chiamano giustizia.

"Beh, anche voi cattolici friggete le persone sulla sedia elettrica, che voglio dire, non è proprio un insegnamento cristiano", e la giornalista si volta verso di me e si ritrae indietro, nello stesso tempo, mi dice gesù cristo, che cazzo centra gesù cristo gesù cristo è un perdente un loser di sinistra. "Noi americani abbiamo un dialogo diretto!" esclama e ride, e poi spiega god bless america, god, mica gesù cristo bless america, niente intermediari.

"Dio benedice gli americani" spiega ponendo le mani a piramide davanti alla mia faccia e agitandole come se si trattenesse per non buttarmele negli occhi, e io -pensando a Dio con l'aspersorio colmo di acqua santa che bendice la sua america- capisco di colpo il diluvio.

Voglio dire per i giapponesi la loro isoletta è un po' di sperma di dio caduto in acqua, sono molto più onesti i giapponesi, hanno un dio ejaculatore, quello americano è un dio piscione.

Ad un certo punto uno chiede ma che cazzo di ore sono e un'altro risponde che è mezzanotte che la prima giornata è finita.

 

Quarto giorno

 

Quando mi risveglio, due giorni dopo, ho un forte mal di testa e la luce è diventata una cosa insopportabile, l'aria puzza di acido e mi sento tutto incrostato, la pelle tutta come se fosse dipinta, un impressione di questo tipo. Qui cambiamo registro.

Rimango immobile, con gli occhi socchiusi a fessura, anche se ho freddo, anche se ho una fame fottuta, mi devo essere svegliato per quello, una fame che mi balla nello stomaco battendo i piedi e scuotendo le mani. Mi sento come se le palpebre si fossero riempite d'acqua e ora stessero gonfie a schiacciare la massa bianca verso l'interno della mia povera testa.

Sono ancora nella casa del pittore, quel poco di cosmo che si azzarda ad entrarmi dentro agli occhi mi mostra il soffitto della stanza scarna che da due giorni è diventata la mia tana, e quella di Antonio.

Man mano che prendo consapevolezza del fatto che -no- non sto più dormendo, che sono passato dallo stato di beatitudine tipico delle nature morte, a quello agitato e nervoso delle nature vive, nel momento in cui voi state leggendo, ecco che tutta una serie di avvenimenti iniziano a rimbalzare dalla mia parte, come se ci fosse un monitor del tutto nero e poi si vedono dei pallini è poi capisci che quei pallini sono solo una rappresentazione di cose tridimensionali che -in effetti- si stanno avvicinando sempre di più, e man mano che si fanno più vicine il livello di dettaglio si fa sempre maggiore e piano piano capisci cosa sono, cosa rappresentano, è una specie di salvaschermo della memoria, ma in questo caso non mi salva per niente, anzi, mi condanna, perché le cose che vedo avvicinarsi sono cose che non vorrei vedere, che chiuderei gli occhi per non vedere, solo che gli occhi sono già chiusi e quindi al limite posso solo aprirli, ma so inconsciamente che se li aprissi vedrei le stesse cose che nella mia memoria si stanno avvicinando così lentamente, quasi una deriva sognante, una barca che viaggia in un nero assoluto e perfetto, e allora me ne resto con gli occhi chiusi, come se fossi seduto sulla riva del fiume a vedere il cadavere di Koch che passa, la pompinara che ride come una pazza, il pittore sdraiato per terra mezzo nudo con una rivoltella a mirare il cielo stellato e sparare, lo strindberghiano che urla disperato indicando un foglio che brucia, il  cane bell che cade come se inciampasse e non si rialza più, e io in mezzo che indico tutte queste cose e non dico niente e adesso apro gli occhi e mi giro e vedo il cadavere di Koch sdraiato anche lui con gli occhi aperti a fissare senza vedere un quadro del pittore, un serpentello bendato che urla cieco.

 "Koch" dico a bassa voce, e dietro a Koch c'è il pittore che sta dipingendo, ha messo il cavalletto tra la porta d'ingresso e il cadavere di Koch e ora lo sta ritraendo, con una mano tiene il pennello e con l'altra una tazza fumante. E' tranquillo, con quel suo sguardo che sembra avere compreso tutto della vita, e quando si accorge che mi sono svegliato mi chiede se voglio un caffé, che lo ha fatto da poco che è ancora caldo.

"Ho mal di testa" rispondo con un filo di voce e poi aggiungo che non mi ricordo un cazzo, non mi ricordo proprio un cazzo, il pittore continua a dipingere nel silenzio e poi dice che ci crede, ci crede che non mi ricordo un cazzo, dopo quello che mi ero fatto ieri sera è il minimo, e poi resta immobile a fissare il quadro per qualche secondo, per poi riprendere a dipingere, e va avanti così, è il suo mestiere.

Mi tiro sù sui gomiti e resto a fissare il volto di Koch, è dimagrito, è diventato brutto, mi fa paura, mi viene da pensare che all'improvviso si giri verso di mee si metta a parlare, chiedermi da bere, una cosa del genere, e questo tipo di pensiero mi terrorizza.

"E' morto" chiedo al pittore, senza nessuna interrogazione nella voce, e lui non mi risponde, continua il suo lavoro e dopo un po' dice che dobbiamo buttarlo via, che devo dargli una mano per portarlo da qualche altra parte, che se lo trovano lì lui passa dei gran casini. "Lo avvolgiamo in delle coperte  e lo portiamo alla discarica, prima che si metta a puzzare" mi spiega.

"Quanto tempo abbiamo?" chiedo.

Il pittore alza le spalle, dice che non ne ha idea, sa solo che dopo un po' puzzano, è una di quelle cose che si sanno e basta.

Butto un'occhiata sul mio corpo disteso sul divano, sono nudo, completamente nudo e coperto di macchie scure, come se mi avessero verniciato, e quando ci passo una mano sopra vedo che si sbriciola, capisco che è sangue, che potrebbe essere sangue.

"Devo farmi una doccia" dico al pittore e quello alza le spalle, dice che va benissimo così lui ha tempo di finire il quadro. 

Quando gli passo alle spalle vedo che sta disegnando uno dei suoi soliti quadri con i serpenti che urlano e gli omini che corrono, non c'è niente di diverso da tutti i suoi altri quadri, guarda il cadavere di Koch e poi disegna un omino che corre, identico a tutti gli altri.

 

Entro nel bagno e penso adesso vomito, per il pensiero del cadavere di Koch adesso vomito, in un film mi sarei messo a vomitare, ma nella realtà non mi scappa da vomitare, ho nausea, quello sì, e mal di testa, ma niente a che vedere con il vomitare e infatti apro l'acqua e mi metto sotto la doccia, il bagno del pittore è piccolissimo, c'è solo la doccia e il  cesso, il lavandino è sepolto sotto un ammasso di pennelli sporchi lasciati a colare la loro tinta verso lo scarico.

Mentre sono sotto la doccia cerco di ricordare cosa è successo, mi ritornano alla mente un po' di cose, rivedo Koch che legge il suo pezzo e io che salgo a leggere il mio intervento, ricordo la giornalista americana e il suo articolo, e ancora prima ricordo il semiologo che presentava il suo libro , e poi l'avventura con lo strindberghiano dalla faccia verde, di notte nella biblioteca di Franco Perelli.

Ma sono solo frammenti che fanno a pugni tra di loro, come se mi fossi messo a fare un puzzle in cui ci sono tutti i pezzi e tutti effettivamente rappresentano lo stesso soggetto fatto a pezzi, ma la sagometta che li distingue gli uni dagli altri, fosse stata fatta in modo che i pezzi singoli si potessero al massimo accostare gli uni agli altri, senza poterli incastrare veramente, alla fine avevi un'idea di massima di quello che andavano rappresentando, ma era solo una deduzione, una tua intuizione di quello che sarebbe potuto essere, e non un disegno uniforme.

Quando esco dalla doccia mi sento più confuso di prima, mi rivesto con gli stessi vestiti di prima e mi fa schifo l'odore che sento, è un odore selvatico, come di una bestia che dorme nelle lenzuola del suo padrone.

Nello studio il pittore ha già steso per terra delle coperte e ci ha trascinato sopra Koch. E' rigido, sembra un manichino, ogni volta che ne sposti una parte si sposta tutto il corpo, non posso fare a meno che sorridere e poi aiutare il pittore ad avvolgerli attorno le prime coperte e poi farlo rotolare, sembrava tanto piccolo e invece è pesantissimo.

Appena abbiamo finito il pittore va alla porta e la spalanca, mostrando il piccolo pianerottolo della scala che, ripida, si getta nel buio verso il pianoterra. Il pittore si gira verso di me, come se valutasse qualcosa, e poi toglie i fermi per spalancare anche la seconda anta, per poterci passare più comodamente.

"E se ci vedono? Non è meglio aspettare che sia notte?" chiedo io perplesso.

Il pittore mi fissa per qualche secondo e poi mi dice che sono le tre di notte, che il fatto che io mi sia svegliato non vuol dire che sia giorno, sono le tre di notte ripete e mi fa segno di prendere le gambe del fagotto con dentro Koch.

Io sorrido e mi scuso, dico che pensavo fosse mattino, guardo le finestre e in effetti sono tutte chiuse, e persiane sono bloccate e gli scuri serrati, chissà perché, mi ero svegliato pensando fosse mattino. Mi chiedo cosa sarebbe successo se non mi fossi svegliato per la fame, se mi fossi alzato veramente domani mattina, avremmo tenuto con noi Koch tutto il giorno?

Il pittore rientra e prende Koch dalla parte della testa, io lo prendo dalle gambe e usciamo, a fatica , da casa sua.

"Fermati" mi dice quando siamo fuori, e posa la sua parte di Koch per terra e torna indietro a chiudere tutto, rimette i fermi e dà due giri di chiave, non si sa mai, mi dice.

Scendiamo per le scale con la stessa cura che si ha per i mobili, facciamo dei giri scomodissimi perché non prenda colpi, quando me ne rendo conto mi sembra assurdo, ma poi continuo a fare le cose con grande attenzione, come se si potesse ancora fare male, in fondo è stato un grande scrittore.

Proprio fuori dal portone c'è la due cavalli del pittore. Mi dice di posare Koch a terra e poi esce, apre il portellone, tira giù i sedili di dietro, e poi torna a blocca il portone. Fuori è notte piena, ci sono solo gli alberi immersi nel buio del cortile.

 

Mentre ci dirigiamo verso il centro città il pittore mi dice che adesso che ci pensa non ha la più pallida idea di dove sia la discarica. "Non ci sono mai stato" aggiunge muovendo una mano nell'aria, nell'altra dà dei colpi al volante. Io non dico niente, resto zitto a pensare a Koch, a come cazzo era morto e lui dice che allora possiamo lasciarlo in un cassonetto, che in fondo è la stessa cosa, scendiamo dall'altra parte della città e lo lasciamo in un cassonetto, magari in un posto fuori mano, distante da casa sua, nessuno potrà pensare a lui.

Poggio la fronte contro il finestrino e vedo scivolare fuori le case illuminate dai lampioni silenziosi, c'è quella situazione irreale nella quale il motore della macchina diventa la cosa più importante da ascoltare, una cosa del genere. Man mano che procediamo le case diventano sempre più rade e, ad un certo punto, siamo come in campagna, è tutto piatto e ci sono campi coltivati, di tanto in tanto si vede in lontananza una macchina che ci viene incontro con gli abbaglianti, e appena si accorge di noi mette gli anabbaglianti, poi ci supera e rimette gli abbaglianti, lo vedo dallo specchietto retrovisore.

"Ma perché in un cassonetto?" chiedo dopo un po' che guidiamo in questo posto di campi coltivati, perché non lo lasciamo in uno di questi campi, è pieno di campi tutto intorno. Il pittore mi guarda come se mi vedesse solo in quel momento, poi guarda i campi e dice le scarpe, nei campi ci andiamo a infangare tutte le scarpe.

Inconsciamente guardo verso i piedi e non vedo niente, è buio.

"Voglio dire, dal fango potrebbero risalire a noi" aggiunge il pittore, di solito nei film succede, è una cosa possibile.

 

All'improvviso ci fermiamo di fronte ad un cassonetto grigio, appoggiato ad un palo della luce, nel mezzo di un rettilineo che arriva e si perde nel buio. Il pittore posteggia l'auto, nel senso che arranca sul bordo della strada, sussulta e si ferma.

Apre la portiera e lo vedo fuori dalla macchina che fa qualche passo verso il cassonetto, e agita le braccia come per scaldarsi. Stando dentro l'auto mi sembra che il pittore sia finito in un altro mondo, è dall'altra parte dal vetro e ho come l'impressione di vederlo come attraverso un film, ho questa visione di io seduto in questo cinema piccolissimo e il pittore dietro allo schermo. Poi vedo che fa due passi verso il cassonetto lo apre, guarda dentro per un tempo che mi sembra lunghissimo, lo richiude velocemente e torna in auto sbattendo la portiera.

"Beh?" faccio io.

"E' pieno" dice lui riaccendendo la macchina. "Koch non ci sta lì dentro".

Ripartiamo, e torniamo ad immergerci nell'oscurità che ci circonda, dallo specchietto vedo il telo bianco che copre il corpo di Koch, ondeggia appena per il vento che entra dal finestrino che il pittore si ostina a tenere aperto.

 

Finalmente il pittore prende una strada in salita, mette la freccia e si inerpica in questa strada sterrata che ci scrocchia sotto le ruote e i fari illuminano un fondo di terra rossa e grossi pietroni.

Continuiamo a salire per una serie di strettissimi tornanti, il pittore guida e mentre guida cerca con una mano qualcosa che non trova dentro alle tasche, forse una sigaretta.

"In cima!" mi urla indicando il buio davanti a sé ma poi si ferma, perché ha trovato quello che cercava un pacchetto di marlboro.

'Questo prodotto uccide' penso guardando la grossa scritta nera sul pacchetto che avverte che, insomma, il fumo eccetera.

"Un ristorante!" aggiunge finalmente il pittore, mentre il vento gli scompiglia i capelli. Sulla cima c'è un ristorante, e poi dice che di inverno è chiuso, apre solo d'estate, per le sagre. "Fuori dal ristorante c'è un cassonetto, lo molliamo lì dentro!" conclude, indicando il mio compagno, io sto zitto.

Saliamo sempre, curva dopo curva, e il Koch dietro intanto si sbatacchia da una parte all'altra, va ad abbattersi contro i nostri sedili, contro le portiere, e io penso meno male che non dobbiamo togliere le lenzuola prima di buttarlo, avrei paura a vederlo rotto da qualche parte, un buco, delle dita spezzate senza dolore.

Finalmente arriviamo alla fine di questa strada, e ci troviamo sulla cima di una collina ripidissima, c'è un prato nero immerso nel silenzio e un cielo senza stelle sopra, deve essere nuvoloso. I fari illuminano per un attimo una costruzione in legno, e poi niente, il pittore ha spento i fari e siamo piombati nella notte.

"Non si vede niente!" protesto, ma quello è già sceso, è andato dietro ad aprire il portellone per prendere Koch.

"Poi gli occhi si abituano, dopo un po'" mi risponde quando scendo dall'auto per dargli una mano.

 

Il cassonetto è sul limitare della strada, è incastrato tra due pali metallici per evitare che scivoli sulle ruote per la discesa ripida.

"Giù" mi dice il pittore, e si piega per posare Koch per terra.

Un grosso fagotto bianco, sembra quasi brillare al buio.

Per aprire il cassonetto c'è una specie di leva laterale, che il pittore non riesce a bloccare: ogni volta che apre il cassonetto e molla la leva per aiutarmi a prendere Koch, il cassonetto si richiude. Fa così per due o tre volte, poi si infuria, tira sù di forza Koch e lo appoggia al cassonetto,  apre il cassonetto e tenendo lo sportello con una mano ci entra dentro, mette l'altra mano sul bordo, un piede sulla testa di Koch, e fa un salto dentro al cassonetto che rimbomba sotto i suoi scarponi, deve essere del tutto vuoto.

Da dentro tiene aperto lo sportellone con il suo stesso corpo e con le mani afferra dall'alto Koch.

"Alzalo!"mi ordina e io prendo le gambe di Koch, le sollevo e inizio a spingerle verso il pittore che si mette a tirare e -a un certo punto- sento che il corpo di Koch vola quasi dentro al cassonetto, mi scappa proprio dalle mani e sento un colpo sordo, e poi un secondo clangore metallico, io scivolo in avanti, mi ritrovo con la faccia per terra, le mani sbucciate sulle pietre.

Quando mi rialzo sono solo, non c'è nessuno, il cassonetto è chiuso.

Mi giro intorno perplesso, non c'è proprio nessuno.

"Apri!" sento urlare da dentro il cassonetto. "Apri!" di nuovo e sento come qualcuno che dà un pugno.

Osservo il cassonetto e capisco che il pittore è rimasto chiuso dentro.

"Apri!" urla ancora e dice che da dentro non riesce ad aprire, e c'è puzza, apri cazzo apri!

Allora io mi avvicino al cassonetto e afferro le due maniglie che stanno in basso e tiro il cassonetto verso di me e quello scivola sulle ruote, lentamente per il peso e per le due sbarre di ferro che lo tengono rivolto verso l'alto, ma io continuo a tirare con tutte le mie forze, punto i piedi finché non sento che si sta muovendo, centimetro dopo centimetro le ruote lo fanno venire in avanti liberandolo dalle due sbarre e intanto sento il pittore che urla e che mi chiede cosa cazzo sto facendo e io continuo a tirare, e più tiro, più il cassonetto si libera delle sbarre e inizia a sentire l'inclinazione della strada, e diventa sempre più facile da spostare finché non mi rendo conto che mi sta venendo addosso, fino ad un secondo prima ero io a tirare, adesso il cassonetto si muove da solo verso il basso, ha preso la strada sterrata e io mi butto su un lato e vedo che passa vicino a me, lentamente, ma sempre più rapido, ogni metro prende velocità e lo vedo che corre verso il basso, sento le urla del pittore sempre più lontane e io lo seguo da distante ridendo, finché non arriviamo al primo tornante e il cassonetto a tutta velocità esce dalla strada e sparisce, semplicemente, nel vuoto.

Quando arrivo ansimando per la corsa vedo solo un precipizio a picco sulla scogliera, e sotto l'ombra immobile del mare che non si è mosso per niente.

 

Tornando verso Reggio Emilia guido lentamente, vedo i cartelli verdi dell'autostrada che mi rotolano contro, appaiono dal buio e scompaiono nel buio dietro di me. Dal filo dell'orizzonte spunta la linea bianca dell'aurora, e io mi dico che devo ricordare quello che è successo, devo fare l'astrazione è la cosa più semplice, devo uscire dal mio corpo e vedermi da fuori, come se fossi un personaggio, una persona che non sono io e che si muove in posti in cui sono stato nel mio passato, così ci sarò sia io che questa persona che si muove, il signor Bonaventura, ecco, potrebbe essere il signor Bonaventura che si passa una mano sulla faccia e sente uno che chiede che ore sono e un'altro che si gira e apre la bocca, magari le cose sono andate proprio così.

 

Secondo giorno

 

Qualcuno rispose che era passata la mezzanotte, e il signor Bonaventura pensò che il primo era finito, si era già nel secondo.

Nella galleria d'arte c'era un gran casino adesso, si era riempito di gente che a intervalli si accalcava attorno a un tipo anziano magro con il naso aquilino, che parlava a bassa voce stringendo il bicchiere di birra fidèl, come se mollandolo avesse rischiato di precipitare sul pavimento piastrellato.

Bonaventura era stanco, buttava sguardi attorno per cercare il Koch o -in seconda istanza- il pittore, non si rendeva conto che quello era il momento topico della serata, tutti erano venuti per quella mezz'oretta che era appena cominciata, mentre Bonaventura si innervosiva perché si sentiva stanco o sporco o affamato a scelta, tutti gli altri entravano nel grande periodo, vedevano quelli che dovevano vedere, parlavano e dalla loro bocca usciva quella serie di musiche che da tempo aspettavano di uscire, era il momento tanto atteso per raggiungere il loro scopo e molti di loro lo stavano effettivamente raggiungendo, la giornalista americana, Koch, l'amichetto di Koch, il pittore, il semiologo, il vecchio sanguineti, tutti erano al loro posto a fare la loro parte e tutto stava andando benissimo, era quello che tutti si aspettavano, l'aria era piena del fiato delle persone che inspiravano ed espiravano e così facendo si scambiavano la parte invisibile dell'adrenalina, quella sostanza incorporea che corre sulla pelle e ti entra dentro e ti fa stare bene ti rende più forte, te lo fa sentire duro e intelligente, entrare ed uscire, tutta l'aria era piena di spore aliene che germogliavano ed esplodevano in forme cristalline che tintinnavano per via delle risate o per via dei movimenti di quei corpi tutti in piedi tesi ad incrociarsi e a dividersi, era un grande successo, era il momento topico, quello che dura al massimo mezz'ora, contando i preliminari e gli strascichi, e tutto stava andando benissimo, c'era un odore di vita nell'aria, c'era la fertilità che abbracciava tutto l'orgoglio spumeggiante che saliva dagli stomachi ricolmi di fidel per sgorgare verso il soffitto in colonne ascendenti cariche di amore e di sopravvivenza, era il momento topico, l'ho già detto, e solo Bonaventura puzzava.

Puzzava Bonaventura della puzza che fanno gli ospiti dopo tre giorni la stessa dei pesci, ma lui puzzava già da prima, ci sono persone a cui succede, si alzano alla mattina e già puzzano di cadavere, si spostano e fanno le loro cose sacrostante, tutti i santi giorni, e si portano dietro quell'odore fastidioso, una puzza di morto che ti nasce dentro quando sei ragazzino e tutti pensano magari crescendo poi migliora, magari con la pubertà e tutte quelle cose legate alla pubertà poi cambia e l'odore, non diciamo sparisce, ma si attenua, lo sente solo uno che ci dorme assieme nel letto, è una scelta, vivere tutta la propria vita con un uomo che odora leggermente di morte, anche quando ride a tavola anche quando ti sta scopando nel buio della stanza, un eterno odore di morte che lo accompagna, ecco come stanno le cose, c'è chi fa una scelta di viverci assieme e magari l'uomo si dimentica anche di questa cosa che puzza di morto, perché c'è chi ride con lui a tavola o si fa scopare nel letto, faccio per dire, sono solo degli esempi, e lui si dimentica di questa cosa che puzza di morto e fa finta di non puzzare di morte finché non invecchia e non muore, a quel punto la puzza sparisce, tutti quelli venuti a fare le loro preghiere, a snocciolare il loro rosario, a fumarsi le loro sigarette fuori dalla stanza, si rendon conto che adesso quel grosso pezzo di carne non puzza più di morte, semplicemente non puzza di niente, una faccia tirata, la pancia svuotata, e nessun odore, niente di niente, tutti che pregano o piangono e tirano su con il naso e non sentono niente, polvere sei e polvere tornerai, ecco come stanno le cose, ecco come era Bonaventura con il suo abito rosso e il suo assegno di un milione di euro in tasca, e l'odore pestilenziale che lo circondava, che ricordava a tutti che -ragazzi- godetevi la vita che poi si crepa, e tutti godevano, era la mezz'ora magica ricordate, era il momento topico, non ci eravamo spostati di un millimetro, eravamo sempre nello stesso posto, tutti erano pronti e solo Bonaventura puzzava.

Quella notte Koch fece quello che non doveva fare, sparì nel nulla, fino a un momento prima era lì che ascoltava un tipo con gli occhiali di osso, un critico che scriveva per un giornale d'arte sardo, e poi semplicemente era sparito, del tutto sparito voglio dire, Bonaventura girava tra le persone senza neppure vederle e non trovava il suo Koch, il vecchio Koch, dannazione, gli occhi di Bonaventura saltavano da un punto all'altro della stanza, e Koch non c'era, c'erano solo questi cerchi di persone che aumentavano e diminuivano la loro densita e poi si riunivano di nuovo e di nuovo si separavano, la versione sudata della simulazione life quella con i pallini bianchi e neri, e Bonaventura capiva che era solo, che Koch era sparito, magari il pittore se ne era andato via e Koch lo aveva seguito, ubriaco, e si era dimenticato di Bonaventura, il vecchio Bonaventura che adesso correva giù per le scale, fuori da quella dannata galleria d'arte, e fuori non c'era nulla, solo gente che camminava e qualcuno che correva via, e cosa ti fa il Bonaventura?, il Bonaventura va a pensare che quello che corre via sia Koch, che abbia ricevuto qualche messaggino sul cellulare e che sia fuggito senza pensare all'amico, al buon Bonaventura che adesso si lanciava dentro a un vicolo, seguendo quella figura scura che scompariva alla fine di una curva e poi ancora, curva dopo curva, mostrando pian piano che no, davvero no, non era Koch, era più basso, e aveva le mani con dei guanti neri, vestiva completamente diverso, non era per nulla Koch, ma stava continuando a fuggire e Bonaventura lo continuava a inseguire, quello si girava indietro per un attimo, nell'oscurità della notte e quando vedeva Bonaventura riprendeva la sua folle corsa, e più continuava l'inseguimento più Bonaventura capiva che quella corsa era cominciata per lui, per Bonaventura, che quel tipo doveva essere scappato nel momento in cui Bonaventura era uscito pert cercare il Koch, non era un caso, quel tipo lo stava aspettando e quando lo aveva visto era scappato a gambe levate, si fa per dire, e Bonaventura lo aveva inseguito fantasticando che quello fosse il suo angelo, l'angelo che sempre ci segue, e lui fosse giobbe, colpito dalla disgrazia divina che cerca vendetta nel giardino di Stoccolma, e insegue l'angelo per combattere contro di lui e vincere, e così vincendo continuava a correre , sfinito Bonaventura correva e continuava la sua corsa senza fine, ma che  aveva fatto bene ad intraprendere perché, ad una curva che dava in salita santa brigida, un lampione aveva illuminato il viso dell'inseguito, ed era il volto verde del tipo del treno, quello che aveva spiato Bonaventura fin dalla sua partenza da genova ecco che continuava a stargli dietro, a tallonarlo, anche nel locale e poi lì fuori dal pittore, era rimasto fuori ad aspettare Bonaventura per sapere dove andasse, per sapere quello che facesse, ed ecco che ora gli lanciava un'occhiata rancorosa, chiudendo le labbra a culo di uccello, e stringendo il bavero del cappotto a coprigli il piccolo petto, ecco che riprendeva la sua corsa per salita santa brigida, arrancando scalino dopo scalino e sconoscendo, il tipo dalla faccia verde,  baffetti mefistofelici e la bocca a chiusura di culo, che la scala di santa brigida di norma -è vero- conduce nella parte alta di Reggio Emilia, ma in quel particolare periodo in cui si svolgono i fatti da noi narrati, portava solo ad un giardinetto rifugio estivo di tossicodipendenti sciancati che si facevano le pere sugli scivoli made in usa destinati a bambini futuri consumatori, e sconoscendo pure che la parte finale della scalinata era chiusa per i lavori di "Reggio Emilia centro europeo della cultura 2002", mai terminati per un ricorso legale di una delle ditte che avrebbero dovuto avere il subappalto dalla regione e poi erano state scartate per favorire un'altra azienda di costruzioni tanto cara a un tipo a roma di cui non possiamo fare il nome, anche perché non esiste ci stiamo inventando un po' di cose verisimili di sana pianta, e quindi, per farla breve, la scala era stata demolita nella sua parte finale, quella in cemento armato, per rifarla con laterizi fichetti che giacevano in un magazzino all'aperto a Montebello di Battaglia e si sbriciolavano anno dopo anno, e quindi, siamo a fine periodo, la famosa salita di santa brigida aveva preso il nome gergale di salita degli spilli, o salita delle spade, in riferimento alle summenzionate siringhe che bella vista facevano di sé lungo l'improvvisata via crucis dei tossici costretti a farsi qualcosa come settecento scalini prima di potersi fare un po' di roba in assoluta pace, parlo di quella eterna.

Così si trovarono di fronte l'uno all'altro, parlo di Bonaventura e del tipo del treno che ansimava per la lunga corsa e guardava con rabbia la transenna rossa e bianca che gli impediva la fuga verso l'alto, era bloccato in quei giardinetti di asfalto, dove solo gli scheletri dei giochi per bimbi svettavano con la loro scura ombra contro il freddo cielo notturno, e a quel punto il tipo si voltò verso Bonaventura che era arrivato pure lui e si era fermato, mettendo le mani sopra le ginocchia piegate, come se questo potesse aiutarlo a riprendere fiato, era distrutto dal viaggio e dalla corsa, fissava il pezzo di mondo sui cui poggiavano i suoi piedi, senza vederlo, e di tanto in tanto alzava la testa verso il suo antagonista, per paura che potesse sfuggirgli, adesso che l'aveva preso in trappola.

"Chi sei?" chiese Bonaventura nel silenzio rotto solo dal rumore continuo della automobili, in ogni parte del giorno e della notte c'è sempre qualche automobile che gira, c'è sempre qualche persona rinchiusa in quel metro quadrato di spazio, che guida da un punto all'altro, gente persa nell'inizio del suo lavoro notturno o gente che si sta fottendo la parte finale della sua giornata, le braccia aggrappate sul volante, l'autoradio che rimbomba  uno nel sedile dietro che ti parla e ride gesticolando con gli occhi iniettati di sangue e niente, tutto questo fa rumore, il continuo rumore delle automobili, in ogni città non esiste veramente un momento in cui *tutte* le automobili si spengono, un secondo, un attimo, in cui nessuna auto sta girando per la città, in cui ogni cosa è ferma, magari uno che gira con il cane per le strade e osserva i semafori lampeggiare il loro giallo idiota , uno che non riesce a dormire perché ha una cosa che gli rovina la testa e allora dice al proprio cane, su fedele bell, facciamo un giro supplementare per la piscia,  e così esce fuori e si trova in questa città senza rumori, nessuna auto che si muove,  i televisori muti, il niente, per un momento soltanto il tipo con il cane sente questo niente e allora si rende conto del qualcosa, come quella teoria che i pianeti girando producano rumore, ma essendo un rumore continuo noi non lo sentiamo, eccetera, prendere appunti su chi abbia scritto una cosa del genere, temo siano i greci, ecco i pensieri che attraversavano la testa del povero Bonaventura quella sera, chi sei chiese in quel preciso frammento di tempo in cui tutta la città si era fermata Bonaventura al tipo con la faccia verde e il tipo tossì, crollò le spalle e con una voce squillante e nasale disse che lui era Strindberg.

"Uh" fece Bonaventura. "Il famoso scrittore di origine svedese, amico di Nietzche e di Emil Zolà?"

"In persona" rispose il tipo facendo un leggero inchino.

"Temo che lei sia morto nel 1912" aggiunse Bonaventura con il viso di chi ha il timore di anticipare una brutta notizia a chi non l'ha ancora ricevuta ufficialmente.

Il tipo scosse la testa esprimendo commiserazione. "Non sono l'originale -precisò- sono la reincarnazione".

"Ah" fece Bonaventura senza pensare a niente. "Piacere" aggiunse dopo un attimo tendendo la mano.

 

Per farla breve venne fuori che questo Strindberg era un tipo di Varese Ligure che verso i trent'anni aveva capito di essere la reincarnazione di Strindberg vero, quello morto nel 1912, perché tutte le cose che gli succedevano poi le ritrovava scritte paro paro nei libri dello scrittore e drammaturgo svedese. Si era infoiato allora nel leggere e studiare i libri di Strindberg, si era divorato tutta la croce nera strindberghiana, dai drammi da camera, ai romanzi nietzchiani, fino alle improbabili favole per bambini stampate da feltrinelli per errore o al primo dei sette tomi di L'opera narrativa della Mursia, i cui voluminosi resi invenduti avevano portato ad una saggia soppressione dei restanti sei, mai stampati.

Era qui il problema.

Pare che la reincarnazione di Strindberg, per oscuri disegni cari solo ai buddisti, non conoscesse una sola parola di svedese, e questo aveva posto un grave limite nella lettura dell'opera omnia del prolisso autore nordico, circoscrivendo la conoscenza della precedente vita del tipo di Varese Ligure ai soli testi tradotti in lingua italiana che, considerando la sterminata produzione strindbeghiana, erano come cacate di piccione schizzate su di una immensa scogliera immersa nelle tenebre.

"Capisce -diceva la reincarnazione gesticolando-  qua in Italia abbiamo venti edizioni de La stanza rossa, che è un po' l'hit single di Strindberg perché fa ridere, ma niente degli studi sulla vita dei contadini francesi della fine del milleottocento, niente zibaldone di riflessioni alchemico-filosofiche, niente Sylva Sylvarum in cui Strindberg scrisse capitoli di mistica ecologica tipo il ciclamino illumina il grande disordine e la coerenza infinita, niente di niente!".

"Una grave perdita" ammise Bonaventura facendo la faccia contrita. "Ma cosa c'entro io?" aggiunse poi, mettendo le dita in modo da formare la famosa figura della piramide egiziana.

La reincarnazione allargò gli occhi per mostrare stupore e poi dise beh, lei ha scritto questo! e il questo! era un libro che il tipo tirò fuori da una tasca dell'impermeabile, e la copertina del libro ricordava in effetti qualcosa a Bonaventura, le nere parole del titolo recitavano STRINDBERG E LA PROGRAMMAZIONE LOGICA e Bonaventura pensò cazzo, cazzo quel libro!

Strindberg e la programmazione logica era un libro fasullo, una delle toppe scritte ad hoc in un pomeriggio, per tappare qualche conferenza improvvisata malamente, che doveva aver causato come strascico la richiesta di questo essenziale tomo citato nella bibliografia. Bonaventura aveva preso dallo scaffale in basso della libreria del salotto il manuale di Programmare in Prolog di clocksin-mellish, dallo scaffale in alto Inferno di Strindberg, e dalla porta del bagno che sbatteva continuamente per la corrente, il fondamentale fermaporte Godel escher bachdi Hofstadter, e si era messo di buzzo buono a copiare e incollare periodi ora dall'uno ora dall'altro, con risultati particolarmente suggestivi come:

 

         Se si introduce la natura del ciclamino di crescere con un cotiledone, per avere un comportamento corretto con una struttura sintattica di una certa forma, non c'è alcuna garanzia che il comportamento abbia ancora senso nel caso appaiano strutture sintattiche con altre forme, quelle che Strindberg definisce 'protralli di crittogrami'.

 

Insomma, un centone spurio senza ne capo ne coda, che però doveva aver convinto lo sconosciuto professore torinese che lo aveva richiesto e che -ora- Bonaventura intuiva essere stato soltanto un prestanome per la fame di conoscenza della reincarnazione strindberghiana.

"Lei ha scritto questo capolavoro -disse il tipo di Varese Ligure indicando il tomo- e solo a lei debbo la citazione in italiano di testi mai tradotti dallo svedese".

"Lei non sa quanto è fortunato. Torniamo di sotto, le offro un maraschino" disse Bonaventura con l'accondiscendenza universale che si usa con i pazzi, indicando la scala che discendeva verso il basso.

 

Durante il percorso che riportava nel centro città, la reincarnazione di Strindberg continuò a parlare ed arricchì il suo confuso racconto, era stata la lettura del testo del Bonaventura che aveva convinto la reincarnazione dello svedese a lasciare Varese Ligure per intraprendere la missione che avrebbe radicalmente modificato la sua vita, ovvero lo avrebbe portato a quella metempsicosi della memoria, per dirla con le parole del poeta, passando per la lettura delle pagine ancora a lui precluse dello Strindberg numero uno.

"Un corso di svedese?" azzardò ingenuamente il Bonaventura, e la reincarnazione abbassò gli occhi stringendo i pugni, e disse che no, che già ci aveva provato con scarsi risultati, anzi scarsissimi, sapeva a stento dire kvala che voleva dire, 'grazie', ma in polacco, in svedese non lo sapeva, dannate ragazze polacche dai capelli color biondo-cenere e le tette calde. "Le svedesi -spiegò meglio Strindberg- le ragazze svedesi sono la versione in fast forward di dorian grey, quando ne vedi una davvero fica scopri che ha quindici anni, il che non è di per sé un problema, se non fosse che superata la fatidica soglia dei sedici anni la pelle di queste bianche bellezze nordiche assume una tonalità rosso ubriaco, la faccia si gonfia come se si fossero siliconate le guance e il corpo straborda in rotoli grassosi cumuliformi, insomma dopo i sedici anni le svedesi diventano tedesche, povere donne".

Bisogna restare per forza sotto i quindici, concludeva Strindberg perso in questa divagazione coitale e il Bonaventura annuiva e rispondeva che -in generale- il problema dei ragazzini o delle ragazzine era che a Bonaventura piacevano, lui credeva che l'umanità non crescesse partendo da zero e  diventando man mano adulta e poi vecchia e poi amen, in un processo omogeneo di sviluppo. "Sono tutte cazzate per femminucce" affermava serio Bonaventura scendendo gli scalini, roba zen. "In realtà noi entriamo in possesso di una serie di esseri man mano diversi, pur mantenendo il nostro nucleo più interno che è poi quello che ci permette di ricordare le cose, ameno una parte. Quindi una ragazzina non è un qualcosa che diventerà una donna -proseguiva il Bonaventura- ma è un essere posseduto temporaneamente da qualcosa che poi in seguito possederà un essere donna e così via, questo per dire che le ragazzine sono esseri finiti, capaci di fare cose che le donne non possono fare, hanno una loro dignità e una loro identità, tutta quella roba dell'educazione, della formazione, del plagio sono tutte cazzate venute su in quest'ultimo secolo con le scuole dei professori tedeschi che hanno avuto la bella idea di insegnarci cosa pensiamo dentro di noi, e invece quelli si sono solo inventati delle storielle, e noi a crederci e a fare leggi adeguandoci a storie inventate è una follia. Le ragazzine sono esseri completi, ecco quello che penso io, esseri completi che sanno benissimo cosa vogliono e come ottenerlo".

Bonaventura si passò una mano sul volto, come per riflettere ancora e poi aggiunse: "L'unico appunto che faccio è per l'odore, le ragazzine a quest'età puzzano, sono esseri dignitosi ma puzzano c'è poco da fare".

"Amen" disse Strindberg e si fece il segno della croce, per poi riprendere il filo del suo discorso interrotto, parlava stringendosi nervosamente nel cappotto, acciambellando le mani l'una dentro all'altra, si guardava attorno con sospetto, con il suo visino verde che fiammeggiava nell'oscurità della notte, mescolava assieme fierezza e timore mentre apriva la bocca e tirava fuori le cose che doveva dire, nello specifico che quella sera l'avrebbero fatto, sarebbero entrati nella sua casa e gli avrebbero rubato i manoscritti, tutti i manoscritti e soprattutto quello che gli stava più a cuore, le ultime pagine del libro blu, scritte frettolosamente dallo Strindberg pochi minuti prima che uscisse dal suo appartamento a stoccolma, scendesse le scale avvolto nel cappello e nel pastrano nero, e si avventurasse nella tormenta di neve che frustava le vie nordiche sbattendole nell'indistinto bianco della morte. "Da quell'ultimo viaggio mai più ritornò Strindberg  -si lamentava la reincarnazione- e io ricordo distintamente che in quelle ultime pagine era scritto qualcosa di importante, qualcosa che avevo scritto proprio perché la mia vaga memoria di ottuagenario non le perdesse per sempre". A queste parole la reincarnazione tirò su di naso, come se il ricordo della sua precedente morte lo avesse commosso. "Insomma devo rileggerle, dobbiamo penetrare in casa sua" concluse passandosi la mano guantata nello spazio di pelle presente tra naso e inizio labbra, là dove spesso crescono ispidi baffi.

"Casa sua, nel senso casa di Strindberg?" chiese perplesso Bonaventura nel silenzio che si era creato.

"Casa sua nel senso di Perelli!" rispose Strindberg indignato.

"Perelli..." disse Bonavenuta annuendo e pensando chi cazzo fosse Perelli, dissimulando la completa ignoranza delle parole che il tipo di varese distribuiva attorno a sé.

"Quel maledetto non solo si è tradotto tutte le opere di Strindberg e le tiene per sé in una cassaforte nascosta nella camera da letto, ma ha anche acquisito il fondo Codignola, l'unico altro grande studioso e traduttore dello Strindberg in Italia" spiegò la reincarnazione indicando con i guanti un punto invisibile tra loro e la città addormentata. "Due soli traduttori decenti di Strindberg, che hanno tradotto -sì- ma per se stessi, e ora solo Perelli può godere del Sylva Sylvarum, della relazione dei contadini francesi, dell'epistolario con Swedenborg!" continuava a parlare ed accusare la reincarnazione, e più parlava più si infoiava e il suo volto prendeva ombre smeraldo che baluginavano pallide.

Bonaventura corrugò la fronte, come se grandi pensieri gli attraversassero la testa, mentre era la frase 'swedenborg tennista?' che gli arrivava dallo stomaco fino alla punta del palato e poi si affossava in quella zona invisibile della bocca dove una sorta di naturale freno inibitore faceva arenare frasi sfortunate che non avrebbero portato nessun vantaggio al rapporto Bonaventura-Strindberg, cosicché Bonaventura camminava come perso in profonde riflessioni, ripetendo dentro di sé "swedemborg tennista?", "swedemborg tennista?", "swedemborg tennista?", quasi una sorta di mantra laico che si riproduceva prendendendo lo spazio deputato ad altri tipi di ragionamento, probabilmente più sensati, in fondo il cervello umano ha bisogno dei suoi virus, di piccoli niente che macinino se stessi ripetendosi ad occupare tutta la memoria disponibile, a saturare tutti i processi interni, virus che sono la voglia di fottere, faccio per dire, oppure l'immaginarsi di diventare un grande conferenziere che tutti aprono la bocca quando passi per strada, oppure la parola sofficicini findus il sorriso che c'è in te, o anche lines liberty non si muove, tu muoviti quanto vuoi, o anche microprocessore a sei gigahertz a bus sessantaquattro bit, o cose di questo tipo, di esempi se ne possono fare tanti, roba che moltiplica la sua immagine per saturare il processo principale, il grande task che è partito all'avvio e procede continuamente fino alla sua fine, che è il timer che tiene conto di quanto manca allo spegnimento, ecco diciamola tutta, il grande processo che tutti questi virus cercano di mettere in background è questo piccolo timer, un programma del cazzo tipo x = x + 1 , se x è uguale o superiore a 20000000000000000, allora quitta, esci, fai il tuo dannato shotdown, se è inferiore, beh torna all'inizio, ecco questo è il grande processo ridotto all'osso, e tu nasci e ti rendi conto che questo è il processo che ti tieni dentro, una specie di timer bomba che ci condanna e insieme è lo scopo della nostra vita, portare a termine quel dannato timer che quando finisce si spegne, tutti i processi sono finiti, ci preoccupiamo tanto che nessuno ci ammazzi da fuori quando è dentro la nostra morte, e allora swedemborg tennista, pensava Bonaventura, swedemborg tennista, ripeteva e ripeteva per fare silenzio dentro di sé, swedemborg tennista.

"Capisco" mentì invece Bonaventura, e chiese cosa centrasse lui (Bonaventura) in tutta questa storia, voglio dire, lui non era la reincarnazione di nessuno, o almeno non se lo ricordava.

Strindberg si fermò sul fondo della scala e si voltò a fissare con attenzione il compagno. "Lei mi deve aiutare. Solo una persona della sua sensibilità (tirò fuori il tomo di Strindberg  e la programmazione logica) può capire il mio stato e farsi compagno di questa mia missione di conoscenza, solo lei" disse e aggiunse che lui (Strindberg) era solo ed aveva bisogno di un compagno, qualcuno che avesse il coraggio di penetrare con lui all'interno di casa Perelli e trafugare le sue traduzioni, anche perché Strindberg era cinofobo.

"Prego?" chiese Bonaventura.

"Perelli ha un cane.  Un orrendo botolo di nome Bell che si trascina penoso di stanza in stanza e che abbaia con colpi mostruosi ed inumani" confidò Strindberg con vaghi gesti nell'aria, con le mani. "Ed io ne sono terrorizzato" concluse, specificando però che la cosa lo faceva contento perché anche lo Strindberg vero detestava i cani.

Bonaventura rimase silenzioso ad osservare la nuca del suo interlocutore, e poi -oltre- la città avvolta ancora nel buio della notte, su cui aleggiava il chiarore strano ultravioletto di quella cosa che poi, con opportuni spostamenti celesti, diventerà un aurora.

"D'accordo" disse Bonaventura tirando su di naso. "La aiuterò, ma si ricordi che do ut des"

"Uh? E' svedese?" chiese Strindberg voltandosi ad osservare il volto assonnato del compagno.

"No, latino, vuol dire che sto per crollare dalla stanchezza e non ho un posto dove andare a dormire".

Il tipo di Varese Ligure sorris e disse che non c'era problema, che lui aveva preso in albergo una camera matrimoniale.

"Matrimoniale nel senso?" chiese Bonaventura.

"Nel senso" rispose Strindberg tornando a fargli strada verso il basso.

 

Il posto dove si teneva il famoso laboratorio di scrittura ricercare era una struttura antica a due piani, il tipico posto post-fichetto, soffitti altissimi, affreschi, stucchi bianchi, marmi, tavolozzi in legno, e la grande sala delle letture che era la versione messa a lucido di una qualunque aula magna di un qualunque liceo classico provinciale.

Il posto era gremito di tutto quello che ruota attorno al reparto editoria: scrittori, editori, poeti laureati, agenti letterari, giornalisti, artisti in genere, avvoltoi, politici e critici, tutti mescolati ad un pubblico di aspiranti scrittori, aspiranti editori, aspiranti poeti laureati, aspiranti agenti letterari, aspiranti giornalisti, aspiranti artisti in genere, aspiranti avvoltoi, aspiranti politici e aspiranti critici, in un frullamento di membra che andava stringendoli ed allargandoli, fino a farne un indistinto pastone, di per sé ben diviso per casa editrice, città, giornale, corrente letteraria, fonte di stipendio e altre cose del genere.

"Dio mio" disse Bonaventura entrando nella bolgia e cercando con gli occhi il Koch, che doveva essersi fatto piccolo piccolo per il terrore, era sparito.

Mentre il Bonaventura, forte dei suoi due caffé e perplesso ancora per il fatto di essersi svegliato con un braccio dello Strindberg sotto alla maglietta alla pelle che giochicchiava (lo Strindberg) con i suoi (di Bonaventura) peletti capezzoidali e un secondo braccio infilato sotto alle mutande sue (del Bonaventura) mentre tirava (lo Strindberg) dolcemente e poi mollava svariati peletti pubici (del Bonaventura ovviamente), perplesso -dicevamo- per il fatto di aver trovato la cosa tutt'altro che spiacevole (sempre Bonaventura), mentre lui, dunque, forte dei suoi due caffé presi con lo Strindberg sotto l'albergo che faceva finta di nulla (lo Strindberg, non l'albergo) ma ogni tanto si passava una mano sotto i baffetti ispidi (sempre lo Strindberg qui, fino a fine periodo) e aspirava voluttuosamente gonfiando il suo viso verde, ecco, mentre il Bonaventura forte dei suoi due caffé girava la testa ora a destra ora a sinistra a cercare il  Koch, una voce amplificata avvertiva che si iniziava e si lanciava in una presentazione e ringraziamenti vari a tutti gli enti e tutti i politici che avevano sganciato i soldi anche quell'anno per la manifestazione che eccetera, tradizionalmente eccetera, la letturatura eccetera, eccetera, le solite menate ad uso e consumo dei giornali regionali.

E qui avveniva questa esplosione centripeta, nel senso che mentre nella sala centrale cominciava la rappresentazione per la quale tutto il pubblico era accorso, nelle salette laterali si dava avvio a un incontro sommesso e sussurrato di scrittori ed editori, tutti preoccupati a scambiarsi diritti di autore come se fossero figurine panini, con tanto di serie a, b e c e anche di scudetti, ogni tanto veniva fuori anche uno scudetto, e poi mani che si tendevano gente che guardava il soffitto e la stessa atmosfera che il Bonaventura respirava durante le sue non frequentissime gite allo smau milanese, gente in giacca e cravatta che dice la parola tecnologia tante di quelle volte che alla fine tutti si rendono conto di quale surrogato medioevale sia questa tecnologia in conto deposito, e qui era uguale, la parola scrittura veniva usata come intercalare di tanto in tanto, fino ad assumere il suo reale significato, che era merce, era prodotto, era quello che veramente era e non quella cosina colorata e complessa che il Bonaventura si sognava quando, tredicenne pene al vento, sfogliava i magici libri misteriosi del lovecraft, vedendo i cento anni di solitudine della sua casa usher crollare in una pletora di ciabatte scompagnate che volevano poi dire, fuor di metafora, quando culicchia era qualcuno poteva ancora immaginare il Bonaventura che la scrittura avesse dentro di sé un suo significato, a prescindere da quello che veniva fuori mettendo tutti quei segni in fila indiana, da sinistra verso destra, e con quel bel salto della testa da destra a sinistra che altre popolazioni -bontà loro- non hanno, ma che è tanto simile al respiro, nessuno ha mai notato che si parla soltanto buttando fuori aria? nessuno ha mai fatto caso che miseria sia rantolare via concetti tanto da doverli allontanare da sé con un invisibile rutto nascosto -quello sì- all'interno dei dittonghi legati in un periodare così stancante? Ecco: quella rappresentazione, quella cianfrusaglia di scrittori ed editori, quei volti tesi e rilassati, mostravano chiaramente che dentro alle parole non c'era niente di nascosto, nessun rutto messo per iscritto, le parole erano davvero soltanto quello che erano, ovvero stringhe alfanumeriche che in determinate situazioni fortunate potevano assumere un senso per chi avesse la pazienza di tradurle in quei semplici concetti base ben catalogati nei vari dizionari uso scuole medie.

Quesi erano i pensieri del Bonaventura mentre da distante vedeva il corpicino del Koch, abbandonato solo su di una sedia maron nel mezzo del salone, completamente fottuto dalla stanchezza, con gli occhi rossi dal sonno, con la testa che ciondolava e che di tanto in tanto crollava nel mezzo del petto, per poi risollevarsi, come un pallone aerostatico giunto alla sua cosiddetta fase diapason, nella quale si accascia e si rialza non avendo abbastanza gas nervino per slanciarsi in alto ma non così poco da rilassarsi a terra come un, boh, budello suino, sono solo immagini.

Bonaventura si sedette a fianco del Koch che, quando si accorse dell'arrivo del compagno, disse a bassa voce domani mi ammazzano, nient'altro che questo , domani mi ammazzano.

In quel momento la giornalista americana salì i suoi tre gradini e iniziò a leggere al microfono, muovendo la grossa bocca viola, e -per quanto Bonaventura si mettesse di impegno- non si sentiva niente, solo un continuo rumore di bocca.

 

L'editore si leccava i baffi e diceva a Bonaventura trecentomila battute di coiti, ecco quello che Bonaventura doveva scrivere, e lui lo avrebbe pagato, ovviamente tutto sotto pseudonimo, tipo madame  e poi un nome in francese, e nella biografia ci mettiamo che sei una troia e Bonaventura rispose che mai biografia fu più azzeccata.

Intorno ai due, editori ed autori si toccavano e sorridevano, masticando il freddo buffet riservato agli addetti ai lavori.

"Poi mi serve un'altra cosa" aggiunse il mentore stringendo tra le dita i folti baffetti morbidi.

"Ho l'herpes" fece Bonaventura tirandosi indietro.

"Cretino"  disse l'editore, facendo sbucare da sotto la giacca una copia delle Undicimila verghe di Apollinaire.

"E' un presente?" chiese Bonaventura sospettoso, e l'editore disse che no, che si dovevano contare i coiti.

"Prego?"

"Esce una nuova collana di saggistica pornografica" spiegò, e il primo libro lo scrive un giovane universitario molto promettente con una ricerca sul numero di coiti presenti nei classici dell'erotismo, e insomma parlando viene fuori che questo giovane promettente è il figlio dell'editore e alla fine il libro lo sta scrivendo direttamente il padre, l'editore, perché il figlio quando legge i libri porni si fa le seghette e perde i conti è un disastro.

Ma l'editore da solo non riesce in questa impresa, si vede che anche per lui è una cosa stancante, e quindi sta subappaltando pezzi di libro a tutti quelli che incontra, e tutti i dipendenti della sua casa editrice "Il fagiuolo" sono stati messi sotto a contare coiti, dalla donna delle pulizie alla nobile schiatta degli scrittori.

Bonaventura prese il libro in mano e iniziò a sfogliarlo.

"Ma coiti maschili o femminili?" chiese alzando gli occhi dalle pagine, e l'editore alzò le spalle e disse tutti e due.

"Un attimo, un attimo" protestò il Bonaventura mettendosi due dita all'incrocio degli occhi. "Per coito intendi che gode lui, che gode lei, o che godono entrambi?" chiese.

L'editore sbiancò. Disse che quelli erano sofismi, che se due scopano è coito, senza farsi tanti problemi.

"E se due scopano e l'uomo viene e la donna no, è coito?"

"Si capisce!"

"E se lei viene due volte e lui una, come lo conto, coito unico o sono tre coiti?"

L'editore sembrava perplesso, a questo non aveva pensato e Bonventura rincarò la dose. "E come stabilisco se il coito è coito, voglio dire, se lui viene è coito? Ci deve essere sperma? E lei, come capisco se ha goduto o se ha solo simulato? Oppure se lui la sta scopando e mentre la scopa da davanti uno la scopa da dietro, ecco una cosa del genere, come faccio il calcolo? E se uno dei due, quello che se la incula, faccio per dire, ad un certo punto la strangola per troppa passione, e quella crepa senza aver goduto, e poi lui esce, e esce anche il suo collega, mettiamo che vogliano tenersi carichi per la figlia della assassinata, ecco, in un caso del genere cosa conto, niente coito perché nessuno dei tre ha goduto e una è pure morta?".

L'editore a quel punto si mise le mani nei capelli, li avese avuti, infatti era calvo e si passava le mani sul cranio raso, forse per abitudine e diceva a Bonaventura ragazzo tu mi crei più problemi di quelli che mi risolvi.

Alla fine venne fatta una scelta di comodo: è coito ogni rapporto tra uomo e donna, o uomo e bestia, che arrivi all'orgasmo o meno. Ogni personaggio attivo o passivo che partecipi al coito crea coito.

"E se è morto?" chiese Bonaventura.

"Trattasi di soggetto passivo" spiegò con fare colto l'editore. "Anche se cadavere sta coitando".

"Quindi due che scopano, uno viene uno no, sono due coiti?" chiese Bionaventura un po' stupito.

"Sì" ammise perplesso l'editore.

"E se uno, quello che ha goduto, alla fine fa un pompino a chi non ha goduto, ricade nei primi due coiti o ne crea un terzo?"

"Sono quattro coiti in tutto, l'uomo che scopa e gode, l'uomo scopato che non gode, l'uomo che pompina e non gode e l'uomo pompinato che gode"

"E se uno sta guardando alla finestra e si eccita e non viene?"

"Oh vaffanculo ridammi il libro!" esclamò l'editore esasperato buttando le dita contro il povero tomo dell'Appolinaire.

Bonaventura nascose il tomo dietro alla schiena, facendo anche un passo indietro. "Scherzavo" disse, i soldi sono soldi. Avrebbe contato i coiti, ma quanto lo avrebbe pagato l'editore, un tot a coito? L'editore scosse la testa, disse che un tot a coito sarebbe finito in disgrazia, lo avrebbe pagato un tot a libro e allora Bonaventura disse che era ingiusto, non poteva mettere sullo stesso piano un libro come le undicimila verghe che trasudano coiti ogni pagina, con -chessò- il deserto dei tartari che forse ce ne è uno, non si ricordava neppure.

"Il deserto dei tartari non è un testo erotico" disse l'editore sospettoso e Bonaventura disse che -boh- dipendeva dai punti di vista, a lui buzzati lo faceva venire duro.

"Nella mia collana non c'è" rispose l'editore mostrando una certa fretta.

"Forse mi sbaglio, forse è Verga" aggiunse Bonaventura e l'editore disse che quello sì, di verghe nella sua collana era pieno e si mise a ridere per simpatia con se stesso.

 

Il corpo di Perelli giaceva a terra, in una pozza di sangue e Strindberg continuava a dargli mazzate sulla testa con quello strano candelabro a otto punte, e ad ogni mazzata Strindberg mandava un urlo soffocato, quasi un gorgoglio della gola.

Bonaventura si passò una mano sul polso destro, osservando con preoccupazione i segni viola della dentata del cane, il povero Bell, pace all'anima sua, adesso riposava per sempre a fianco del caminetto.

Poi si avvicinò alla scrivania dello studioso, illuminata dalla luce fioca del secondo candelabro acceso e fumante, e vide lì, in bella vista, la traduzione dell'ultima pagina dello svedese, le ultime righe vergate dallo Strindberg originale prima della sua morte, e messe in buon italiano dal Perelli.

Era un semplice foglio bianco, scritto a penna, e sotto c'erano delle annotazioni del Perelli su alcune sfumature di significato e poi caro amico, ti invio la mia traduzione delle ultime parole dello Strindberg prima della morte per chiederti consiglio sull'uso del termine 'debito' in un caso come questo, eccetera, certo di una tua pronta risposta, et ceteram tuo franco perelli.

Si voltò un attimo verso Strindberg che continuava a devastare la testa grigia del Perelli, e poi lesse quelle righe tanto desiderate dallo Strindberg di Varese Ligure:

 

         La serva deve avere di nuovo toccato i miei libri. Credo ne manchi uno, ma non so quale.

         Ricordarsi di pagare il debito con il panettiere. Verificare la somma richiesta, deve aver ritoccato i pesi della sua bilancia!

         Oggi ho trovato per terra un pezzo di pietra a forma di oca e me lo sono messo in tasca. Non lo trovo più.

 

Non c'era altro. Bonaventura rimase in silenzio a fissare la pagina bianca e quegli inutili segni neri e poi annunciò che aveva trovato la pagina, eccola, disse voltandosi verso Strindberg e indicandola.

Girandosi, il soprabito rosso si impigliò con uno dei braccioli del candelabro che oscillò per un attimo e poi cadde pesantemente sui fogli della scrivania, con una vampata solenne ed improvvisa.

Così rimase immobile Bonaventura, mentre vedeva le fiamme che si alzavano verso l'alto a lambire il soffitto e la figura spettrale di Strindberg non dire niente, stare zitta e fissare quel fuoco senza voce che saliva in fumo verso l'alto e Bonaventura si chiese cosa sarebbe successo da ora in poi, cosa farai domani povero Bonaventura, ora sei venuto al paragone pensava Bonaventura, 'cosa farai domani Bonaventura?' si chiedeva, cosa farai domani di fronte a quelli che aspetteranno le tue parole, di fronte a Strindberg che adesso vorrà sapere cosa c'era scritto in quel dannato foglio, se tu avevi avuto il tempo di leggerlo, e cosa farai domani di fronte a Koch che ti chiederà se sei pronto, che il suo momento topico è arrivato, che tocca a lui leggere, e che tu dovrei parargli il culo, come promesso, per i tuoi amati bonifici, allora, cosa farai Bonaventura domani, cosa farai?

 

Terzo giorno

 

Beh Bonaventura, tu ti sveglierai, questo capita a tutti, la mattina ci si sveglia, prima o dopo ci si sveglia e si aprono gli occhi e anche tu domani aprirai i tuoi occhi e tutto ti sembrerà diverso, ci metterai un po' a capire dove sei finito, perché ti ritroverai nella stanza da letto dello svedese, anche lui nel tuo stesso letto e anche lui perplesso a cercare le lenti a contatto che la sera prima aveva buttato in un barattolino rosso e poi -nei vostri sussulti nel cuore della notte- aveva sentito cadere per terra e rotolare sul pavimento di finto palquette ikea che scricchiolerà soffice sotto al suo peso, adesso che è sceso a cercare, cito, "quelle cazzo di lenti a contatto", e tu lo osserverai piegarsi come i cani e rivedrai alla luce del primo mattino il sedere dello Strindberg di varese ligure e penserai quanti peli, dannazione quanti peli che ha sulle chiappe e quante brigole rosse, questa notte la tua lingua ci ha scivolato sopra ma tu eri tutto infoiato e non hai sentito niente, adesso il solo pensiero che hai leccato quella parte del culo dello svedese ti farà schifo, anche perché non avrai più voglia di scopare, di stare nel letto di un tuo simile, di uno che ti somiglia fin troppo, e allora ti alzerai e senza dire niente andrai al cesso e penserai che quello che ci vuole è una bella doccia, ecco quello che penserai, proprio una bella doccia, ecco cosa ci vuole di primo mattino, dopo una scopata del genere, una scopata dannatamente lunga, una di quelle che dici cazzo questa è una scopata da ricordare, e invece l'unica cosa che tu vorrai fare sarà di dimenticare tutto, di dimenticare in maniera così compiuta da poter dire che non era mai successo, ecco cosa penserai e poi penserai anche, dove cazzo tiene lo shampoo questo imbecille, ti guarderai attorno e vedrai una cosa proprio sulla specchiera, posata tra il pettine e la crema ai cetrioli, una cosa nera che tu guarderai senza dire niente, ti sembrerà di essere in una scena di un film o una cosa del genere, e ti avvicinerai a quella cosa e vedrai la tua faccia finalmente dall'altra parte dello specchio, un tuo sosia riflesso identico a te che prende quella cosa e la stringe nalla mano, guardandola con la curiosità con cui si guarda una bestia amputata, faccio per dire.

Una rivoltella, ecco cosa vedrai stretta nella mano del tuo sosia, niente bestie amputate era solo un esempio, una rivoltella lucida e nera e fredda, al tatto probabilmente fredda, il tuo sosia allo specchio la stringerà e la alzerà in alto, per guardarla meglio in tutte le sue parti, non aveva mai stretto una rivoltella il tuo sosia, mai vista una rivoltella, e poi tu aprirai l'acqua della doccia, per far capire al tuo compagno che stai facendo la doccia, e andrai sotto l'acqua bollente che si produrrà in sbuffi di vapore acqueo, e intanto tu da sotto la doccia controllerai il tuo sosia che è rimasto fuori di te, dall'altra parte dello specchio e che continuerà a guardare quella dannata rivoltella, girandosela davanti agli occhi, stupito, e tu ti farai la doccia tranquillo e con la coscienza pulita, ti metterai a canticchiare pure, una canzoncina allegra tipo le serenate all'istituto magistrale nell'ora di ginnastica, eccetera, e di religione, eccetera, e dove cazzo avrà messolo sciampo Strindberg ti chiederai guardandoti attorno tra creme e lozioni per tenere la pelle delicata, e alla fine ti laverai i capelli con la saponetta, quella per lem ani, dove riccioluti peli dello Strindberg si saranno incastonati, come conchiglie fossili nella pietra pomice.

Quando uscirai dalla doccia il tuo sosia sarà sparito, nascosto dietro allo specchio coperto dal vapore che adesso bagna tutte le piastrelle con microgocce tiepide che -di tanto in tanto- sbocciano in lacrime verticali verso il pavimento umido. Prenderai un asciugamano ed inizierai a passartelo sul corpo, quando sentirai Strindberg bussare alla porta del bagno e dire che sono le undici,  il caffé è pronto, sono le undici, e tu penserai le undici e poi cazzo, le undici e ti ricorderai di Antonio Koch, del fatto che quella mattina, donami mattina, Koch leggerà di fronte ai critici e al pubblico degli scrittori e tu dovresti già essere là, che devi parargli il culo, devi leggere la tua conferenza, te ne eri dimenticato, e allora uscirai, ecco come andranno le cose, uscirai seminudo dal bagno dicendo cazzo devo andare a ricercare, e Strindberg ti dirà ricercare cosa?, ricercare dove?, e ti osserverà reggendo una tazzina di caffé d'orzo, mentre tu, come un pazzo, correrai per la stanza a cercare i tuoi vestiti che la sera prima ti eri tolto qua e là per fare il fico davanti a Strindberg, e mentre tu sarai tutto affaccendato in questa ricerca, lo Strindberg ti indicherà adesso quel capo di vestiario, adesso quell'altro capo, e tu seguirai distrattamente le sue indicazioni, ritrovandoti alla fine vestito di tutto punto, con il tuo pastrano rosso, il cappellino a punta e il bastone che tanto successo hanno avuto nella tua iconografia.

E mentre -scese le scale- correrai a perdifiato verso la sala dove si svolgeva ricercare all'epoca della narrazione di questi fatti ,  mentre sarai tutto preso a mettere i piedi gli uni davanti agli altri, ti ricorderai a poco a poco il perché e il come eri finito nel letto dello svedese, tutto quel dialogo fitto fitto in cui lui ti chiedeva cosa ci fosse scritta in quella dannata ultima pagina pre-mortem, e di te che ti guardavi i piedi e rispondevi il risultato alchemico, e lui ti aveva chiesto che risultato, che alchemico, e tu gli avevi detto la pietra filosofale, la formula chimica per generare oro a partire dalla paglia, ecco cosa gli avevi risposto, la formula chimica per trasformare l'oro dalla paglia e lui si era messo a piangere era commosso e ti aveva abbracciato e aveva detto che era vero, adesso che glielo avevi ricordato gli era venuto in mente, ecco cosa aveva scritto prima di infilarsi -a fatica- nel grosso cappotto, ecco quale grande segreto aveva messo per iscritto per trarne poi grande vantaggio. "Se solo la morte avesse aspettato qualche anno, come sarebbe stata diversa la mia prima vita!" aveva esclamato lo Strindberg sempre stretto al tuo corpo e tu avevi iniziato a sentire umido sotto la camicia e avevi detto, basta basta non piangere, e l'avevi ripetuto per due o tre volte e alla fine ti eri ritrovato a passargli una mano tra i capelli, per calmare quel suo pianto caldo che adesso ti stava irrigidendo un capezzolo destro per te sinistro per chi guarda, e quelle carezze dopo un po' ti erano sembrate niente male, qualcosa di nuovo e lui da sotto aveva alzato lo sguardo e aperto la bocca e lo sventurato aveva risposto, si fa per dire, da cosa era iniziata cosa, si voleva così in quel posto dove si avverano le cose che si desiderano, e più non domandare.

Queste cose ti ricorderai a poco a poco, entrando nel grande palazzo di ricercare e iniziando a salire l'ampia scalinata che ti porterà al piano di sopra e arriverai nelle stanze antico nobiliari che danno nella grande sala centrale, gremita di gente seduta ad ascoltare su sedie di plastica maròn il Koch che -appena tu entrerai nella sala- si allontanerà dal microfono e tutti applaudiranno debolmente e tu vedrai Koch scendere dal palconcino e tornare a sedersi tra il pubblico, con quel suo sorriso ingenuo di chi ha fatto solo quello che doveva fare, cioé non è che lui scrive quelle cose perché è un fichetto, è la sua dannata vita ad essere un fottuto capolavoro minimalista, lui semplicemente mette per iscritto, ecco cosa leggerai nel suo sorrisetto normale, attraverso quella pelle bianca da bestia che si nutre a colpi di plancton, e tu resterai per un attimo immobile in quel breve momento che si crea quando una esperienza è finita e si va ad iniziare quella successiva, e un tipo bassino dai capelli bianchi si avvicinerà al microfono appena abbandonato dal Koch e dirà, chi vuole fare qualche commento venga pure, e allora uno dei critici poggerà i gomiti sui braccioli e sbufferà per lo sforzo di spostare il suo peso da una parte del corpo (il culo) ad altra parte del corpo (la testa che, per il movimento della braccia contro i braccioli, si sarà sporta in avanti, come se quell'oscillazione di peso da sola potesse bastare a modificare la volontà del critico stesso), e nel preciso momento in cui il sedere del critico abbandonerà il puro contatto crino-epidermico con la sedia, ecco in quel momento tu attraverserai a passi fermi e decisi il  corridoio naturalmente creatosi tra la parte destra del salone e la parte sinistra dello stesso e salirai i tre gradini di legno che portano alla parte alta del palchetto, afferrerai il microfono tondeggiante e dirai, questi racconti di Koch, questi frammenti di racconto di Koch, dell'unico grande racconto di Antonio Koch che parte dal primo momento in cui Antonio Koch decise (se mai si può veramente determinare l'istante preciso della necessità di uno scrittore di mettersi a scrivere) di prendere penna e foglio e di mettersi a scrivere, a dare avvio a quel processo che mai terminerà completamente di creare una propria seconda identità che non ha niente a che vedere con quella umana, quella di Koch che si alza e gira per camera sua confuso senza trovare l'interuttore per accendere la luce e dopo due o tre calci agli spigoli dei mobili, e soprattutto dopo che una voce femminile gli dice Antonio, Antonio ti sei alzato?, ecco in quel momento il Koch capisce che non è a casa sua e smarrito dice al buio che voleva pisciare, semplicemente pisciare, ma si era perso al buio, era solo un esempio, la natura umana non ha niente a che vedere con questa seconda identità che è quella dello scrittore, ovvero una identità virtuale che nasce e si impasta nello stile fino a creare un secondo Antonio Koch, il primo è quello smarrito al buio che vuole pisciare, il secondo Koch è un Koch diciamo così virtuale, un Koch da desumersi a partire dalle indicazioni di lettura che lo stesso Koch mette per iscritto buttando le dita a peso morto su una delle tante tastiere qwerty dateci in dotazione dal popolo americano, e così salva con nome quell'impasto di cui si parlava precedentemente, l'impasto narativo-poetico di questo secondo Koch che finge -dannatamente bene- di raccontarci sinceramente la vita e i miracoli del primo Koch che -nel frattempo- si è sentito prendere la mano da una ragazza gentile che gli ha detto, sprofondata nel buio, vieni ti accompagno io, e lo ha guidato fino al cesso dove Koch è stato costretto a sedersi sulla tazza e pisciare sottolo sguardo curioso e freddo della suddetta ragazza che -pare- ami vedere i maschi pisciare, seduti alla maniera delle donne e poi impedisce agli stessi maschi di tirare la catena dello sciacquone perché desidera lei stessa chinarsi verso la tazza, quantificare la densità del giallo, tirare su di naso per apprezzare l'odore nevralgico dell'acido, e poi premere il pulsante di plastica bianca che determina quello scarico orgasmico dell'acqua, ecco cosa ci vuole raccontare il secondo Antonio Koch, la meraviglia insita nel raccontare frottole sulle piccole cose che accadono al primo Antonio Koch, questa è una notazione importante, non stiamo parlando di un diario di viaggio minimalista di questo Antonio Koch nella vita quotidiana, ma di un "attenzione non è spazzatura" la roba che vedete nella grande gabbia delle scimmie, quei pezzetti di foglie e di legnetti che le scimmie vanno in giro a prendere e lasciare e ogni tanto mangiucchiare sono state messe a bella posta dagli addetti al bioparco, e dietro alcuni legnetti o foglie o cosa cazzo sono, c'è il cibo, dietro altre no, e quindi le scimmie vanno in giro e cercano girando dove sia il cibo e dove non sia e tutto questo è un grosso paradosso della letteratura tutta, decontestualizzato dagli addetti al bioparco per fini più prettamente ecologici, ma reinterpretato letterariamente dall'Antonio Koch che è ben attento a distinguere le due cose, la semplice foglia o pezzetto di legno senza nessun significato particolare, e la foglia o pezzetto di legno che contiene il cibo, che è poi -fuor di metafora- lo stile che trasforma le cose da dire in cose dette nel senso di messe per iscritto, ed è in questa traduzione che si innesta la natura demiurgica del terzo Koch, posto in mezzo al primo Koch che vive e che adesso, tornato nel letto con la ragazza con quei problemi orinari di cui sopra resta con gli occhi sbarrati a fissare il buio senza poter riprendere sonno, e il secondo Koch che è quello che si muove nelle storie notturne, perso in una descrizione frammentata e minima di una realtà che gli si compone e gli si frantuma attorno nello stesso momento, e che non ha una storia prima di sé o dopo di sé, perché è solo invenzione del terzo Koch, il Koch invisibile, che è in mezzo e traduce tutto dal piano della realtà ad un nuovo e secondo piano della realtà e questa traduzione avviene grazie all'invenzione, ecco questa piccola parola, l'invenzione che poi non esiste, anche l'invenzione è solo un algoritmo particolarmente sofisticato, e se l'invenzione è un algoritmo particolarmente sofisticato, il terzo Koch ne è semplicemente il programmatore, ha inventato questa funzione che chiama l'algoritmo e semplicemente sta a vedere cosa viene fuori, crea un impasto desunto, una ridondanza di codice che diventa prodottolei stessa, a tutto vantaggio del pubblico dei lettori, che siete voi adesso, che siete arrivati fino a questo punto della narrazione e restate in attesa di vedere e di quantificare quanto Koch resti dentro di voi una volta chiuso il libro, finito il racconto, esaurita la spinta delle dita che porta a girare l'ultima pagina e ci costringe a fissare muti la quarta di copertina, con le note che sembrano volerci convincere di nuovo che dobbiamo comprare il libro che abbiamo appena usato, e che per noi diventa uno strumento sostanzialmente inutile, un parallelepipedo che prenderà polvere e spazio per segnalare che -in quel posto senza spazio e tempo- ci siamo stati attraverso quel parallelepipedo di carta e colla, e tutto questo è Antonio Koch, è felicità, ecco come stanno le cose, ecco il risultato finale, ecco cosa dirai a voce tremante caro Bonaventura, di fronte alla platea muta dei critici e del pubblico di scrittori e cercherai con lo sguardo Koch che ti fisserà come al solito, come se non avessi detto niente di particolarmente importante, e poi aggiungerai ho finito e scenderai dai tre gradini di legno ed uscirai dalla prima porta a sinistra e ti ritroverai solo nel saloncino dove su una bancarella saranno posti i libri degli scrittori che hanno letto e di fronte ci sarà un grosso pannello con la rassegna stampa e allora sentirai echeggiare dalla stanza a fianco la voce di un critico che dirà parole come 'minimalismo storico' e 'reiterazione compulsiva' e tu resterai solo a fissare le fotocopie degli articoli ritagliati, senza vederli e ti godrai quell'eco indistinta proveniente dalla sala centrale.

A quel punto vedrai un articolo sulla pagina culturale di Genova, e nella pagina culturale di Genova ci sarà un articolo su ricercare e in questo articolo su ricercare ci sarà la foto della giornalista americana e un pezzo del suo racconto e basta, cioé di tutta la rassegna, di tutti quelli che hanno letto ci sarà solo una frase che dice che è iniziata la rassegna di ricercare e che ha avuto molto eco il racconto della giornalista americana di cui il giornale genovese pubblicava in esclusiva un pezzo del racconto e c'era davvero un pezzo del racconto e tu ti chiedevi perché cazzo di trenta scrittori che ci sono tra cui Antonio Koch si parla solo di questa qua che è una cagna a scrivere e mentre sarai lì a grattarti la testa sentirai da dietro dei passi e vedrai il semiologo, che ti saluterà con un gesto delle mano e ti dirà che hai fatto bene ad uscire, dentro stanno massacrando Koch, e aggiungerà che quando arriva uno che non ha nessuno alle spalle, nel senso non ha un editore che lo fa proteggere, i critici lo ammazzano, e tu alzerai le spalle, tu il tuo dovere l'avrai fatto penserai, e indicherai l'articolo e indicherai l'articolo della giornalista americana e chiederai ma questa? e il semiologo dirà, eh beh, chi credi che scriva in quel giornale, chi credi che abbia scritto quell'articolo? e tu tornerai a fissare quelle parole messe di fila e sentirai ancora il semiologo dire che la sera stessa la giornalista è tornata a genova e che aveva già l'articolo pronto, ecco come stanno le cose.

 

Nella casa del pittore non si vedrà il mare e tu resterai a fissare le luci della discoteca di fronte alla casa del pittore, proprio sopra riccione, e sentirai dietro di te Koch che canterà come un pazzo, completamente fatto, buttato sul divano con i suoi capelli riccioli che saetteranno come antenne e gli occhi che non vedranno niente, che canterà una canzone di ligabue o di zucchero sbagliando le parole e inventando interi ritornelli mentre il pittore mescolerà le carte e dirà di fare presto che avrà voglia di giocare a scala quaranta prima di uscire stasera bisogna festeggiare dirà, bisogna festeggiare ripeterà Koch cantando la frase, bisogna festeggiare, e tu dirai ma cosa festeggiamo, e il pittore dirà la vita, e ti trapasserà con il suo sguardo magnetico di quello che ha compreso ogni cosa della suddetta vita e tu te ne starai zitto, sentendoti anche un po' stronzo per la tua osservazione, ti staccherai dsalla finestra e ti siederai a fianco del pittore e dirai a Koch, cazzo Koch vieni a sederti anche tu e il Koch si alzerà dalla poltrona e si siederà sulla terza sedia e dirà cazzo ragazzi stasera sto benissimo, mi sembra che sia tutto splendido, e il pittore non lo guarderà neppure e continuerà a mescolare le carte, e allora Koch guarderà te con il suo sguardo da bambino, adesso Koch avrà uno sguardo da bambino, solo lo sguardo e tu dirai va bene ma non a scala quaranta, facciamo che giochiamo a macchiavelli che è più divertente o Koch dirà ma sì certo macchiavelli è più divertente e a queste parole il pittore alzerà il suo sguardo e dirà non so giocare a macchiavelli e tu dirai è facile te lo spiego, è simile alla scala quaranta e gli dirai quelle tre regole stronze che trasformano la scala quaranta in macchiavelli e lui, il pittore, ti fisserà attento, con gli occhi scuri che fiammeggeranno, e quando tu avrai finito la tua descrizione lui ti dirà, quindi non devo scartare gli assi.

"Che cazzo c'entrano gli assi?" chiederai tu, alzando le spalle e dirai che gli assi non c'entrano, la differenza è che si attacca a quello che hanno messo in tavola gli altri e di nuovo il pittore ti fulminerà con il suo sguardo assoluto e dirà che quindi non si scarta mai.

Allora tu fisserai il Koch che a qual punto scoppierà a ridere e dirà non ha capito un cazzo, il pittore non capisce un cazzo e tu ti volterai ancora verso il pittore per capire se ti sta prendendo in giro e vedrai che si gratterà la testa e ti renderai conto che davvero il pittore non sta capendo un cazzo, e rimarrai impressionato perché il pittore continuerà a fissarti con il suo sguardo indagatore di chi ha in mano il senso della vita e più tu proverai a fare esempi di come si gioca a macchiavelli più ti renderai conto che il pittore è un idiota, che non sta capendo un cazzo di una cosa semplice come il macchiavelli, soprattutto per chi sa già giocare a scala quaranta.

"Forse ho capito" dirà ad un certo punto e prenderà il mazzo dicendo che però dovrete togliere le figure, un gioco così si gioca senza figure.

"Lasciamo perdere" dirai tu snervato, buttandoti sullo schienale della sedia, facciamo scala quaranta se sei capace è meglio per tutti, e il pittore sembrerà sollevato, tranquillo, rimetterà dentro le figure e tornerà a mescolare le carte, e poi le darà a Koch dicendogli "taglia" e tu sbufferai, e gli dirai, cazzo sono io che devo tagliare, il giro è così, e farai un gesto circolare con la mano, e il pittore farà l'offeso, resterà con le carte in mano come se gli si fossero attaccate, lo sguardo corrucciato a fissare il tavolo.

 

"Ho qualcosa per voi" dirà il pittore durante la notte, Koch avrà tirato fuori il suo portatile e avrà iniziato a scrivere delle cose, delle e-mail, e il pittore si alzerà dal tavolo e aprirà un cassetto alla ricerca di qualcosa.

Tu resterai con la bocca asciutta a fissare il corpo nudo di Koch, diceva che stava bruciando e si era spogliato del tutto, Koch sarà fottuto e infatti si incazzerà con il portatile dirà frasi come "portatile del cazzo" o "tastiera del cazzo", perché non riuscirà a scrivere niente, le dita molli che premono due tasti per volta, e tu lo fisserai a bocca aperta e noterai che Koch è ingrassato, così nudo piegato sul divano a scrivere noterai che Koch è ingrassato, ha una brutta pancia che lo fa sembrare gravido.

"Ecco" dirà allora il pittore portando in tavola quella specie di ostia arancione e tu chiederai cosa è, e lui dirà mangia e tu prenderai l'ostia e la mangerai, senza farti troppi problemi.

Qui siamo arrivati alla fine, non c'era più molto da dire, poco a poco anche tu starai meglio, ti sentirai più rilassato, da un lato ti renderai conto che tutto quello che il tuo corpo non voleva era proprio mangiare quell'ostia, aveva nausea di quell'ostia ancora prima di metterla in bocca, dall'altra parte ti sentirai talmente bene che vorrai soltanto uno spazio e del tempo per startene in santa pace, ma non da solo, cercate un posto dove stare così bene con il pittore e con Koch e lì io pianterò la mia tenda, ecco cosa penserai e ti metterai a ridere senza motivo e vedrai che anche il pittore adesso starà ridendo, e mentre riderà gli occhi si saranno fatti lucidi, adesso non sembreranno più profondi come prima, adesso sembreranno solo due specchi che ti riflettono Bonaventura, vedrai la tua faccia stravolta Bonaventura e quella faccia negli occhi del pittore ti sorriderà e avrà qualcosa in mano che tu non avrai, non capirai proprio bene, ti sentirai davvero magnifico Bonaventura e dirai cazzo Koch scrivo anche io, scrivo una delle mie conferenze, ecco cosa dirai al Koch che intanto continuerà a dire portatile del cazzo e allora tu ti alzerai e crollerai con lui sul divano, gli cascherai proprio addosso e lui ti dirà cazzo Bonaventura stai attento mi sfasci il portatile e tu starai ancora ridendo, gli guarderai il cazzo mollo messo per aria, e dirai sembri incinto Koch, sembri un fottuto incinto, e gli piazzerai una mano sulla pancia, e Koch sarà ancora più incazzato e ti dirà di togliere quella cazzo di mano dalla sua pancia, e tu tirerai le mani indietro e dirai vabbene Koch, con la vocina strana, dirai vabbene Koch e alzerai le mani al cielo e qui tu capirai una cosa molto importante, ovvero che quando recitavi la tua conferenza per Koch, quella cosa dei tre Koch, quello che vive, quello che è raccontato e quello che racconta, mentre ti guadagnavi la tua pagnottina, ecco per un attimo avevi alzato lo sguardo verso quelli che ascoltavi e per un attimo avevi visto le cose come davvero stavano, ovvero che quelli lì messi seduti per sentirti non erano i magnifici esseri alieni che pensavi, non erano netturiani fantastici, o gente davvero astrale, erano semplici animali, ecco, li avevi visti dall'alto come semplici animali uguali e normali a te, uguali a Koch, erano persone assolutamente normali che si vestivano e che dicevano cose speciali per far dimenticare che erano persone normali come tuti gli altri, erano tutti uguali, dietro alle loro parole immaginate, c'era l'odore sudato dell'animale, il male al culo sulla sedia di plastica maròn, la faccia che dice ho voglia di fottere di quello che fissa il culo della poetessa, era tutto assolutamente normale e tu eri normale come loro, anche il pittore era normale anche Koch eravate tutte bestie in quella sala, tutta roba sacrificabile, solo un attimo avevi visto quelle cose per davvero, poi tutti erano tornati esseri imperscrutabili e misteriosi, favolosi pompinatori di ambulacrali sapienze, e questa cosa ti arriverà alla testa di colpo, un orgasmo della memoria, un orgasmo all'incontrario mentre sarai sopra il corpo nudo di Koch e mentre abbasserai una delle mani alzate in cielo a tirare un ceffone al portatile che cascherà per terra tirandosi dietro il filo dell'alimentazione e tu salirai con i ginocchi sopra la pancia di Koch che intanto starà urlando ma solo con la bocca, tu non sentirai niente, solo la grande risata del pittore dietro di te e quando ti volterai vedrai il pittore con le lacrime negli occhi, rosso in volto che tossisce, ma terrà gli occhi spalancati, gli occhi saranno due specchi e negli specchi vedrai il tuo doppio, ecco chi era, ecco il tuo doppio sopra il corpo nudo di Koch che tiene in mano la rivoltella, ecco cosa era che non riconoscevi, quella dannata rivoltella l'aveva nascosta il tuo doppio, la rivoltella che il tuo doppio poserà come una foglia sulla pancia gravida di Koch per fare quei rumori terribili.

 

 

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