telefono

 

(frammento)

 

 

 

 

 

 

Davide andò quindi al telefono, il telefono stava suonando, Davide andò a rispondere, “pronto” disse, e dall’altra parte dissero “ti stai sbagliando” ed era una voce di donna, c’era una donna al telefono, Davide aveva risposto, il telefono aveva squillato e Davide aveva risposto e c’era una donna, e la donna disse “ti stai sbagliando” e Davide disse “pronto, chi parla”, ma la donna riattaccò e Davide rimase in piedi nel salotto con la cornetta in mano, non sapeva cosa pensare, e mise giù, tornò a sedersi sul divano, si ravviò i capelli, si accese una sigaretta e non pensò a niente, aspettò, era il tardo pomeriggio, erano le sei e un quarto e Davide era stanco, pensò di farsi una doccia, restò seduto sul divano, finì di fumare e controllò l’orologio, erano le sei e un quarto.

 

Poi si alzò e andò al telefono, alzò la cornetta, formò il numero di Riccardo, telefonò a Riccardo e gli disse “sai, oggi suonava il telefono, io ho risposto e c’era una voce di donna sconosciuta che mi ha detto: ti stai sbagliando”, disse questo a Riccardo, e Riccardo rise e disse che forse era vero, forse si stava sbagliando, “forse è vero” disse Riccardo ridendo e Davide disse “ma come”, era confuso e stordito, aveva dormito poco, forse si stava sbagliando, salutò Riccardo e mise giù il telefono, tornò a sedersi sul divano, si passò una mano sulla faccia e decise, pensò di andare in bagno, di farsi una doccia, pensò che aveva bisogno di farsi una doccia, e sul divano si accese un’altra sigaretta e restò seduto sul divano, restò dov’era, ripensò alla telefonata della donna e poi alla telefonata con Riccardo e pensò che forse si stava sbagliando, “forse mi sto sbagliando” disse a voce alta, si spaventò, spense la sigaretta, controllò l’orologio, erano le sette e un quarto, e spense la sigaretta e si alzò, andò in bagno, andò a farsi la doccia, e sotto la doccia si rilassò.

 

Dopo la doccia telefonò ad Arturo e gli disse “che facciamo, che si fa, si esce, dove si va”, e Arturo rise, disse che andava a una festa, c’era un suo amico che era tornato dal Giappone, “Giappone” disse Arturo e rideva, rideva nel telefono, Davide sorrideva con la cornetta in mano e ascoltava Arturo ridere, “che facciamo” disse Davide e Arturo continuava a ridere, disse che c’era questa festa e che lui voleva andarci, “vieni con me, andiamo alla festa” disse Arturo a Davide, era un suo amico che tornava dal Giappone, era tornato dopo un lungo viaggio in Giappone, e dava una festa a casa sua, in montagna, nella sua casa di montagna, e Davide al telefono con Arturo sorrideva, ascoltava Arturo e si guardava le unghie, pensava che avrebbe dovuto tagliarsi le unghie, pensò che dopo aver messo giù sarebbe andato in bagno a tagliarsi le unghie, e aveva freddo in accappatoio al telefono nel salotto, e Arturo disse che sarebbe passato a prenderlo alle nove e un quarto, e Davide pensò: le nove e un quarto, riattaccò, si vestì, si sdraiò sul divano e si addormentò, sognò il Giappone, i pulcini morti a Tokyo.

 

Così Arturo arrivò e svegliò Davide col campanello, Davide dormiva sul divano, aprì gli occhi e si alzò in fretta, gli girava la testa, aprì la porta e c’era Arturo sorridente, vestito di nero, alto e freddo, coi capelli lisci, biondi, e Davide era tutto scarmigliato, spettinato, in disordine, confuso, forse si stava sbagliando, e Arturo gli chiese “stavi dormendo” e rise, gli diede una pacca sulla spalla, un colpo sul petto, e Davide sorrise, tossì, si accese una sigaretta e disse che sì, stava dormendo, si era addormentato sul divano, e poi raccontò ad Arturo della telefonata, lo fece accomodare in cucina, riempì due bicchieri di vino rosso e gli raccontò della telefonata, gli disse della donna sconosciuta che aveva telefonato e che poi lui aveva telefonato a Riccardo e Riccardo ridendo, prendendolo in giro, aveva detto che forse era vero, che forse si stava sbagliando, “forse ti stai sbagliando” gli aveva detto Riccardo prendendolo in giro, e Davide si era preoccupato, e Arturo continuava a ridere, bevve il vino, guardò Davide che si infilava le scarpe, lo guardò mettersi il cappotto, profumarsi, lo guardò mentre si pettinava e poi rise e disse “okay possiamo andare, sei pronto”, e uscirono, entrarono nella macchina di Arturo, c’era caldo, Arturo si accese una sigaretta, accese il motore, mise la freccia e partì.

 

“Ma c’è Riccardo alla festa” chiese Davide ad Arturo e Arturo disse che no, Riccardo non c’era, non l’aveva chiamato, e guidò veloce per strade buie, strade di campagna, con la pioggia, le foglie, i fossi, guidò veloce la macchina che era silenziosa e grigia, potente, e accese la radio e c’erano canzoni rock a volume basso, e Davide canticchiava le canzoni che conosceva, batteva il tempo sulla coscia, e Arturo rideva, gettava mozziconi fuori dal finestrino, dallo spiraglio del finestrino entrava aria fredda, pioggia, “chiudi il finestrino” disse Davide ridendo e Arturo continuava a ridere, a non dire niente, e Davide gli chiese se secondo lui si stava sbagliando, “mi sto sbagliando” chiese Davide ad Arturo nella macchina di Arturo, Arturo allora distolse per un attimo gli occhi dalla strada, dal parabrezza, e guardò Davide e disse “no”, poi rise, spense la radio, rallentò, mise la freccia e svoltò per una strada che non si vedeva, dicendo: “siamo arrivati.”

 

La casa era tutta arancione, disposta su tre piani, piena di scale e quadri scuri, tutti quadri con donne, con colori scuri, donne seminude che portavano cesti di frutta, donne che abbracciavano altre donne, donne vestite con drappi di colori scuri dietro tende nere, donne che guardavano mari neri attraverso finestre oscurate, donne con lo sguardo triste con in mano coppe, mazzi di fiori, conchiglie, e donne con capelli scuri lunghissimi che tenevano in braccio neonati e gatti spelacchiati, che bevevano vino da coppe d’argento scuro, donne sdraiate su letti sfatti insieme ad altre donne e tutte che si abbracciavano, con le bocche disegnate strette, le labbra serrate, tutte queste donne, questi quadri, e la casa era molto grande, bella ed arancione, tutta arancio, le luci soffuse, molta gente che rideva, educati, molti che bevevano con moderazione, che cambiavano i cd, si appartavano, cercavano la toilette, e non si sentiva niente, e c’era il padrone di casa, l’amico di Arturo tornato dal Giappone, che non si distingueva, non si riconosceva, rideva più di tutti e diceva che in casa sua aveva installato molti specchi, usò proprio questa parola, “installato”, il suo nome era Giorgio, e Giorgio parlò con Davide, si presentò, riconobbe Arturo, lo abbracciò e Davide pensò che si sarebbe ubriacato, si sarebbero ubriacati lui e Arturo con Giorgio e avrebbero parlato di come si dimentica, di come si perdono le cose; Giorgio aveva l’aria di una persona intelligente, seria, ed era vestito di blu.

 

La casa era poco illuminata e l’atmosfera era rilassata, limpida, molto tranquilla, e Davide perse di vista tutti e pensò che si stava divertendo, lo pensò sinceramente, e non stava bevendo tanto, e cercò Arturo per dirgli che si stava divertendo e che non stava bevendo tanto e per chiedergli se lui, Arturo, si stava divertendo, quanto stava bevendo, e camminò per la casa, in mezzo alla gente, guardando le facce scure, e tutti sorridevano, tutti lo guardavano educatamente, uomini e donne, alcuni molto giovani, altri coi capelli bianchi, altri con la barba, nessuno coi baffi, per la maggior parte gente di mezza età, dai trenta ai quaranta, forse, e Davide passava in mezzo a tutti, chiedeva permesso, urtava fianchi e borsette, Giorgio non possedeva animali domestici e tutti lo sapevano, tutti conoscevano Giorgio molto bene, Davide aveva perso di vista sia Giorgio che Arturo e li cercava con calma, si stava divertendo, con un bicchiere in mano, stava fumando poco, e arrivò nella cucina che era grande e cromata, pulitissima, e non c’era nessuno; allora aprì il frigo, gli era venuta fame, e prese del cibo, del formaggio, e dietro il frigo si accorse che c’era una donna, una ragazza scura coi capelli neri sulla faccia, davanti agli occhi, che sorrideva, e Davide la guardò mangiando il formaggio, e si agitò un poco, divenne inquieto, “scusa” disse e la donna sgusciò fuori, gli passò accanto, aveva un buon profumo, e gli sorrise, e sparì, e Davide finì tutto il formaggio, non trovò pane, non trovò acqua, bevve l’acqua del rubinetto, strizzò gli occhi, si accese una sigaretta e la mano gli tremava leggermente, e lui se ne accorse, “forse mi sto sbagliando” mormorò, ma poi lasciò perdere, spense la luce, fumò al buio e uscì dalla cucina, si rimise a cercare Arturo, Giorgio, o qualcun altro che voleva farsi trovare.

 

Li trovò entrambi nella biblioteca, o sala da tè, o nursery, una stanza scura tutta di legno, che fumavano e bevevano brandy, cognac, whisky, liquidi ambrati, e in questa stanza dove non c’erano quadri stavano tutti riuniti, Giorgio e Arturo con due uomini e due donne, e tutti in silenzio fumando e bevendo ascoltavano Giorgio parlare, Davide allora si sedette a gambe incrociate sul tappeto, in un angolo, non visto, non lo videro entrare e sedersi, si mise lì e ascoltò anche lui, sicuro, respirando piano, e Giorgio stava raccontando del Giappone, di cose che aveva visto, di cose che aveva guadagnato, di cose che aveva perso o lasciato, del suo viaggio, di come in certi momenti si sentiva sperduto, privo di significato, in due parole: “molto solo”, usò proprio queste parole, queste due parole, “molto solo”, e tutti erano affascinati, ascoltavano, e Davide era affascinato di come tutti ascoltavano, non capiva tutte le parole o il senso delle frasi perché Giorgio parlava a voce molto bassa e non sapeva che Davide fosse lì, nessuno sapeva che lui era lì, sul tappeto, nell’angolo, che ascoltava rapito, che guardava affascinato, e guardava la faccia di Arturo vagamente illuminata dalla luce di due candele sistemate su un cubo di legno nero, e la statuetta di una principessa, un fiore rosso di plastica, grande, accanto alla faccia di Arturo illuminata dalla luce delle candele, Arturo che ascoltava rapito Giorgio che, a quanto sembrava, era un suo caro amico, e Davide osservava tutto ciò, rapito e affascinato, e quando Giorgio smise di parlare una ragazza del gruppo si alzò e barcollò e col piede rovesciò il suo bicchiere di brandy sul tappeto, e allora si coprì la faccia con le mani, lanciò un gridolino, e tutti smisero per un attimo di respirare, ma poi tutto si sciolse, tutti risero, e la ragazza si spogliò ed era molto bella, e raccolse il bicchiere da terra e lo leccò, ferma in piedi nella stanza alla luce delle candele, e tutti risero, e poi, nuda, andò da Giorgio che l’abbracciò, la toccò tutta, e lo baciò, e tutti risero, e poi, uno a uno, si alzarono, se ne andarono, uscirono dalla stanza, dalla situazione, e Davide guardò Giorgio che adagiava la ragazza sul tappeto e cominciava a spogliarsi, ad andarle sopra, e si alzò furtivo in fretta anche lui e anche lui uscì, turbato ed eccitato, affascinato, e uscì dalla stanza, si accese una sigaretta, e Arturo era lì, di spalle, mani in tasca, senza niente, a testa alta, alto e freddo, elegante, biondo, inconfondibile.

 

“Arturo” disse allora Davide posandogli una mano sulla spalla, e si sentiva improvvisamente felice, stabile, “Arturo” disse e gli disse che lo stava cercando, fece finta di niente, e Arturo aveva la faccia seria, gli occhi infossati, e gli guardava attraverso, gli parlava, gli chiese di andare un po’ fuori, e uscirono, andarono al freddo, a guardare gli alberi bagnati, le stelle, le cose ferme.

 

“Non mi piace, no, non mi piace” disse Arturo parlando di Giorgio, di come si vantava, credeva di essere superiore, aveva sempre ragione, Arturo era invidioso e stanco, molto ricco, e voleva andarsene, ma Davide si stava divertendo e voleva rimanere, “io vorrei restare” disse timidamente e con Arturo fumò l’ultima sigaretta e controllò di avere un pacchetto nuovo, un pacchetto di riserva, e c’era, e Davide si sentiva bene, era intrigato, eccitato e affascinato, e non disse niente, non parlò con Arturo: Arturo lo salutò, lo abbracciò, lo guardò negli occhi, rise, e andò via, partì con la macchina nel buio, sparì nella notte, si fermò a un autogrill e mangiò un panino con la cotoletta, bevve una birra e pianse, poi comprò un auricolare per il telefonino, delle pile, un Giallo Mondadori, un salame, tre bottiglie di vino, una provola, una stecca di Marlboro, un compact disc, un dvd, una videocassetta, sette riviste pornografiche, un Gatorade, un sacchetto di patatine e un tubo di baci Perugina; dopo aver pagato uscì nel parcheggio e raggiunse la sua macchina, accese la radio ad alto volume e mangiò tutti i cioccolatini, mise la spesa sui sedili posteriori, mise in moto, fece benzina, rientrò in autostrada e guidò fino all’alba, esausto, senza pensare a niente.

 

Davide invece rimase alla festa, restò nella casa, e imparò a memoria tutti i quadri, li fece suoi, li imparò a memoria, guardò tutte quelle donne, era eccitato, intrigato e affascinato, e bevve parecchio; tornò nella nursery, nella biblioteca, ma la stanza era vuota, allora si stese sul tappeto e il tappeto era sporco, puzzava, e Davide si appisolò, sognò cose rosa, membra rosa e contorte, mani vuote, cose che si accarezzavano, confuse e lontane, cose da dimenticare.

 

Poi udì una voce che diceva “non so mi dimentico”, nel sonno udì questa frase, queste parole, una voce femminile, angosciata, e si svegliò, aveva mal di testa, chissà che ora era, “chissà che ore sono” si chiese e trovò qualcuno e gli chiese l’ora ed era presto, aveva dormito mezz’ora, tre quarti d’ora, più o meno, e si tranquillizzò, si sentiva bene, solo un po’ di acidità di stomaco, e nella casa molte persone non c’erano più, erano andate via, e c’era Giorgio nel salotto che teneva banco, affascinava tutti, si era sciolto i capelli e la cravatta e si era tolto la giacca, con la camicia nera affascinava tutti, e guardò lui, Davide, da lassù dov’era in piedi sul tavolo, e gli sorrise, lo riconobbe, e gli strizzò l’occhio, e tutti lo volevano, Giorgio, tutti volevano toccarlo e volevano farsi toccare da lui, e tutti quando videro che Giorgio strizzava l’occhio guardarono dove lui aveva strizzato l’occhio e videro Davide, si accorsero di lui, e gli andarono intorno, si mossero lentamente, uomini e donne, e gli furono intorno, gli sorridevano, si strusciavano contro di lui, e Davide cercò di darsi un tono, di non essere intimidito, e disse “sono un amico di Arturo, mi chiamo Davide”, e tutti persero interesse, si allontanarono; Giorgio, da lassù sul tavolo, rise, gli strizzò nuovamente l’occhio e Davide sorrise, e Giorgio sorrise a Davide e riprese a parlare, disse qualche altra sciocchezza, e scese dal tavolo e il volume della musica si alzò, si fece assordante, e nessuno notò più Giorgio, nessuno gli prestava attenzione, e Giorgio raggiunse Davide e gli parlò all’orecchio, gli disse di seguirlo, lo condusse in cucina e in cucina Giorgio e Davide mangiarono pasta fredda dallo stesso piatto, bevvero vino ghiacciato e Davide aveva freddo, tutto quel freddo, “il freddo” pensava, e sorrideva, non diceva niente, e aspettava Giorgio che, sicuro, teneva le labbra serrate e gli brillavano gli occhi, erano molto grandi, quegli occhi grandi, femminili, aveva occhi femminili, e Davide a un certo punto parlò, disse “sei una persona di successo”, e Giorgio rise fortissimo e disse, ripeté: “forse ti stai sbagliando.”

 

Poi finì la musica e la testa di Davide pulsava, se la sentiva grossa, piena, e con Giorgio andarono nella sala da tè, la nursery, o era una biblioteca, e con altra gente che c’era lì, altri uomini e altre donne, tre uomini e tre donne, sembravano, c’era poca luce, non si vedeva quasi niente, e Davide era rilassato, e con Giorgio e questa gente silenziosa fumò marijuana e bevve vodka, grappa, liquidi trasparenti, e mangiarono biscotti, pasticcini e croissant, e nessuno parlava, qualcuno dormiva, qualcuno aveva il respiro pesante, si sentiva nell’aria un ticchettìo, uno scalpiccìo, un rumorino strano, confortevole, misterioso e riposante, e Davide sentì che stava per addormentarsi di nuovo e pensò che sarebbe stato un errore, non doveva dormire, non voleva addormentarsi di nuovo in quella casa, svegliarsi lì, quei profumi, quegli odori gli irritavano il naso, gli facevano venire mal di testa, aveva già mal di testa, un forte mal di testa, e gli prudeva dietro le orecchie, e gli bruciavano gli occhi ma, tutto sommato, stava bene, si sentiva bene, e impotente, succube, tutt’a un tratto si addormentò, si dimenticò di tutto; Giorgio incombeva su di lui, lo guardava amorevole.

 

Si svegliò incredibilmente fresco, spaesato, concreto, fuori di sé, materiale, organico, nella stanza completamente trasformata, piena di sole, inondata di luce, con alcune candele ancora accese, invisibili, le finestre spalancate, fuori tutto verde, tutti quegli alberi, la stagione cambiata, steso sul tappeto in mezzo a bicchieri scintillanti, e altri dormivano nella stanza intorno a lui, dormivano ancora, era tardi, “è tardi” pensò Davide, doveva essere passata l’ora di pranzo, doveva essere il primo pomeriggio, e gli venne la stanchezza di tutti i pomeriggi, gli venne una tristezza vaga, abissale, forse perché era in un posto sconosciuto, perché aveva dormito vestito, e anche se si sentiva bene gli venne da piangere, sentì delle cose che gli uscivano dagli occhi; si alzò, si massaggiò la mascella, il mento, si passò una mano sul collo, tra i capelli, si ravviò i capelli, si rassettò i vestiti, si accese una sigaretta e guardò giù, si guardò intorno, gli occhi socchiusi, guardò per terra; una ragazza dormiva in una posizione elegante, forse era la ragazza di Giorgio, forse era un’altra, forse era quella del bicchiere, quella che aveva leccato il bicchiere, aveva i capelli corti e dormiva senza emettere suoni, in una posizione elegante, forse era sveglia, forse stava facendo finta, Davide non sapeva chi fosse, era contento di essersi svegliato per primo, voleva andarsene senza essere visto; più in là un uomo dormiva steso sulla pancia come morto, come un pesce, nudo dalla vita in su, coi pantaloni macchiati di scuro, grumi sui pantaloni, le dita delle mani contratte, i capelli rasati, senza faccia, a faccia in giù, la faccia sul tappeto, coperta, nascosta, profondamente addormentato, col respiro irregolare, roco, e Davide fumò in piedi guardando ora l’uomo, ora la ragazza, guardandoli dormire nella luce abbagliante, il sole, e cominciò a sudare.

 

Tornò a casa in taxi, nessuno lo vide, entrò nel suo appartamento ed era tutto in ordine, tutto spolverato, lindo, senza presenze, e si sentì solo, si sentì perduto; “forse mi sto sbagliando” disse ad alta voce e sbadigliò, si spogliò, si accese una sigaretta e fumò nudo alla finestra, toccandosi il cazzo, poi si fece una doccia, una lunga doccia bollente, dopodiché si rivestì di tutto punto, preciso, si pettinò e mise su il caffè, bevve il caffè davanti alla televisione senza audio, le immagini, i colori, e fu passivo, decise di subire per un po’, di restare calmo, di restare solo, almeno finché finiva il caffè; poi prese il telefono, in piedi nel salotto sollevò la cornetta del telefono e telefonò ad Arturo, gli disse “hai fatto male ad andartene, potevi restare, mi sono divertito, ci saremmo divertiti, sono tornato in taxi, sono pentito, sono stato molto bene”, Davide disse queste cose parlando d’un fiato, veloce, tenendo gli occhi chiusi, e ascoltò Arturo che era distante, parlava su un’altra frequenza, faceva delle chiacchiere, non voleva mostrarsi, stava male; “stai male, come stai” gli chiese Davide ma Arturo non rispose, faceva l’offeso, e Davide gli raccontò che aveva dormito in un letto a baldacchino in casa di Giorgio con una ragazza bellissima, una modella francese o che lo sembrava, sembrava francese ed era bellissima, e Davide raccontò ad Arturo di come aveva dormito con lei, di come l’aveva toccata, si erano baciati, avevano fatto l’amore e poi si erano addormentati abbracciati nel letto a baldacchino e Davide, così disse ad Arturo, aveva dormito benissimo, “ho dormito benissimo” disse Davide ad Arturo, ed erano entrambi arrabbiati, Arturo non voleva arrendersi e Davide si arrabbiò, cercò di simulare indifferenza, vanità, fu all’altezza della situazione; “dopotutto” pensò “ho chiamato io, sono stato io a telefonare”, e riattaccò, imprecò, strizzò gli occhi, strinse i pugni, feroce.

 

“Bisogna seguire il procedimento” disse poi Davide ad alta voce nel suo appartamento vuoto, era vuoto, c’era solo lui, e alzò la cornetta del telefono e telefonò a Riccardo, gli raccontò della festa, gli disse delle bugie, bugie nuove, precise, e Riccardo rise, Riccardo era simpatico, tranquillo, un burlone, era più vecchio di Davide, rise e disse a Davide che secondo lui si stava sbagliando, doveva pensarci bene, doveva stare attento, e Davide rise, tranquillizzato, “la notte mi fa impazzir” disse e “a me la notte mi fa impazzir” gridò Riccardo e risero insieme, risero insieme al telefono, si collegarono, e Davide disse a Riccardo che era preoccupato per Arturo, che Arturo non stava bene, avrebbero dovuto stargli vicino, fargli compagnia, e Davide non ne aveva voglia, Davide era arrabbiato con Arturo, e Riccardo continuava a ridere al telefono, si ostinava a restare assente, a non comparire, voleva sentirsi al sicuro, non voleva rischiare, “ti capisco” disse Davide e continuò a parlare nel telefono, nella cornetta, stringeva forte la cornetta nella mano, e dopo che ebbe riattaccato mise su del tè, bevve litri di tè, e non mangiò niente, saltò la cena, si ficcò nel letto e si ammalò.

 

Per i primi tre giorni della malattia non fu in grado di alzarsi dal letto, stava avvolto nelle lenzuola sudate, gemendo e mugolando, e a volte gridava, quando i dolori alla testa si facevano insopportabili; a volte credette di morire, credeva che sarebbe morto, e credeva di essere tranquillo; morirò, pensava, e si sentiva tranquillo: non era in sé, era malato, non stava morendo; prese molte medicine, pillole, capsule, pastiglie, polverine, e il quarto giorno fu in grado di alzarsi, di camminare per la casa; gli bruciavano gli occhi e sentiva rumori forti, martelli, trapani, seghe elettriche: delirava; il quinto giorno ricominciò a mangiare, riso in bianco, pasta scotta, cose bollite, pollo, carni bianche; il sesto giorno dormì e il settimo giorno era malato a un livello normale, si stava riprendendo, e si trasferì dal letto al divano, accese la tv, e guardò le immagini, sentì i suoni, guardò i telegiornali; vide sacchetti di tela, custodie per videocassette, cose strane, cortei, una veduta della città di Viterbo, strade vuote, riprese notturne, palazzi grigi, facce in primo piano su sfondi blu elettrico, lampioni, fanali, luci di ogni tipo, neon, una ripresa aerea di un’isola, un atollo, vide molti film di tutti i generi, mappe del mondo in computer graphic, lezioni di cucina, televendite di coltelli, interviste, un microfono appoggiato su una bocca bavosa, letti di ospedale, spiagge, belle ragazze in bikini, ragazze nude, labbra, occhi, ciglia, trucchi, pubblicità, tutti gli spot, le marche, i consigli per gli acquisti, loghi di banche, loghi di case cinematografiche, uno stabilimento in una campagna verde assolata, surreale, cadaveri ricoperti di fango, il muro di un carcere, una sparatoria, rubriche di attualità; stava lì sul divano e guardava la tv, le immagini alla tv, e non sentiva il telefono, non pensava a niente, non aspettava nessuno, stava fermo; l’ottavo giorno ricominciò a bere caffè, prese il caffè a colazione, e il nono giorno riprese a fumare, fumò una sigaretta dopo il caffè, alla mattina, e non tossì a lungo, e il decimo giorno fu pronto, fu guarito, e all’ora di pranzo mise un cd di musica classica nello stereo e pranzò solo, si sentiva di buonumore, sollevato, felice di essere guarito, di nuovo sano, fresco e riposato, non si sentiva solo, e dopo che ebbe mangiato lavò i piatti e un bicchiere gli scivolò fra le dita e si ruppe nel lavello e il cd saltò, e una porta sbatté, e qualcuno giù in strada gridò, e squillò il telefono; Davide andò a rispondere, confuso, trattenendo il respiro, “pronto” disse, turbato, e una voce di donna che non aveva mai sentito disse: “non credi in niente”; “come” disse Davide, ma dall’altra parte non c’era nessuno, o forse un respiro; poi chiusero la comunicazione e Davide restò impietrito con la cornetta in mano, le mani gocciolanti, le dita, si guardò le dita e, chissà perché, sorrise.

 

La sera dopo andò con Arturo a casa di Riccardo, si riunirono loro tre, Davide, Arturo e Riccardo, e Arturo disse “siamo ricchi, non abbiamo tempo”, e Davide disse che non credeva in niente, che era tranquillo, e Riccardo propose di fare un viaggio tutti insieme, di andare a divertirsi da qualche parte per qualche giorno, “Parigi” disse, e Arturo rise e si versò ancora del whisky, era ubriaco, e Davide si alzò e andò alla finestra, guardò fuori, il viale, le foglie, il nero, le luci lontane, e si accese una sigaretta: fumava troppo e pensava ad altro; poi, quando fu troppo tardi, uscirono, salirono sulla macchina di Arturo e Arturo si mise al volante, guidò sicuro nonostante il whisky, nessuno ebbe paura, e andarono al Piggy Boy Elephant Night Club, che era un locale confortevole con tendaggi pesanti, scuri, polverosi, e mobili antichi, un posto tranquillo, mai affollato, mai chiassoso, e Arturo sparì subito in qualche nicchia, in un buco, chissà dove: sapeva divertirsi; “si è ripreso” disse Davide a Riccardo e Riccardo rise e rise anche Davide, erano amici, si conoscevano, non avevano voglia di impegnarsi, erano pigri e contenti che Arturo fosse in forma, che non fosse ambiguo, che non volesse provocare nessuno, che stesse sulle sue, che si tenesse tutto dentro; e Riccardo si installò su uno sgabello al banco del bar e si mise a parlare al cellulare, lanciando occhiate alla barista, ignorando tutti, e Davide, eccitato, andò nell’altra stanza, dove stava per iniziare lo spettacolo, si sedette nel buio, vicino al palco, nell’angolo, e attese; poi Stella entrò in scena, camminò sorridendo, sicurissima, nera, ignobile, e cominciò a cantare una canzone; Davide si accese una sigaretta, sorrise, si prese il suo tempo, e guardò, guardò bene Stella che cantava, che muoveva le labbra, che muoveva il corpo, che era fisica, bestiale, che camminava avanti e indietro, si esponeva, si metteva a disposizione, e si toccava i capelli che cambiavano sotto le luci blu, ed era tutto inutile: “è tutto inutile” pensò Stella ed era eccitata, felicissima, guadagnava bene ed era bella, era una ragazza molto bella, ed era giovane, era consapevole, e guardava avanti, guardava giù dal palco, guardava Davide da dietro le luci, da sotto i riflettori, Davide e gli altri tre spettatori che erano ombre sul fondo della sala, la sala era piccola e invisibile, una bolla nera, una cosa che stava per scoppiare, e tutti loro quattro guardavano lei, Stella, che sorrideva e avanzava, continuava a cantare passandosi le mani sul corpo, danzava languida, e si toccava il corpo, si sentiva eccitata, si mostrava a se stessa, trionfava: non doveva fare altro; e Davide guardava tutto e pensava veloce, pensieri veloci gli attraversavano la testa, leggeri, si sentiva la testa leggera, vedeva immagini e poi vedeva la realtà e poi vedeva altre immagini, immagini veloci che gli attraversavano la testa, e guardava con gli occhi, con i sensi, guardava Stella che si spogliava, si metteva in ginocchio e continuava a vibrare, solida e concreta, verissima, e apriva la bocca, si guadagnava da vivere, si teneva sotto controllo; e poi muoveva i fianchi, il bacino, muoveva le mani, le dita, inchiodata dai faretti, le lampade alogene; poi s’immobilizzava, feroce, e li guardava come cavandosi gli occhi; e calava il sipario.

 

Dopo, nella stanza dietro, Davide le disse “sei superflua”, e Stella sorrise e disse “sono bellissima”, e Davide spense la sigaretta e fu suo, la prese, la mangiò, poi fumarono e parlarono fino all’alba, erano già le sei, “sono già le sei” disse Davide e uscì nel freddo e tornò a casa, guardò il telefono, fece bollire l’acqua, buttò la pasta, si fece la pasta, mangiò un piatto di pasta, si fece i rigatoni ai quattro formaggi, mangiò, guardò il telefono, si spogliò e andò a letto, dormì.

 

Appena si svegliò, guardò il telefono, che non stava squillando, poi si alzò e si dedicò al suo hobby, la sua passione, che era scrivere liste di parole con numeri e segni +, e poi sopra le parole mettere dei quadrati colorati come la pubblicità della L’Oreal, e poi tracciare delle righe nere di diverso spessore, tutto ciò lo faceva col computer, col Paint, scriveva liste di parole, a volte parole che cominciavano con la stessa lettera, a volte numeri in sequenza, per esempio da 000739 a 000788, a volte tutti nomi di donna, o nomi di città, o nomi di piante, o nomi di personaggi famosi, e poi sopra tutto, sopra le liste e i quadrati e le righe, faceva un quadrato bianco bordato di nero con dentro un numero di quattro cifre, che era il nome del file, e salvava tutti questi file, 3901, 7999, 1002, 2373, era questo il suo hobby preferito, come altri passatempi aveva la lettura, il cinema, la cucina, lo sci e il giardinaggio, la fotografia digitale; e dopo essersi svegliato e aver guardato il telefono, si dedicò al suo hobby preferito, fece undici nuovi files, per farli ci metteva in media circa venti minuti l’uno, dopodiché, in preda all’ossessione, staccò tutti i cavi dal muro, tutti i telefoni, le spine, sprofondò in poltrona, la sua poltrona preferita, e pianse, e chiuse gli occhi, e ascoltò; si rialzò a sera, guardò il telefono e sorrise; riattaccò tutto, ristabilì l’ordine, o quello che era, mise tutto com’era prima, guardò il telefono, sorrise e disse qualcosa, borbottò alcune parole, mugolò, scosse il capo, si accese una sigaretta e camminò per la casa, guardò il suo appartamento, un appartamento spazioso, grande, chiaro, pieno di belle cose, di quadri, stampe, libri, begli oggetti, simboli, fiori finti, molte cose rosse, vasi rossi, quadri rossi, tende rosse, asciugamani rossi, tutto pulito, veniva una donna a pulire, una donna anziana, muta, che veniva dalla provincia tre volte alla settimana e puliva i pavimenti, spolverava, sbatteva i tappeti, arieggiava gli ambienti, Rosa, si chiamava, e Davide fumò camminando per il suo appartamento, godendo delle sue cose, le cose che aveva comprato, che gli avevano regalato, che aveva rubato, che aveva preso, che gli erano rimaste, Davide fumò camminando per le stanze, guardando le sue cose, guardando gli specchi, i suoi occhi lucidi negli specchi, nelle superfici brillanti, i vetri delle finestre e la sera scura dietro che avanzava, si portava avanti, e Davide fumava e sorrideva e attraversava le sue stanze in pigiama, poi finì, finì di fumare, tornò nel salotto, la stanza principale, il suo ambiente preferito, quello dove viveva di più, dove soffriva, e guardò il telefono e il telefono, obbediente, squillò; “pronto” disse Davide ed era Riccardo, era il suo amico e c’era la voce, c’erano le parole, l’aperitivo in centro, non c’era tempo per pensare; “vieni” disse Davide e si preparò, si fece bello, si profumò, si nascose, e aspettò, non fece niente.

 

Si sedettero tutti al tavolo del locale, un posto sporco, poco illuminato, molto trendy, e ordinarono da bere, si fecero portare tutto, tutti gli accessori, fumarono, parlarono poco perché la musica era molto alta, era troppo alta, non si sentiva, e bevvero tutti, risero, si toccarono, si diedero baci e pacche sulle spalle, si tirarono i capelli, imprecarono tra i denti, andarono in bagno a turno, a pisciare, a guardarsi allo specchio, qualcuno urlò, forse Arturo, e a un certo punto Davide, che si sentiva molto bene, appoggiò entrambe le mani sulla coscia sinistra della Stella, le leccò l’orecchio e poi si rivolse agli altri, che lo stavano guardando con occhi fermi, fissi, e Davide si rivolse a loro, ai loro sguardi solidi, implacabili, li guardò sorridendo dopo che aveva leccato l’orecchio di Stella e disse che aveva in programma una bella cosa, stava preparando una bella sorpresa per tutti, e tutti bevvero, brindarono, levarono in alto i loro bicchieri, si sporcarono i vestiti, erano ubriachi, risero forte, erano demodé, un po’ vecchi, un po’ tristi, molto eleganti, senza barba, coi capelli corti, qualcuno con gli occhiali, risero e bevvero e levarono in alto i calici, celebrarono, e Riccardo chiese a Davide “cosa” e Davide rise e disse “cosa cosa”, e Riccardo rise e disse “cosa, questa cosa, questa sorpresa”, e Davide disse “niente”, era ubriaco, e Stella, ubriaca, rise, e Davide le strizzò il seno sinistro con la mano destra e tutti risero, brindarono, bevvero, la musica era troppo forte, nessuno sentiva niente e tutto era tranquillo, non si preparava niente, e non c’era niente che doveva finire.

 

Stella, adesso toccava a lei, Stella intanto era molto presente, molto classica, calzava a pennello, stava bene con tutto; “io ti rifiuto” disse a Davide in macchina di Arturo, facendosi sentire da tutti, e Davide non si scompose e disse “e io nego che esisti” e Stella applaudì, batté le mani, le sue belle mani rosa, piccole, molto curate, si divertiva, e Arturo era serio, silenzioso, pieno di ansia, e sbagliò strada, sterzò, ingolfò il motore, bestemmiò: tutti lo ignoravano; Stella allora disse a Davide che avrebbe preso un’altra strada, disse di farla scendere, di lasciarla andare, e scese dalla macchina stringendosi nel cappotto e camminò senza voltarsi, sparì, e Davide la guardò, poi guardò la strada, la nebbia, tutto quello che c’era, e pensava alla macchina fotografica, “non ho la macchina fotografica” pensava, e strinse i pugni, “avrei dovuto portare la macchina fotografica” pensò e strinse i pugni, non sanguinò, curò l’apparenza, l’immagine, si sacrificò volentieri: avrebbe vomitato; “vomiterò” disse e Arturo ripartì, silenzioso, assorto, cupo, e il tempo passava, e tutti loro nella macchina avevano orologio e telefono cellulare, erano tutti carichi, pronti a fare delle cose, il serbatoio era pieno, nessuno si aspettava granché, erano molto in confidenza, erano vecchi amici, conducevano una vita agiata, senza eccessive preoccupazioni, erano benestanti, goderecci, si conoscevano da molto tempo, anni, molti anni, non sapevano granché l’uno dell’altro, erano un po’ così, un po’ vili, un po’ pressapochisti, pigri, ma erano belli a vedersi, si distinguevano, erano persone intelligenti; “dovremmo riprendere a giocare a tennis, fare uno sport, dovremmo proprio farlo” disse Riccardo dal sedile davanti, e si accese una sigaretta, e poi nessuno parlò più, guardarono avanti, guardarono tutti avanti, nel parabrezza, il vetro dove passavano le immagini, la strada che filava, l’aria, i cipressi, e Davide si accorse di avere le orecchie tappate.

 

Andarono a cena e il cibo li accolse a braccia aperte, mangiarono seriamente, con gusto, e bevvero, sbagliarono gli accenti, la grammatica, risero molto, ridevano spesso, si ripetevano; “senti” disse Davide ad Arturo quando ebbero ordinato il caffè, “devo chiederti un favore, domani sera esco con una ragazza che si chiama Violetta, è una fotomodella, è fantastica, e a Stella le dico che esco con te, quindi voglio chiederti questo favore, se posso dirle così, se mi reggi il gioco, se poi ti chiamerà nei giorni prossimi se le confermi che tu domani sei uscito con me, le dici che sono stato con te tutta la notte, così posso uscire con la Violetta, la voglio portare nell’ufficio di notte e scoparla sul tavolo della sala riunioni, voglio proprio farlo, ci tengo molto, e Stella non lo deve sapere, non voglio che lo sappia, me lo fai questo favore, puoi farlo” chiese Davide ad Arturo e Arturo lo guardò serio, pieno di tenerezza, e disse che non c’era problema, che l’avrebbe fatto volentieri, e Riccardo intervenne e disse a Davide che disapprovava, che era una brutta storia, che non c’era bisogno di quei sotterfugi perché tanto Stella lo sapeva che lui scopava le fotomodelle, che bisogno c’era di fare quelle cose, quei trucchetti, quelle messe in scena, era proprio brutto, e disse che anche Stella non si faceva dei problemi se doveva uscire con qualcun altro, scopare altri uomini, avvocati, notai, il loro rapporto era così, non erano mica fidanzati seri, promessi sposi, che diamine, cazzo, Riccardo si stava scaldando, ordinò un altro caffè, e Davide disse che aveva ragione, “sì tu hai ragione” disse, “ma”, e scolò la sua grappa, non aggiunse altro, non voleva spiegarsi, voleva vivere in pace, non voleva fare rumore, non voleva tentare niente, aveva paura, gli mancava il coraggio, gli mancavano degli attributi, non lo sapeva, non voleva chiedersi niente, mettersi dei problemi, e Riccardo gli disse “sei un cretino, non capisci niente” e Arturo rise e disse che prima in macchina era nervoso, disse che adesso era più rilassato, disse che avrebbe fatto volentieri quel piccolo favore a Davide, disse che erano amici mica per niente, e disse che Stella comunque era proprio una bella ragazza, una bella fica, “fica” disse e rise, bevve, si accese una sigaretta, e chiese a Davide se aveva con sé per caso una foto della fotomodella, la Violetta, gli chiese dove l’aveva pescata questa Violetta, com’era, se era fica come la Stella, se poteva farsela anche lui, e allora Davide disse ad Arturo, ebbe una bella pensata, gli disse “perché non usciamo in tre domani, perché non vieni anche tu” e Arturo si entusiasmò, Davide era il suo unico amico, e così loro due insieme chiesero a Riccardo questo favore, se Davide poteva dire a Stella che erano tutti fuori con Riccardo, se poteva reggergli il gioco a loro due, e Riccardo disse di sì, accettò, “certo” disse, ma disapprovava, non era contento, e non disse più niente; allora chiusero la questione, non ne parlarono più, lasciarono tutto come stava, e la serata si sviluppò bene, prese forma, non si fece male nessuno, e non ricordarono niente.

 

A volte le parole passavano attraverso le loro menti, da Davide ad Arturo o a Riccardo e poi da Riccardo a Davide o ad Arturo o da Arturo a Riccardo e da Riccardo a Davide o viceversa, così, non i pensieri, le parole, certe parole o frasi che passavano dalla mente dell’uno a quella dell’altro, facevano questo scambio, non si domandavano niente, erano contenti, erano ricchi, vivevano bene, erano vecchi amici ed erano molto affiatati; dunque Riccardo ci restò male, non voleva fare questa cosa, reggere il gioco a Davide e Arturo che andavano a scopare la Violetta, la fotomodella, Riccardo disapprovava ed era molto nervoso quella sera, era teso, ma l’avrebbe fatto, gli avrebbe retto il gioco, l’avrebbe fatto per i suoi amici, ma era negativo, era pessimista: non ci credeva; e si mise a rimuginare delle cose, a tramare, a ricordare cose del passato, mentre Arturo con la macchina prendeva Davide e la Violetta e li portava alla ditta, andavano in ditta, negli uffici vuoti, i corridoi deserti, accendevano i neon, andarono loro tre nella ditta, nella fabbrica vuota, alticci ed eccitati, brilli, e là si ubriacarono ed erano in tre, erano assortiti male, non avevano paura di niente, forse si stavano sbagliando, e la Violetta era al culmine, era bellissima, non mangiava niente, le brillavano le labbra, si metteva la saliva sulle labbra, era una sconosciuta, e la misero sul tavolo, sui divanetti, e fecero tutte quelle cose, fecero quello che volevano fare, furono seri, furono dinamici, risaltarono tutta la notte, fecero le loro cose, quello che dovevano fare tutti e tre, sotto il neon, nella stanza della fotocopiatrice, nella sala riunioni, si dominarono, vollero morire, si presero, si diedero tutti, e furono soddisfatti; fumarono, dopo, sporchi, e Violetta la riportarono dov’era, credettero di dimenticarla, e lei non disse nulla, nessun dubbio li sfiorò, morivano di sonno, a Davide gli si chiudevano gli occhi, “dormono tutti” sussurrò Arturo e abbassò il volume della radio, buttò la sigaretta dal finestrino, aveva le mani molli, era spettinato, era davvero buffo, molto bello, molto elegante in quel punto della notte, in quella posizione, che guidava, che proseguiva con Davide, che gli aveva visto il cazzo, e lo lasciò sotto casa, lo abbandonò: erano molto amici; in casa Davide nel bagno si guardò nudo allo specchio, si toccò il petto, l’addome; si toccò le cosce, i piedi, le caviglie, il collo, la nuca; si toccò la testa e non parlò, non aprì la bocca; pensò ai baci, che ne aveva dati pochi, sbadigliò, fumò, tossì, guardò il telefono e andò a letto, dormì solo, subito, profondamente, con le mani sotto il corpo.

 

L’hobby preferito di Riccardo era invece suonare la chitarra, fare musica, canticchiare, ridere; “ho composto una canzone” disse ed era sempre sera, sempre notte, c’erano sempre molte vetrate, molti riflessi, molti bicchieri, soprammobili ovunque, stanze piene di oggetti, tutti guardavano dappertutto, soprattutto Davide, e tutti ascoltavano Riccardo che strimpellava la sua chitarra, e Riccardo disse “ho composto una canzone, questa è la prima strofa, fa così: quante palline hai comprato al mercato, la la la, io ti ho vista ti ho dimenticato, la la la, ho inserito il pilota automatico e sono andato via, la la la, a me non me ne frega niente tu mi hai lasciato, la la la” e ridacchiò, si divertiva molto, era una canzone demenziale, aveva una bella voce, era creativo, aveva studiato canto e recitazione, era dinamico, sapeva mettersi al centro dell’attenzione, sapeva prendersi il suo tempo, le sue piccole vittorie quotidiane, le sue rivincite personali, sapeva farsi invidiare, aveva tempo da perdere, poteva permettersi di fare quasi tutto, sapeva come non mostrare le sue cose, le sue frustrazioni, e godeva molto, soffriva in silenzio, canticchiando, mostrandosi come voleva, aveva pregi e difetti ben distribuiti, Arturo e Davide lo apprezzavano, erano contenti di averlo come amico, di stare in sua compagnia; Riccardo aveva poche donne, parlava poco di sé, era nascosto, molto riservato, pudico, timido, era un uomo di valore, un bell’uomo, un buon diavolo, un ottimo osservatore, un po’ cinico, un bravo ragazzo, un discreto oratore, aveva una conversazione brillante, non si annoiava, sapeva stare in compagnia, sapeva farsi valere, beveva meno degli altri, fumava poco, sapeva trattenersi, sapeva i tempi giusti, i momenti, sapeva sfruttare le occasioni, cogliere gli attimi, le delusioni, veniva raramente frainteso, era chiaro, eloquente, si spiegava bene: lo stimavano tutti; “quand’è che mi insegni a suonare la chitarra” chiese Davide a Riccardo, gliel’aveva chiesto molte volte, “mai” disse Riccardo e tutti risero, Arturo applaudì, Stella si mise a tossire e scappò nel bagno, Davide ci rimase male, era inquieto; “che hai, sei inquieto” gli bisbigliò Arturo all’orecchio e Davide non rispose, lo guardò cattivo, si scusò, si alzò e raggiunse Stella nel bagno; Stella stava sul cesso con la gonna alzata, le mutandine alle caviglie, sorrideva e fumava sul cesso, beata e pulita, e guardava la porta, guardava chi sarebbe entrato, ed entrò Davide; “sei bellissima” le disse e lei rise, sgocciolò, si alzò, tirò lo sciacquone e andò da lui, si strusciò così com’era, nuda, buttò la sigaretta nel lavandino e lo baciò, e lui la prese, la toccò, la mise in posizione, respirarono in fretta, fecero dei gemiti, dei lamenti, scivolarono per terra, le piastrelle fredde, fecero delle ditate sullo specchio, si sporcarono, finirono, persero colore; e dallo spiraglio Arturo spiava, guardava tutto.

 

“Ho un problema” disse Davide, “lo so” disse Riccardo quando furono rimasti soli; “questo è il mio problema, ho dei problemi, non sono soddisfatto” continuò Davide, “sì” disse Riccardo che era placido e capiva tutto, non aveva scrupoli, non aveva timore; “forse mi sto sbagliando” disse allora Davide e scoppiò in pianto, Riccardo gli strinse le spalle, gli diede un bicchier d’acqua, gli diede del brandy, gli accese una sigaretta, lo fece sdraiare, non gli disse niente; “non sono soddisfatto della mia vita, non sono contento, non so più le cose” disse Davide con la faccia schiacciata sul cuscino e Riccardo dal buio della soglia, dall’ombra, scuoteva la testa piano, muoveva le dita, era sicurissimo, non aveva bisogno d’altro, era soddisfatto; “che si fa per l’ultimo dell’anno” chiese poi Davide, e subito dopo scivolò nel sonno, tra i granchi, tra le fiabe senza capo né coda, le dimenticanze.

 

Un altro giorno si svegliò e il telefono stava squillando. Davide era sveglio seduto sul letto e guardava il telefono. Il telefono stava squillando. Davide scese dal letto e inciampò, perse l’equilibrio, il suo cuore accelerò i battiti mentre stava andando a rispondere al telefono. Davide si fermò dove c’era il telefono e si voltò, guardò indietro, e c’era il suo letto disfatto, il letto dove aveva dormito, e il telefono stava squillando. Poi guardò il telefono, il telefono che squillava. Poi prese la cornetta con la mano destra e la alzò, se la portò all’orecchio e non disse niente. “Pronto” disse qualcuno dall’altra parte, ed era Stella. “Pronto” disse Davide. “Pronto” disse Stella. “No scusa pensavo che fosse qualcun altro” disse Davide a Stella, “chi” disse Stella, “no niente scusami” disse Davide a Stella, e Stella parlò, disse molte cose, parlò a lungo, Davide si portò il telefono sul letto, si mise nel letto col telefono, con la cornetta in mano, ascoltò le cose senza interrompere, stette immobile sul letto col telefono, ad ascoltare.

 

“Ci sono delle cose che non sai” disse Stella al telefono, a Davide, “cioè, cose di me, del mio passato. Non mi ricordo niente. Faccio molta fatica. Ti amo. Ricordo i posti, le insegne, la sabbia, le dune, le facciate degli hotel, le palme, il cielo. Delle facce, delle cose. Non ti ho mai parlato di queste cose, sono cose che non sai e che ti voglio dire. Credo che possano servirti. C’era una piscina all’ultimo piano di un hotel e i clienti di questo hotel erano delle famiglie, dei bambini, delle coppie anziane. Da lassù vedevo tutta la facciata dell’hotel fino giù fino alla piscina del piano terra con le palme e il tetto del bar, il tetto di paglia. Questa è la mia storia. Nell’hotel avevamo una stanza bianca molto grande con due sgabelli bianchi con il cuscino fucsia. Non mi ricordo niente, sono confusa. Forse c’erano delle tende verdi. I vetri non erano mai bui e c’era sempre molta luce anche di notte, tutto era molto ben illuminato, era tutto molto ben fatto, tutto organizzato nel migliore dei modi. Forse dico cose inutili. Sono cose che non sai, che non ti ho mai detto, e io ti amo. Ti voglio raccontare la mia storia. Faccio molta fatica. Non ricordo quasi niente. Era pieno di scalini in quell’hotel, scale di ogni tipo, rampe, balaustre, scale a chiocciola, gradinate, scalinate, e tutte avevano portaceneri sottili da terra e tutti i portaceneri erano vuoti, sempre, tutti, e tutti fumavano, mantenevano sempre tutto molto pulito, non li vedevi mai pulire, era un ottimo hotel. Mi piace molto  la parola hotel. Conosco un po’ di trucchi, sono una persona ambigua. Posso essere molto ambigua. Non so bene chi sono. Nell’hotel io non mi ricordo bene con chi stavo, era un uomo bello, un bell’uomo, io avevo diciannove anni, ero bionda, io ero bellissima, non mi divertivo per niente. Io piacevo a tutti, non mi ricordo bene quell’uomo, era molto bello, aveva occhi normali, non lo ricordo, mi confondo. Aveva i capelli molto corti, mi sembra. Mi ricordo l’hotel, il suono delle posate sui piatti, gli sguardi, gli occhi degli altri. Gli altri uomini dell’hotel che mi guardavano, facevo molto sesso nell’hotel con quell’uomo, lo scopavo, mi facevo scopare, era molto bello, godevo molto ma non mi divertivo. Mi perdo, divago, non mi ricordo niente. Mi ricordo le canzoni, il piano bar, la donna del piano bar. Muoveva la bocca, muoveva sempre la bocca anche quando non cantava. O forse non era lei. Io muovevo la bocca davanti allo specchio, mi mettevo lo specchio davanti alla bocca, mi guardavo le labbra, poi guardavo come quell’uomo mi guardava le labbra, aprivo molto le labbra, muovevo la lingua, non vorrei essere volgare. Non so più che effetto ti faccio. Sono molto onesta.” Davide sul letto ascoltava, si allungava a prendere le sigarette. Ascoltava le parole dalla cornetta del telefono, sdraiato sul letto, fumando, guardando il soffitto, il filo del lampadario, la cima dell’armadio. Ascoltava Stella che parlava e parlava, era lanciata, era furiosa, era davvero onesta, e Davide ascoltava ora con l’orecchio sinistro, ora col destro, e guardava in su. “Insomma, non voglio dirti niente di particolare. Voglio che ascolti la mia storia, perché ti amo. Non mi conosci bene. In quell’hotel ero bionda e bevevo molti cocktail, mi sdraiavo sulla sabbia, ridevo spesso, mi lavavo molto, ero molto pulita, mi profumavo, avevo molte cose, molti prodotti, molti oggetti, e mi guardavo spesso, mi piacevo, ero molto eccitata, questo mi disturbava. Allora con quell’uomo ero violenta, non gli dicevo niente, lo guardavo, gli saltavo addosso. Lo mordevo, gli facevo male, lo facevo impazzire. Potevo farlo con tutti gli uomini. Nell’hotel era bello perché mi sentivo che facevo parte dell’hotel, tutti noi lì facevamo parte dell’hotel, quell’uomo con cui stavo faceva parte dell’hotel, era l’hotel, tutti noi eravamo l’hotel, eravamo tutti lì, tutti dentro l’hotel, ne facevamo parte, eravamo belli come l’hotel. Io camminavo molto per l’hotel, andavo in giro per tutti i piani, guardavo tutte le porte, gli infissi, ero spesso spettinata. Adesso mi diverto molto. Mi diverte che tu ascolti queste cose, perché te le voglio dire. Ti voglio dire queste cose che non sai. Una notte mi sono fatta toccare da un cameriere, uno dei camerieri dell’hotel, che era un ragazzo magro, alto, con una brutta pelle, una brutta faccia. Mi sono fatta toccare, mi sono appoggiata al muro, ho piegato la testa, ho appoggiato le braccia in alto, volevo le sue mani. Volevo che mi toccasse e mi facevo toccare, mi piaceva molto. Lo sentivo ansimare dietro di me, vicino al collo, mentre mi toccava, mi toccava sempre più frenetico, non avevo guardato bene la sua faccia, volevo le sue mani sul corpo. Poi mi sono fatta baciare, mi sono fatta succhiare la lingua, mordere le labbra. Poi mi sono inginocchiata davanti a lui, guardandolo, e mi sono fatta costringere a prenderglielo in bocca. Ti voglio dire tutto, ti voglio raccontare queste cose. Sono cose che dovresti sapere, che non ti ho mai detto, cose di me che dovresti conoscere. Io ti amo. Poi mi sono fatta sbattere da lui, da quel ragazzo brutto, volevo che mi facesse male, mi ha fatto male, non è durato tanto. Volevo che mi prendesse a schiaffi. Gli sorridevo, dopo, gli toccavo la pancia. Ero molto bella. Bisogna che te le dica al telefono, queste cose. Sei un buon ascoltatore. Ti sento, mi sembra di vederti lì che ascolti. Sei un bell’uomo, mi piace come mi guardi, come mi vuoi, che vuoi passare del tempo con me. Comincio a ricordare, più parli più ti ricordi, mi ricordo altre cose, altri momenti, ma non ho molto da dire. Particolari, cose sfumate, contorni, periferie, zone nebbiose, oggetti qualunque, fotografie, cose inutili, sciocchezze. Ti stimo, ho fiducia in te. Sono cose che non ti ho mai detto. Nell’hotel c’erano molti bar, bevevamo molto. Mi piacerebbe fare un viaggio con te. C’era molta luce. Poi siamo tornati a casa, siamo tornati in città. Pulivo il parquet, mi piaceva molto pulire il parquet. Quell’uomo non c’era più, ero un po’ spaesata, non sapevo bene cosa chiedermi, le domande da farmi, figurati, ero un po’ in crisi, pensavo all’hotel, alle vetrate. Non desidero avere figli, non so se te l’ho mai detto. Da quel momento in poi, dal parquet, mi ricordo tutto, ricordo tutto perfettamente. Fino al più piccolo dettaglio. Tutti i particolari, le cose più piccole. Sono spesso malinconica, mi sento addosso un umore strano. Tuttavia, mi rilasso di frequente, anche se dormo poco. Cerco di seguire una dieta equilibrata. Perdonami se parlo un po’ così, se sono confusa. Non mi sono preparata niente, nessun pensiero, non ho pensato a niente. Ho pensato che ti telefonavo e ti raccontavo la mia storia, che ti dicevo tutte queste cose vaghe, mi sono immaginata che ti parlavo al telefono in modo vago, ti tenevo sulle spine, facevo delle allusioni, cercavo di coinvolgerti, di convincerti di qualcosa di importante. Non ho parlato mai molto con te, non ti consideravo molto. Non ti ho amato sempre. Mi sei sempre piaciuto. Queste cose non sapevo a chi dirle, è per questo che ti amo. Perché ho pensato a telefonarti e dirti queste cose al telefono, mi ricordo il numero a memoria, il tuo telefono fisso, il tuo numero di casa. Sono sicura di me, mi piaccio ancora, sono bella. Per cui potremmo uscire a cenare, potremmo truccarci, essere migliori. Potremmo divertirci. Potremmo guardarci senza parlare, così, andare fuori a cena, potresti portarmi fuori a cena, un giorno, una sera, se ti va, potremmo farlo, potremmo fare tutto. Potremmo stare tranquilli, ma non è questo che volevo dirti. Scusa, mi ripeto, divago, parlo d’altro, perdo il filo. Ti stavo dicendo quelle cose, stavo parlando dei disegni, mi sembra. Non ho mai saputo disegnare. Sbagliavo i colori, le matite, strappavo i fogli, mi sporcavo le mani. Ad ogni modo, non voglio dirti altro. Adesso ho voglia di stare un po’ da sola. Mi piacerebbe andare a cena con te una di queste sere. Fare tardi, divertirmi. Mi piacerebbe andare al cinema, a casa di qualcuno, stare ferma su una poltrona, sorridere, farmi guardare. Vorrei che mi toccassi, vorrei le tue mani che mi toccano dopo che ti ho detto queste cose. E’ da tanto che volevo fare questa telefonata, che volevo dire queste cose al telefono. Amo chi ha già avuto quello che voglio io adesso. Che ore saranno?” chiese Stella e Davide guardò l’orologio sul muro, spostò la testa, gli faceva male il collo, aveva un leggero mal di testa, spostò la testa, spostò gli occhi e guardò il muro, l’orologio sul muro, e disse “sono le tre, è pomeriggio” e Stella disse che era tardi, che aveva parlato abbastanza, che aveva da fare, che era bendisposta, e riattaccò.

 

“Subisco molto l’influenza di quello che leggo” disse Davide al bar facendo colazione una di quelle mattine, un giorno di quel periodo, in quegli anni, quando tutti erano poco vestiti, faceva caldo, era un periodo di temperature alte, di sudore, di vestiti chiari. “Subisco molto l’influenza di quello che leggo” ripeté Davide e sorbì il caffè, lo sorseggiò, e Arturo che beveva il cappuccino lì di fianco gli disse che era tardi, che voleva andare a dormire. “Bevi troppo” disse Arturo a Davide e Riccardo, che mangiava un croissant dietro di loro, rise, e Davide disse che subiva molto l’influenza di quello che leggeva, e rise. Poi pagò la colazione e tornò a casa, salì nel suo appartamento e camminò per le stanze così com’era vestito, con le scarpe, un completo scuro, pantaloni scuri, cravatta, camicia, giacca, le scarpe nere, camminò sui tappeti, li guardò, guardò il suo appartamento. Non guardò il telefono. Bevve mezzo litro d’acqua fresca, si soffiò il naso e si svuotò le tasche, lasciò tutto sul tavolo. Poi si sedette sul divano, guardò fuori, non fumò, non fece niente. Non guardò né il telefono né la tv. Poi si alzò, stava venendo buio, si alzò e andò nel bagno, si guardò allo specchio, fece pipì, tornò a guardarsi allo specchio, si sorrise, si fece serio, si guardò negli occhi, si pettinò, si guardò di nuovo, sorrise di nuovo, di nuovo tornò serio, accese tutte le luci, staccò il telefono, accese la tv, accese tutti gli elettrodomestici, spalancò le finestre, aprì le ante degli armadi, aprì tutte le porte, aprì il frigo, lasciò tutto aperto, guardò tutto un’ultima volta, guardò dalle finestre, guardò i muri, i sanitari, guardò la cucina, i fornelli, gli armadietti, guardò i cibi nel frigo, tutti i vasetti di yogurt, bevve uno yogurt, strizzò gli occhi, li chiuse, li riaprì, si pulì la bocca e uscì di casa, lasciò la porta aperta, lasciò tutto aperto e se ne andò, non si fece più vedere.

 

Andò a casa di Giorgio. “Ho un problema” gli disse. “Ho ospiti” gli disse Giorgio, e lo portò in un’altra stanza, gli presentò una donna con le gambe nude, le cosce nude di quella donna erano lisce e lunghe, era magra. “Guarda” disse Giorgio e leccò le cosce della donna, le leccò tutte le gambe, tutta la pelle, ci mise un po’, lo fece lentamente. La donna stava in piedi con le gambe leggermente divaricate, era alta, era molto bella. Poi Giorgio le disse di sedersi sulla poltrona, di stare col culo sul bordo, e le disse di tirare su le gambe, di aprirle. La donna aprì le gambe sulla poltrona, silenziosa, sorridendo appena, e teneva le labbra dischiuse, e guardava Davide che guardava Giorgio, che lo ascoltava. “Guarda” disse Giorgio “vieni più vicino, vieni a vedere bene.” Davide si accovacciò con Giorgio davanti alle gambe aperte della donna e guardò la fica della donna, così esposta, tutta pulita, scura. Le guardò le cosce, gliele toccò, erano umide, c’era la saliva di Giorgio. “Guarda” disse ancora Giorgio, sconvolto, e allungò un braccio, toccò con le dita la fica della donna, lo fece lentamente, usò entrambe le mani, la toccò a lungo. La donna sorrideva appena, teneva le labbra dischiuse, guardava a volte Giorgio, a volte Davide, a volte guardava il soffitto, a volte chiudeva gli occhi, a volte smetteva di sorridere, a volte gettava la testa all’indietro. Poi Giorgio tolse le mani e con Davide guardò la fica della donna che era più gonfia, più bagnata. “Guarda” disse Giorgio, e poi disse a Davide di toccarla, “toccala” gli disse, e Davide lo fece, la toccò, infilò due dita dentro la fica della donna, le infilò piano, lentamente, era molto calda, era bollente. “E’ molto calda” disse Davide e Giorgio disse alla donna di alzarsi in piedi, di stare in piedi davanti alla poltrona, di piegarsi. Poi si sedette sulla poltrona e stette fermo per un po’, stette a guardare il culo e la fica della donna. Poi leccò la fica e il culo della donna, le mise le mani sui fianchi, sulle cosce, sul culo, e le leccò la fica e l’ano, ripetutamente, andò avanti per un po’. “Fallo anche tu” disse poi e si alzò, guardò Davide che si sedeva, che prendeva il suo posto, che guardava la fica e il culo della donna. Poi Davide prese nelle mani le natiche della donna, le strinse i fianchi, e leccò anche lui, leccò tutto, sentì quei sapori, quel gusto, quelle cose amare. E a un certo punto mentre leccava, mentre gustava tutto, sentì Giorgio che andava davanti alla donna, che glielo metteva in bocca, e sentì la donna che glielo succhiava, che si muoveva, che muoveva il culo contro la sua faccia mentre leccava. “Guarda” lo chiamò allora Giorgio con voce tranquilla “alzati, vieni qui, vieni a vedere.” E Davide si alzò, ansimante, tolse la faccia da lì, si alzò dalla poltrona e andò di fianco a Giorgio davanti alla ragazza, si pulì la bocca, si annusò le dita, quel gusto amarognolo, e guardò. “Guarda” ripeté Giorgio e Davide guardò la ragazza piegata che succhiava il cazzo di Giorgio, che lo leccava, guardò il cazzo di Giorgio che spariva nella bocca della donna, guardò la lingua della donna che si staccava dalla punta del cazzo di Giorgio e guardò un filo di saliva che si spezzava, una goccia che cadeva per terra, e poi guardò la donna che di nuovo apriva la bocca, sbatteva la lingua, ingoiava la carne, il cazzo di Giorgio, e guardava in su, guardava ora Giorgio, ora Davide, aveva gli occhi molto truccati. “Guarda” disse ancora Giorgio, calmo, e tirò fuori il cazzo dalla bocca della donna, glielo strofinò sulla faccia, sui capelli, la donna chiuse gli occhi, tenne la bocca aperta, e Giorgio le strofinò tutta la faccia col cazzo e poi se lo prese in mano, lo tenne fermo davanti alla bocca della donna, lo tenne in mano così fermo e guardò Davide, “guarda” disse un’altra volta, e lo infilò di nuovo nella bocca della donna, lo infilò molto lentamente, e la donna fremeva, non stava ferma, e Davide guardava tutto, respirava poco. “Tirati giù i pantaloni” disse Giorgio a Davide e Davide ubbidì, si tolse i pantaloni, le mutande, si toccò il cazzo. Era molto duro, era pulito, abbastanza grosso. Allora Giorgio disse alla donna di smetterla, di togliersi il suo cazzo dalla bocca, di alzarsi. La donna si alzò e si toccò il seno, sorrise, e Giorgio le disse di andare vicino a Davide, di toccare Davide, e la donna andò dietro a Davide, nuda, e si premette contro di lui, e con la mano gli prese il cazzo, glielo strinse un po’. “Sputagli sul cazzo” le disse Giorgio e lei sputò sul cazzo di Davide, poi guardò Davide negli occhi, poi glielo prese di nuovo in mano e mosse la mano, sparse il suo sputo, la sua saliva. “Guarda” disse Giorgio “guarda la sua mano.” E Davide guardò la mano della donna, guardò la mano della donna sul suo cazzo, guardò la donna, si guardò il cazzo, e voleva dire qualcosa, cercò di pensare a qualcosa da dire, pensò di dire qualcosa ma non disse niente, non c’era niente da dire, e si arrese, chiuse gli occhi, li riaprì, guardò la donna e continuò a guardarla, poi guardò Giorgio, poi guardò di nuovo la donna e fecero altre cose, restarono insieme per tutta la notte.

 

“Sono un romantico” disse Davide al mattino a colazione. “La colazione è il pasto più importante della giornata” disse Giorgio. “Sono in ritardo” disse la donna, seccata. Bevvero il caffè, bevvero il succo d’arancia, mangiarono molto. “Io lo prendo amaro” disse Davide. “Non ti riconosco più” disse Giorgio. “Passami lo zucchero” disse la donna. Tutti e tre erano molto assonnati, parlavano poco, stavano seduti al tavolo della colazione, mangiavano e bevevano il cappuccino, il latte, il succo di pompelmo. “Vado avanti bene” disse Davide. “Come vanno le cose” chiese Giorgio. “Ho lasciato tutto acceso” disse Davide. “Cosa” disse la donna, attenta. “Dovrei tornare a casa” disse Davide, e poi disse che era molto stanco, che voleva dormire, che voleva restare da solo. “Hai paura” disse Giorgio. “Non sai più cosa dire” disse la donna. Davide rise forte e a lungo, poi si alzò dalla sedia, camminò per la cucina, attraversò il salone, andò nel bagno, tossì, fumò una sigaretta e andò in una stanza dove non era mai stato, un letto molto grande, molto bello, chiuse la porta a chiave, si chiuse nella stanza, e si spogliò, si infilò nel letto, nudo, si rigirò un poco, sorrise, e si addormentò.

 

Sognò che era a New York e che guidava qualcun altro. Guardava delle strutture enormi, enormi strutture gialle, stabilimenti gialli a New York. Poi fecero un incidente, uccisero due uomini coi capelli brizzolati e il pizzetto. Un vecchio prese a calci i cadaveri sulla Quinta Strada. C’era un cane dietro l’angolo, un cane bianco e nero, un cagnolino, un cucciolo. Una donna portava un coccodrillo al guinzaglio, un coccodrillo piccolo, verde smeraldo. Dietro l’angolo il coccodrillo staccò la testa del cane, gliela prese in bocca e la staccò lentamente, con precisione, e non c’era sangue, e Davide guardava tutti i filamenti, i legami spezzati dal collo alla testa, la testa staccata del cane, la testa del cane nella bocca del coccodrillo, e pensò: “che schifo.” Poi corse coi suoi compagni sull’argine del fiume. C’era sabbia, terra, terriccio, polvere grigia. “Scivolo” gridò Davide che non ce la faceva, perdeva terreno, rischiava di cadere nel fiume. Alcuni bambini giocavano dietro di loro, li rincorrevano, Davide sentiva i loro palloni rimbalzare, le loro grida, le loro risatine. Poi furono di nuovo in macchina nel traffico e Arturo era al volante, era stanco, “vuoi che guidi io” gli chiese Davide e Arturo disse “certo, okay sì se te la senti, grazie” e gli passò il volante ma Davide restò fermo a guardare, Arturo scese dalla macchina in mezzo al traffico, si schiacciò contro la portiera, e salì un altro Arturo, più alto, vestito diverso, era un altro Arturo, più riposato, che salì al volante e partì guardando Davide, sorridendo, e disse: “grazie.” Davide sorrise, confuso, e guardò dal finestrino. Al semaforo quattro inglesi gli tagliarono la strada, cattivi, piccoli, avevano musi di cane, barbe lunghe, erano su una macchina piccola e li guardavano con cattiveria, gli gridavano contro, e Arturo si elevò sopra la macchina, urlò, li fece sparire, e Davide guardava tutto fuori dal finestrino e si picchiò la fronte con la mano, forte, picchiò forte la fronte contro il vetro e disse “cazzo”, imprecò, “sono a New York senza macchina fotografica, sono a New York e non ho la macchina fotografica.” Arturo era di nuovo al volante, sereno e sorridente, e gli disse che non importava, “poco male” disse, perché tanto era tutto un sogno. E Davide lo guardò e si svegliò. “Devo prendere appunti, ricordarmi tutto” disse, e si riaddormentò.

 

Si svegliò un’altra volta che era buio e nella casa di Giorgio non c’era nessuno. “C’è nessuno” disse camminando per le stanze, per i corridoi, nella cucina, nei bagni, per le scale, su e giù, girando attorno. “Non c’è nessuno” disse in cucina e si sedette, si prese la testa fra le mani, sbadigliò. Non aveva sigarette. La batteria del suo telefono cellulare era scarica. Il suo telefono cellulare era spento, aveva freddo. Aprì armadi, guardò nei cassetti, si vestì con vestiti di Giorgio. Si fece la barba, si mise la cravatta. Si lavò, si profumò. Si servì da bere, Giorgio ancora non tornava, non tornava nessuno, e dal telefono fisso di casa di Giorgio telefonò a Stella, l’unico numero che ricordasse a memoria, telefonò a Stella, la chiamò, le disse che aveva sognato New York, loro due Davide e Stella a New York, e rise nel telefono, ascoltò Stella ridere, si sentì bene. Poi la invitò lì a casa di Giorgio. “Dovrei venire” disse Stella. Davide le disse che non aveva sigarette, le disse di portare le sigarette, le disse che c’era da bere, c’era da mangiare, era una casa molto bella, c’erano molti quadri, molti libri, molte stanze, “vieni presto” le disse, “mi manchi” sussurrò. “Ti penso” disse Stella ridendo. Davide rise e le disse che Giorgio non c’era, le disse che era proprio una bella cosa stare lì nella casa vuota di Giorgio, era una casa bellissima. Stella rise. “Vengo” disse, “arrivo.” Davide le diede l’indirizzo, “vengo in taxi” disse Stella, e Davide si mise a bere, ad aspettare a occhi chiusi.

 

Arrivò e come sempre era bellissima. “Sei bellissimo” disse a Davide e lui sorrise, soffocò uno sbadiglio. “Sei un po’ diversa” disse lui. “Anche tu” disse Stella. “Hai portato le sigarette” chiese Davide. “Certo” disse lei e lo baciò. Poi presero i calici e andarono nella biblioteca, si accomodarono sul divano con tutti i cuscini, i drappi, si spogliarono nudi e risero molto, si divertirono, si tirarono i capelli, sporcarono un po’ in giro, sudarono molto. “Ecco, ti amo” disse Davide alla fine. “Sì” disse Stella. “E allora” chiese Davide. “Sì anch’io ti amo” disse Stella e Davide non poteva dire niente, non aveva niente da dire, non sapeva cosa rispondere, si sentiva come interrogato, come espulso, come se non dovesse essere lì, si sentiva malissimo. “Forse non ti amo” disse allora e Stella rise e anche Davide rise, e Stella disse “no, io non ti amo” e poi stettero zitti, pensarono a qualcosa, “a che pensi” chiese Davide ma nessuno rispose. Stella era uscita dalla stanza, era andata a farsi un caffè. “L’amo” pensò Davide, e sorrise steso sui cuscini macchiati, aspettò, sentì una fitta al cuore, si sentì solo e felice.

 

“C’è il caffè, il caffè, il caffè” cantilenò Stella rientrando nella stanza portando due tazze nere fumanti, portava le tazze camminando snella, completamente nuda, “il caffè il caffè il caffè” canticchiava, stava proprio bene, e Davide rise di gusto, l’abbracciò, restarono vicini, bevvero il caffè, Giorgio ancora non tornava. “Ho freddo” disse poi Stella, e si addormentò. Davide non sapeva cosa fare. Si mosse molto sui cuscini, spostò i cuscini, spostò la testa di Stella, le sue braccia, il suo corpo, Stella continuava a dormire, era molto stanca, non aveva bisogno di niente. Davide si alzò, si rivestì e in piedi guardò Stella che dormiva sui cuscini, tutta scomposta, tutta disordinata, tutti i capelli sparsi ovunque, tutto quel tessuto, quei nastri, il divano di Giorgio, le nappe, i ciuffi, le stoffe, i motivi floreali, le fodere, le federe, tutte quelle cose cominciavano a disgustarlo. Sospirò e chiuse gli occhi, li riaprì e continuò a guardare Stella che dormiva, che respirava, Stella continuava a dormire e Davide restò in piedi fermo a guardarla, continuò a guardarla dormire, Stella continuava a dormire, a respirare, ogni tanto tossiva, soffiava con il naso, ogni tanto spostava una mano, girava la testa, borbottava qualcosa, stava sognando, dormiva così, nuda sui cuscini di Giorgio, in casa di Giorgio, nuda in mezzo a tutto quel tessuto scuro, verde e marrone, quei ricami, quegli accessori, e Davide si inginocchiò sul suo corpo, l’accarezzò, le strinse un seno, si accasciò, le leccò un capezzolo, era duro, era freddo, Stella dormiva al freddo. Davide le accarezzò il corpo che dormiva e andò a trovare una coperta, un plaid, un pezzo di tessuto, e coprì il corpo di Stella, Stella addormentata, la guardò, la coprì, la lasciò lì. Poi si guardò le mani, le dita, fece dei movimenti con le dita, affascinato, quindi uscì dalla stanza, andò nel letto di Giorgio, nella camera grande, andò a dormire altrove.

 

Giorgio tornò e trovò Stella nuda addormentata tra i suoi cuscini. Non le fece niente, la guardò, cercò Davide. Trovò Davide addormentato nel suo letto, nella sua stanza, e non lo svegliò. Lo guardò, tornò da Stella. Stella si stava svegliando. “Ciao” le disse Giorgio e Stella ebbe paura, cercò di sorridere, di coprirsi un po’. Giorgio si sedette a gambe incrociate e accese una sigaretta. Disse: “credevo, non so perché, di essere unico e indivisibile, di essere molto di più di quello che ero, ma chi ero? chi lo sa, ero sperso, disperso, gridavo: sono disperso, nessuno mi sentiva perché non avevo voce, avevo perso la testa e le braccia e senza gambe camminavo veloce sui piedi di qualcun altro e ridevo danzando senza sapere dove sarei arrivato: qui, ma qui dove? chi lo sa, ero spaesato, soldato senza armi né guerra che ripudia quello che accetta e da un inconscio a un altro disegna quadrati con tre lati, ma non si accorge di nulla: io, moralmente accettato da tutti, ferito e inconsapevole di niente, il tutto, le volgarità, farcito di doppi sensi e tavoli di legno, tarme, sbandieravo da un’osteria all’altra il mio disgusto per gli insetti tranne i ragni, amavo i ragni, cercavo i loro buchi, le loro dimensioni, le espressioni colorite della folla ubriaca e i motti di spirito delle grasse ostesse con troppi denti, sudate, che stringevo nelle ultime notti aspettando i primi giorni che sono arrivati e passati, e mi rivedo qui a questo stesso tavolo, senza carta, senza pelle, nudo come un verme e come un verme sorridente a chi? chi lo sa, ero così, per sempre sospeso in un istante che non passava. Passava? chi lo sa. Mi sei apparsa in sogno sorridente coi capelli di un altro colore, una gonna blu e una maglietta a fiori e le scarpe di plastica e mi hai portato in una taverna greca con la porta aperta, in una stanza stinta senza vasi di fiori e sul letto hai riso e ti ho detto che volevo portarti nel deserto e fare l’amore sulle dune rosse e tu hai detto che schifo e mi hai baciato e ti ho spogliata e toccata e ho tirato fuori il pene ma un cameriere baffuto e nero ci ha interrotto e io ho detto: chiudiamo la porta. Ma non si poteva, quelle erano le regole, che importa, il sogno stava finendo e già eravamo scomparsi.” E Stella lo guardò, rapita e innamorata, dimentica di tutto, ricadde sui cuscini a occhi chiusi, a bocca aperta, e batté le mani una volta sola. Giorgio allora le andò vicino, la prese per i capelli. “Sì” disse Stella. Giorgio in silenzio allora le tirò su la testa tenendola per i capelli e le diede uno schiaffo. “Sì” disse Stella. Giorgio allora respirando piano la tenne per i capelli e con l’altra mano le toccò tutta la faccia, le toccò le guance, le pizzicò le labbra con le dita e le infilò le dita in bocca, le toccò i denti, le pizzicò la lingua con le dita, le infilò tre dita in bocca e le tenne lì, restò fermo. Poi le tolse le dita dalla bocca e se le guardò, si guardò le dita bagnate, e le diede un altro schiaffo, più forte. “Sì” disse Stella. Giorgio allora le lasciò i capelli, le lasciò ricadere la testa, e si spogliò. “Sì” disse Stella tenendo gli occhi chiusi. “E’ questo che posso fare, posso fare solo questo” disse allora Giorgio, nudo, e prese la mano di Stella e se la mise sul cazzo, su quell’enorme erezione, e la mano di Stella strinse. “Sì” disse Stella. Giorgio allora le mise le mani sulla pancia e le graffiò la pelle, le graffiò la pancia. “Sì” disse Stella. Allora Giorgio si chinò su di lei e le sputò sul corpo, le sputò sul collo, su tutto il corpo, le sputò sulle labbra, e si mise a piangere, piangeva in silenzio, piangeva molto. Stella aprì gli occhi e sorrise. “Vengo” disse al soffitto.

 

Si ritrovarono tutti e tre in cucina, Giorgio Davide e Stella, vestiti di tutto punto, davanti a tre tazze di caffè, nessuno aveva voglia di caffè, nessuno aveva voglia di parlare tranne Davide, che non aveva capito niente, era il più allegro di tutti. “Non ho capito niente” disse allegro, e disse: “voi come state” e Giorgio e Stella lo guardarono, non avevano voglia di parlare, non avevano voglia di bere il caffè. Davide bevve il suo caffè. “Dovremmo partire io e te” gli disse Stella. “Sì” disse Davide sicuro, e sorrise, guardò Giorgio. Giorgio allora non lo guardò più, guardò il tavolo, guardò la sua tazza, accarezzò il tavolo con le mani, era spettinato. “Sei spettinato, sei in disordine” disse Davide. “Sei spettinato” aggiunse Stella, “sei molto bello.” Giorgio rise e fece per alzarsi, urtò la tazza, la rovesciò, ruppe la tazza, rovesciò tutto il caffè che si sparse sul tavolo, gocciolò sul pavimento. Davide e Stella risero. “Dovremmo partire insieme” dissero in coro e poi Davide disse a Giorgio che era caduto, che non valeva più niente. “Sei caduto” gli disse. Stella disse qualcosa a voce bassa, nessuno sentì.

 

“Aspettate un attimo” disse allora Giorgio, “non andatevene subito. Aspettate un attimo, ascoltatemi. Pulisco questo schifo” disse e pulì il caffè, raccolse i cocci. “Hai paura” gli chiese Stella e Giorgio disse di no, non aveva paura, non era nessuno, non contava niente. “Non conto niente” disse e disse: “aspettate un po’, ascoltatemi per un po’, sentite quello che dico, non andate via subito.” Stella allora si alzò e andò nel bagno, andò a sistemarsi, aveva fretta, aveva freddo, non stava mai bene, aveva sempre freddo, stava sempre male, ne aveva sempre una, non le andava mai bene niente, non si lamentava mai, era perfetta. Davide la guardò uscire dalla stanza sorridendo, rasserenato. “E’ molto bella” disse Giorgio. “Non mi freghi” disse Davide. “Hai paura” gli chiese Giorgio e Davide disse di sì, che aveva paura, aveva sempre paura, temeva tutto, non era mai sicuro di niente. “Ti stimo” gli disse Giorgio e Davide rimase impressionato. “Ti avevo giudicato male” disse a Giorgio e si abbracciarono, fecero i falsi, Davide non vedeva l’ora di andarsene. Quando Stella tornò era arrabbiata, era distante, era inquieta. “Allora queste cose” chiese a Giorgio per cortesia. “Oh” fece Giorgio, tranquillizzato, “niente” disse, “ho smesso di fumare, vorrei restare un po’ solo.” Davide lo guardò serio, non aveva capito niente, e afferrò i fianchi di Stella, la strinse, “andiamo” sussurrò amorevole, e Stella guardò Giorgio rabbiosa, non voleva perdonargli niente, voleva fargli del male, “andiamo” ripeté Davide, “andiamo” ansimò, e Stella si sentiva impotente, cercava di fare i suoi calcoli, cercava di risolversi le sue cose, si sentiva trascinata via, impotente, e allora sorrise a Giorgio molto dolce e si piegò a baciarlo sulla bocca e Davide rise, estasiato, e ripeté: “andiamo”, continuava a ripeterlo, e infine loro due, la coppia, Davide e Stella, se ne andarono, uscirono, uscirono fuori al freddo, nevicava. Stella si strinse nel cappotto e si strinse a Davide, felice, pensando a cose oscure, alle sue vendette private, il suo personale futuro, la sua solitudine, le cose che avrebbe fatto da sola, camminarono sul viale gelido, sulle foglie ghiacciate, sulle cose che scricchiolavano, e Stella pensava a Giorgio, era soddisfatta, pensava a lui, a quello che sarebbe successo, se la godeva un mondo. “Andiamo” disse Davide per l’ultima volta e Stella gli sfiorò una guancia con le dita gelate, sorrise, e se ne andarono davvero, sparirono per un po’, si fecero questa cortesia.

 

Ed è giunto il momento di approfondire il personaggio di Giorgio. Giorgio, io lo vedo benissimo. Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti o persone, come si dice. “Quest’ansia” disse Giorgio rimasto solo, “questa non paura.” Pausa. “Non è paura” disse Giorgio rimasto solo, e si mise a riordinare la casa. Pensava a una quantità di cose, vedeva facce di persone mentre sbatteva i tappeti. Era ricco, non aveva problemi. Tranquillo, sprimacciò i cuscini, passò l’aspirapolvere, tirò a lucido la cucina, il bagno. Giorgio, io lo vedo benissimo mentre fa queste cose. Quando ebbe finito fece una telefonata, telefonò a una ragazza, le disse di andarlo a trovare. “Vienimi a trovare” disse Giorgio al telefono, la faccia molto seria, la fronte corrugata. La ragazza parlava nel telefono con un volume di voce molto basso. Giorgiò parlò lentamente, parlò poco, fu molto chiaro. “Vieni tra un’ora” disse Giorgio al telefono, serio, e riattaccò. Dopodiché alzò il riscaldamento al massimo e andò a farsi una doccia, poi si asciugò, si fece la barba, si masturbò davanti allo specchio del lavandino, venne nel lavandino, pulì il lavandino, si lavò il cazzo, si lavò le mani, si lavò i denti, si pettinò, restò nudo. Prese una bottiglia di champagne e due bicchieri di cristallo, molto belli, scintillanti, pulitissimi, e andò in salotto, stappò lo champagne, ne bevve due bicchieri, quindi sprofondò nel divano, così nudo com’era, e aspettò, cominciò a godere, si accese una sigaretta. La ragazza arrivò con ventidue minuti di ritardo. Giorgio andò ad aprire la porta, la lasciò aperta e tornò a sedersi sul divano, nudo, si stava menando il cazzo, ce l’aveva duro, molto grosso, tutto arrossato, e aveva un bel corpo, un bel fisico, era magro, slanciato, abbronzato, era nudo sul suo divano e si menava il cazzo, aspettando che la ragazza salisse, e non pensava a niente. La ragazza salì, la ragazza entrò, era fantastica. Era mora, bellissima, pallida, struccata, con le labbra turgide e gli occhi grandi, grandi occhi scuri, ciglia lunghe, e sorrideva. La ragazza aveva quasi vent’anni e si chiamava Valentina. La ragazza lo vide nudo, vide la sua erezione, lo vide che si menava pigramente il cazzo aspettandola, nudo sul divano, gli guardò il cazzo, lo guardò in faccia, il suo sorriso si allargò, non si scompose, era deliziosa. “Ciao” disse Valentina, “ciao Valentina” disse Giorgio, e Valentina camminò nel soggiorno, rimase in piedi sul tappeto a pochi metri dal divano, di fronte a Giorgio, Giorgio nudo si toccava il cazzo, Valentina lo guardava in faccia, gli sorrideva. Valentina indossava cappotto e scarpe da tennis. Si tolse il cappotto. Sotto aveva un paio di jeans attillati a vita bassa e un maglione di lana a collo alto. Lasciò cadere a terra il cappotto. “Valentina, sei bellissima” le disse Giorgio, “grazie” disse Valentina. Non si scomponeva, era veramente bellissima da guardare, guardare quello che faceva, vederla spogliarsi. Si tolse di tasca un telefono cellulare, lo spense e lo appoggiò sul tavolino. Giorgio si allungò sul tavolino, prese il suo telefono cellulare e lo spense, sorrise a Valentina, Valentina gli sorrise, si tolse le scarpe, si sbottonò i jeans e se li sfilò. Sotto era nuda, completamente depilata. “Ah” disse Giorgio. Si masturbò e venne. Valentina si rivestì, Giorgio si alzò, andò a lavarsi, andò a vestirsi, Valentina mise su della musica, si sistemò i capelli, accese la tv e la mise muta, si sedette sul divano a guardare la tv. Giorgio tornò in salotto, si sedette accanto a Valentina, le accarezzò la testa, le versò lo champagne, brindarono, bevvero. “Allora cosa mi racconti” chiese lei e Giorgio disse “sto bene, come sto, sto bene” e poi parlò seriamente, le raccontò un po’ di cose. “E’ stato qui Davide” le disse “sai, l’amico di Arturo. Lo conosci Arturo? L’amico di Riccardo. Non lo vedo da un pezzo, Riccardo. Arturo l’hai conosciuto? Quello biondo, alto, un bell’uomo. Era alla festa a casa di Filippo. Era alla festa a casa mia, è venuto con Davide a casa mia, Davide io non lo conoscevo, me l’ha presentato Arturo quella sera. Tu non c’eri quella sera? Non eri a casa mia? Te lo ricordi Arturo? Davide l’hai mai visto? E’ un tipo simpatico, un bell’uomo. Sta con un pezzo di fica, una quasi bella come te. Si chiama Stella. Io Stella me la sono fatta. In questi giorni è stato qui Davide con Stella, e una volta c’era solo Stella e io ci ho fatto delle cose. L’ho toccata, abbiamo goduto. Mi ha fatto una sega. Ti diverte che ti dico queste cose, eh? Brava. Tu, Valentina, sei davvero molto bella. Insomma ho graffiato Stella, le ho lasciato dei segni. Stella è ambigua. Non so quanti anni ha, non so da quant’è che sta con Davide. Arturo ultimamente non sta affatto bene. Si isola, vuole stare da solo. E’ incazzato. Non so che cavolo gli passa per la testa. Non parla, non vuole dire niente. Non risponde al telefono, non risponde ai messaggi. La posta elettronica, niente. Gli lascio messaggi in segreteria. Io non lascio mai messaggi in segreteria. Si isola, si sente a disagio, non vuole cazzi, non lo capisco, non so cosa gli è successo. Quel Davide, quel suo amico, è un tipo strano. Con quel pezzo di fica, Stella. Io Stella me la sono fatta diverse volte, qualche anno fa, era molto giovane, era molto più bella. Davide e Arturo si frequentano. Con Davide non ho confidenza. Un po’ mi fa paura, mi mette a disagio. Con quella Stella, quel pezzo di fica. La Stella è ancora una bella fica, ma sta invecchiando. E insomma torno e la trovo nuda sui miei cuscini.” Giorgio si interruppe, stava scivolando nel sonno. “Dormi” gli disse Valentina e Giorgio sorrise, scivolò sul divano, le appoggiò la testa in grembo, “dormi” ripeté Valentina, e accarezzò i capelli di Giorgio, lo guardò addormentarsi.

 

 

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