tre poesie

 

 

 

 

 

 

Inizio. Prima poesia

 

Le labbra, m’hai detto, ed è stata la prima, la terza, la cosa, il punto, il che di cui si parlava, il tuo, l’ultimo, il contratto, la sesta; sono stati i numeri, gli oggetti, i bicchieri, i rossi e i gialli, è stato il finale, il mezzo, il principio, la fine, o il; l’olio, è stato, è stata la punteggiatura, la punta, i punti, i cerchi, i buchi, i fogli di giornale, gli avanzi, i giorni, l’uno, il più e il meno, sono stati, loro, sono stati loro, ecco quello che ti dico, ecco cos’è stato, ecco cos’è, ecco, eccoci, dammi, prendi, vai, vieni, sì, sono state le piastrelle ed è stato il salto, il tuffo, il bruco, il brutto, il bello, il buono, il resto, ieri, è stato ieri, è stato, come si dice, molto bello e non te lo chiedo perché, ecco il perché che è stato, è stato il perché, il perché dello stato, come sto, come stai, come sei, dove vai senza di chi, senza il chiacchiericcio, il mormorìo, il sussurro, il bisbiglio, il borbottìo, le guance e chi scava niente per chi non trova né ma né forse, eccolo il forse che è stato, quello è, quello che è stato; e bastava che fosse solo un po’ più in alto.

 

Seconda poesia

 

“Infimo sozzo bastardo” m’hai detto tu e m’hai spiegato cosa vuol dire “inesauribile”: niente (riferito alla fonte di pezzi brandelli spigoli di altri perimetri che ripeto e ripeto e ripeto e ripeto e ripeto e ripeto e ripeto e ripeto e ripeto e ripeto e ripeto e) rido ridi ridiamo. così uso il resto inteso come quello che manca al mangiare vale a dire il cibo vale a dire la furia ossia il blu, il colore blu del tutto dove si ritorna ma tu scompari e riappari come i piccioni, il davanzale, il cornicione; piccioni non ce n’è uno uguale all’altro o a noi assieme; noi chi, poi, anzi soprattutto. dici invece i nomi delle città, degli stranieri, i vocaboli, i lemmi, il QI, le voci, le gradazioni, e mi usi come una posata, “forchetta” dico io per semplicità e tu: “mestolo” e infine cucini tagli affetti prepari svesti e fai i contrari in tre atti: chiudi apri e riapri e viceversa piangi dal sotto in su, dopo, e quali sono le guance e quali gli occhi sempre che ti interessi (perché “tu sei” dici, e non t’accorgi della bocca che ti resta aperta).

 

Terza poesia. Fine

 

Che avvenga, dico io, che avvenga quel che ha da avvenire, il fischio, che vengano quelli che fischiano, che fischino, il fischio dell’avvenire, che suonino, che si sentano, che si facciano sentire almeno in quattro, alti e bassi e pari e dispari, che si senta il rumore e che ci si liberi, ma anche no, insomma vedi tu, sono paurosamente cosa, niente, non ho attributi o attributi visibili salvo forse ma questo non t’interessa. t’interessano invece lo so, i buchi; io li tappo e ne faccio di nuovi; detti anche fori, cavità, tane, cerchi neri, come in: “dio mio, i cerchi neri!” e ci scivolano le cose dentro nei buchi o saltano fuori dai buchi o aggirano i buchi o arrivano sul fondo del buco o rivestono l’interno del buco o riempiono il buco o cadono nel buco, tutti i buchi sono neri come tutte le cose che ci finiscono dentro, i buchi alcuni li paragonano a occhi altri a cose nel cervello tutti prima o poi sono entrati in un buco o usciti da, o ci restano e fanno i solitari, perché poi alla fine vedi anche al buio.

 

 

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