PREFAZIONE

Bartolomeo Ravenna (1761-1837):

I giorni e l’opera

 

            Può sembrare singolare ma il maggior storico delle vicende di Gallipoli aveva origini familiari non solo fuori dalla città ionica ma addirittura fuori dal Regno.

         Stefano, il padre suo, era nativo infatti “della terra di Lavagna in diocesi di Genova” dove era nato il 12 aprile 1722. Ormai maturo, dopo aver girovagato per commercio e per molti anni “in diverse città e paesi d’Europa, come Livorno, Portergoli, Portolongone, Ferrara, Civitavecchia, lo Schaléa in Calabria, Messina e Napoli” finalmente giunse a Gallipoli nell’estate del 1750, trovando una città nel pieno rigoglio dei traffici portuali che ne avevano fatto uno dei centri costieri più attivi del Mediterraneo.

         Qui si fermò, forse attratto e lusingato dalla proverbiale accoglienza e cortesia riservata dai gallipolini ai forestieri, virtù peraltro segnalata già nel 1513 dall’umanista salentino Antonio de Ferraris, tanto da decidere, dopo pochi mesi appena, di accasarsi sposando la giovane Rosaria Lotti(1). Anche se quella unione non si rivelò fortunata per lui e per la sua sposa che dopo qualche anno, giovanissima, all’età di appena 25 anni, il 24 dicembre 1758, morì senza lasciare prole.

         Non ancora quarantenne e dopo appena due  anni dalla scomparsa di Rosaria, Stefano decise di sposare Maria Crisigiovanni, dell’antica nobiltà gallipolina.

         A quel tempo egli lavorava ancora “nell’ufficio d’assistenza sotto il caricamento dell’olio” al porto di Gallipoli.

         Nel documento dotale, datato 26 aprile 1760, la Crisigiovanni assegnava a sè stessa, ed in presenza del futuro marito, alcuni beni pervenutigli in precedenza dalla zia Lucia e consistenti in “un comprensorio di case in più e diversi membri inferiori e superiori posto nell’abitato di Gallipoli nel luogo detto la Piazza, confinante con le case del signor Domenico barone Piccioli per ponente, con le case del Monte istituito dal quondam Sambiasi di Nardò, con la curte comune per scirocco e piazza pubblica per tramontana(2)”: il luogo cioè, dove a metà del XIX secolo sorgerà da un ammasso informe di immobili, il grandioso neoclassico palazzo Ravenna(3).

         Nel dotario c’era pure una “possessione olivata a Rodogallo... e più, in beni mobili, ori argenti, vesti e crediti(4).

         Il secondo matrimonio fu tutt’altra musica; con le sostanze della consorte e con i proventi del suo “ufficio”, Stefano si provvide gradualmente di un significativo patrimonio. Uno dei primi acquisti - presente sempre la moglie - consiste in un piccolo “giardino con casamenti... nel luogo detto S.Nicola o sia le Migliorie” per 126 ducati(5).

         Da questo matrimonio nasce subito, il 20 settembrte 1761, il primogenito cui venivano imposti i nomi battesimali di Bartolomeo, Nicola, Pasquale e Francesco. Padrini i coniugi napoletani Nicola e Caterina Gambardella(6).

         La coppia ebbe due altri figli, Nicola, nato il  10 dicembre 1763 ed Aurelio il 25 gennaio 1767, che sarà poi parroco sostituto della Cattedrale di Gallipoli(7).

         E’ lo stesso Bartolomeo ad informarci della sua prima educazione ricordando come “preser cura i miei pietosi genitori di farmi educare dai Padri di questo Monastero [dei francescani riformati di S. Francesco d’Assisi a Gallipoli] ... avendo io bevuto i primi semi della mia  educazione in questo Monastero sotto la direzione del benemerito Padre fra Tommaso della Rocca che fu Provinciale” e dove  ebbe  l’opportunità di conoscere altri “ottimi religiosi che ornavano un tal monastero(8).

         In questa “scuola” il Ravenna rimase “per circa dodici anni  serbandone sempre grato ricordo ed orgoglio tanto da indurlo ad annotare nelle Memorie con affetto e “con la maggior compiacenza, che tutti coloro che hanno appreso le lettere e sono stati educati in questo monastero sian tutti riusciti nel loro impiego qualunque(9). Si spiega così non solo la profonda cultura del Ravenna, ampiamente dimostrata dalla stesura delle Memorie, ma anche  la sua altrettanto profonda e intima pietas religiosa.

         Dopo questi studi e morto il padre  il 27 ottobre 1778, si applicò a quelli che lo portarono a rivestire dal 1786 al 1806 la funzione di regio notaro; studi ai quali certamente giovò la sua occupazione di “scrivente” presso Giovanni Presta(10), col quale infatti non mancò di sottolineare i suoi rapporti di “stretto amico” (11) e cui dedicò nelle memorie un’accorata puntigliosa biografia(12).

         La carica di regio notaro fu anche utile alla sua brillante carriera di funzionario pubblico: già prima del del 1788 era stato nominato segretario del brigadiere Pietro Paolo Remon, castellano di Gallipoli, e l’anno successivo fu al servizio di don Oronzo Tafuri dei conti di Wittemberg colonnello degli eserciti di S. Maestà e Comandante delle milizie in provincia di Lecce(13).

         Un documento del 1793 citato dal Liaci ci informa invece della sua funzione di “cancelliere della pro-direzione della Deputazione di Salute” di Gallipoli, ufficio nel quale incontrò spesso il Presta che come medico vi lavorava(14).

         Incarichi tutti questi certamente di fiducia e di prestigio ma che avevano impedito a Bartolomeo Ravenna di allontanarsi da Gallipoli. La prima ed unica occasione, come sembra, fu quella offertagli proprio dal brigadiere Pietro Paolo Remon che, nominato Preside della Provincia di Catanzaro, dovette intraprendere in compagnia del suo “segretario” il lungo viaggio di trasferimento da Gallipoli, iniziato il 2 gennaio 1788.

         Di quel viaggio il Ravenna tenne un minuzioso diario dove annotò quotidianamente tappe, persone, ambienti e  circostanze che,  rimasto  manoscritto, fu in ampio sunto reso noto dal compianto canonico e studioso Vincenzo Liaci, che lo possedeva unitamente a molte carte e documenti relativi alla vicenda umana di Bartolomeo, tra il 1951 ed il 1952, sul quotidiano “Il Popolo”(15) di Roma, riedito nel 1963 su “La Zagaglia” di M. Moscardino. L’edizione integrale ha visto la luce solo nel 1993 pei tipi dell’editrice Salentina.

         Possiamo considerare questo diario di viaggio la prima  prova letteraria di Bartolomeo Ravenna nel quale dimostra già un acuto senso dell’osservazione e una concretezza descrittiva sorprendentemente scevra da toni polemici.

         Qui Ravenna non è mai scontato; spesso è spigliato e brillante anzi vi traspare evidente la lezione illuminista dei grandi signori cosmopoliti avvezzi a percorrere più in lungo che in largo, il “bel paese”.

         Il viaggio che lo portò a Catanzaro agli inizi del 1788 è documentato ulteriormente nel brano registrato nel suo processetto matrimoniale del 1794, anno in cui decide di unirsi in matrimonio con la copertinese Maria Verdesca di Prospero, di professione notaio; e per l’obbligo di verifica della sua condizone di stato libero il parroco della Cattedrale, il dottissimo don Carmine Fontò, rilasciava formale attestato del seguente tenore: “... conosco il magnifico Bartolomeo Ravenna, mio paesano; so benissimo che non ha dato parola  di matrimonio a nessuna donna di questa città, e non è ammogliato e se fusse il contrario lo potrei sapere per certo per essere mio stretto amico”. Aggiungendo inoltre che “a riserba di quattro mesi circa che si appartò da questa città per andare in Napoli e da lì per mare si portò in Catanzaro, è stato sempre in questa città e in detta assenza sono di parere e lo tengo per certo che non ha dato parola di matrimonio o prender moglie  ne’ luoghi ove dimorò, attesa la di lui onestà e probità di vita; so ancora che non ha fatto voto di castità nè di religione, e non è prete, monaco o soldato, come infatti non è stato mai(16).

         L’accenno all’onestà e alla “probità di vita” non erano certo frasi d’occasione ma qualità che ritroveremo in tutta l’umana vicenda del Ravenna, attraversata anche da momenti  di profondo sconforto - non ebbe mai prole - o di contenuta amarezza come in occasione della scomparsa di suo fratello Aurelio verso il quale Bartolomeo riserva proprio nel corso della stesura delle Memorie Istoriche accenti di delicata nostalgia rammentandone la prematura scomparsa avvenuta il 5 marzo 1802 “fra le lagrime di chi lo cosceva” soprattutto nel sottolineare come la sua morte avesse “reso insipido e doloroso” il resto dei giorni suoi(17).

         Toccante riflessione scritta in occasione della ricognizione delle “trenta cappelle pubbliche... situate in diversi luoghi e casini” tra cui quella di famiglia sotto il titolo dell’”Immacolata Concezione, S. Francesco di Paola e S. Antonio di Padova speciali protettori della mia famiglia”, edificata il 1809, sulla facciata della quale con il fratello Nicola volle ricordare lo scomparso genitore, la madre, ed il compianto Aurelio.

         La cappella, costruita nel 1809 “nel casino Rodogallo”, faceva parte dei “beni ereditari” della madre, Maria Crisi-giovanni(18).

         Da una disamina della sua produzione notarile, non molto consistente (solo 15 volumi) (19) e che anzi si ridusse col passare degli anni fino a cedere il passo  alle ragioni del commercio e alla conduzione del suo notevolissimo patrimonio immobiliare, si intuisce come il  Ravenne abbia avuto frequentazioni con i personaggi e le famiglie più ragguardevoli di Gallipoli.

         Del Presta, di cui si è già detto, risulta un interessantissimo atto del 19 maggio 1787 nel quale l’insigne medico e agronomo esprime tutta la sua contrarietà nei confronti di mastro Angelo Mazzafara di Muro che ancora, trascorsi due anni dalla richiesta, non gli aveva consegnato “alcuni pezzi di trappeto alla genovese  necessari per attivare il frantoio oleario appositamente fatto costruire a piano terra del proprio palazzo di Gallipoli in S.Giorgio delli Venneri(20) (attuale via Presta).

         Come notaio Ravenna rogò prevalentemente per i Massa, i Rocci Cerasoli e i marchesi Palmieri. Per conto di Giuseppe e Tommaso Palmieri stese nel 1791 l’atto di cessione a Nicola Massa dell’altare della “Purificazione di Maria Vergine o sia della Candelora” in S. Francesco d’Assisi(21). Un’attività comunque, questa del Ravenna,  che andò gradatamente scemando tanto che tra il 1796 ed 1800 risultano rogati pochissimi atti.

         Le  insurrezioni  giacobine del  1799 che ebbero  pesantissimi  riflessi in città e coinvolsero i componenti delle famiglie più rappresentative di Gallipoli, non lasciarono indenne neppure il “moderato” Bartolomeo Ravenna che la sera del 10 agosto insieme a più di cinquanta altri concittadini, tra cui Filippo Briganti, fu prelevato dalla propria abitazione dalla folla tumultuante e rinchiuso, come ne scrisse il Massa, “nelle più buie ed insalubri prigioni del castello(22) restandone cinquantaquattro lunghi giorni, prima che il colonnello Marseglia, giunto a Gallipoli con un reggimento di soldati, emanasse l’ordine di scarcerazione di tutti i reclusi, il 3 ottobre successivo.

         Ma nelle Memorie il ricordo di questi avvenimenti, che furono momenti di grande sofferenza anche per lui, è relegato - quasi una sorta di rimozione - in una breve e concisa annotazione: “fu nel 1799 che, occupato il Regno dai francesi, si risentirono delle rivolte in generale, e la nostra città non ne fu esente in tutto. Ogni disturbo si acchetò col ritorno di Ferdinando dalla Sicilia. Si ristabilì la pace, ancorchè presidiata la Provincia dai francesi, che in gran numero furono destinati in Gallipoli, ed infine venne evacuata(23).

         I sentimenti filoborbonici ed antifrancesi così come traspaiono dalle Memorie risultano tuttavia intimamente dipendenti da ragioni di commercio e di economia più che ideali e politiche. 

                   E di re Ferdinando I che fu “compianto con amare lagrime da’ suoi amantissimi sudditi” il Ravenna lascia scritto

che “battendo le orme del suo gran Genitore fece nuotare il Regno nell’abbondanza, e nella felicità sino all’epoca del 1798”.  Aggiungendo che “la nostra Gallipoli, che riconosce principalmente la sua floridezza dalla facilitazione del commercio, non si vide mai in uno stato di maggiore prosperità. Era divenuta l’emporio degli olj, ed erasi resa vieppiù famosa e rinomata in tutte le piazze oltramontane(24).

         La sua carriera di notaio si interrompe con la nuova occupazione francese del Regno che per il Ravenna coincide, anzi è causa della grave decadenza del commercio “che poi nel 1807 rimase intieramente inceppato e distrutto(25).

         Abbandonate quindi le pandette, Bartolomeo si dedica interamente al commercio e, superati momenti di grave difficoltà proprio negli anni dell’occupazione francese, accumula uno dei patrimoni familiari più consistenti della Gallipoli dell’epoca. Acquista  infatti immobili ed unità fondiarie  anche in territorio di Lecce, comprando gli “ex feudi di Sant’Elia, Vermigliano e Palombaro” dagli ex feudatari Bozzi Corso e Granafei(26), la masseria Molino e l’altra in contrada Chiusa e Badia a Cutrofiano dove, il 1833, costruisce un nuovo trappeto(27). Sempre a Cutrofiano aveva acquistato la masseria Mariocore mentre a Parabita possedeva un’estesa proprietà in contrada Macchia.

         In Gallipoli acquisisce immobili e casamenti, magazzini e botteghe, la casa del barone Piccioli e quella di Giovanni Presta, la masseria di S. Salvadore e quella dei Grumesi. In contrada Crocefisso acquista un grosso appezzamento di terreno con 282 alberi di olivo, casamenti e trappeto(28). Possedeva  inoltre diversi trappeti e magazzini per il deposito di olio. Una immensa ricchezza  insomma costruita sulla produzione e sul  commercio dell’olio d’oliva(29).

         Gli è sempre accanto la moglie Maria Teresa che, come scrisse il Castiglione, “alle commerciali speculazioni del marito alacremente associandosi... con essolui  gareggiava d’ingegno, d’ardire e di zelo, e tanto sagace nel prevedere mostrossi che giammai fallì impresa da lei consigliata(30).

         La sontuosa pubblicazione, il 1836, delle Memorie Istoriche, alle quali attendeva almeno dal 1813(31), ma per le quali aveva raccolto documenti e materiali dai “primi anni” della sua gioventù(32), sembra infine coronare il sogno di una intera vita.  

         Appena un anno dopo infatti, il 31 agosto 1837 “sano di corpo e di mente” stende il proprio testamento olografo(33) istituendo erede universale il suo “amato fratello  germano Don Nicola” al quale  affida la sua “dilettissima ed affezionatissima  consorte Donna Maria Teresa Verdesca figlia del fu Don Placido” dichiarandosi certo che essa avrebbe continuato “a portare l’economia della famiglia in quel modo istesso che ha fatto per l’addietro”. Nello stesso testamente dispone un legato a favore del Capitolo di Gallipoli della “somma di docati 12.000 da darseli in contanti dal mio erede fra l’anno di mia morte” con l’obbligo della celebrazione di un numero sorprendente di messe, com’era nel costume del tempo, preferibilmente “negli altari di Santa Maria del Popolo o sia del Soccorso ed  in quello della Protettrice Sant’Agata” in Cattedrale. Istituisce inoltre un annuo “sorteggio di un’orfana povera col maritaggio di docati 20”, gratifica parenti ed amici, perfino il suo “avvocato e patrocinatore di Lecce”.

         L’ultimo pensiero va poi ai poveri di Gallipoli con obbligo all’erede di “dispensare... la somma di ducati mille al primo anno ed altri mille al secondo anno... rimettendo l’adempimento di tale opera pia alla sua coscienza”.

         I poveri d’altronde, ma non solo per dar credito alle parole di Giuseppe Castiglione, “furono per l’anima sua generosa cura assidua e pensiero santissimo” giacchè la sua casa sempre “fu gremita di sventurati, che sempre vi rinvennero un pane per imbandire il desco dell’infelice famigliuola... per suo ordine faceansi larghe distribuzioni di letti, di vesti, di denaro, di grano, di civaie, specialmente in quei giorni consacrati dai credenti alla pia rimembranza di solenni

ed augusti misteri(34).

         La data del testamento olografo è, come anticipato, del 24 luglio ma appena pochi giorni dopo, l’undici agosto, compra, sicuramente per aiutare il venditore, un’abitazione sita in Parabita “nella contrada detta l’anime” per ducati 104 con il patto che il venditore avrebbe  continuato ad usare la proprietà venduta e a riscattarla entro il termine stabilito(35).

         Bartolomeo Ravenna cessò di vivere il 31 agosto del 1837 e l’arcade magliese Giacinto Toma(36) lesse sul feretro in Cattedrale un estremo  elogio che, manoscritto,  fu posseduto dal can. Liaci ma di cui sopravvive solo lo scarno frontespizio,  conservato oggi nell’Archivio vescovile di Gallipoli, e che non ebbe mai, a parte le iniziali intenzioni, l’onore delle stampe.

         A Bartolomeo sopravvisse la moglie Maria Teresa scomparsa il 23 marzo 1850, sepolta accanto al marito nel sacello della cappella di Santa Maria del  Soccorso in Cattedrale.

         Anche il fratello ed erede Nicola abbandonò la scena terrena il 26 novembre 1841, senza prole, trasferendo l’intero asse ereditario di Bartolomeo al nipote Giovanni(1812-1870) di Bernardo, discendente dal ramo del fratello di Stefano, Giovanni Bernardo, e coniugato con Clarice Monittola. Ramo da cui hanno origine le attuali note famiglie di Gallipoli e Parabita.

 

* * *

 

         Ma come apparvero agli eruditi salentini fin dal loro apparire le Memorie di Bartolomeo Ravenna? Dal principio furono accolte con molta considerazione, avuto anche riguardo per quanto era disponibile a stampa, allora, su Gallipoli(37).

         Il Castiglione (1804-1866) che per molti versi era assai vicino alla famiglia Ravenna, nella voce su Gallipoli che offrì al Cirelli per il Regno delle Sicilie descritto e illustrato (1853)(38) così annotava: “Bartolomeo Ravenna tratto dall’amor di patria scrisse le Memorie storiche della città di Gallipoli, opera nella quale appalesa fine criterio e vasta erudizione. La memoria di quest’uomo illustre riverità sarà sempre dai gallipolini, non solo per la cennata opera, ma pe’ benefizi infiniti che la sua colossale ricchezza gli permise di largire alla patria”.

         Ma queste benevole opinioni erano destinate a mutare nel volgere di qualche decennio sotto l’analisi della nuova scuola di eruditi salentini, vigorosissima negli anni successivi all’unificazione nazionale.  Il De Simone, che diede notizia nel  1888 delle edite “Monografie storiche” dei luoghi del Salento, si sofferma sulle Memorie del Ravenna solo citando, invece, i testi, editi tra il 1836 ed il 1877, del Franza (1836), del Maisen (1870), di Francesco Massa (1877) e Giuseppe Castiglione (1853). Ciò anche perchè in premessa aveva preavvertito il lettore dell’opportunità di soffermarsi su quelle “che giudicheremo più importanti, o che hanno dato occasione a polemiche(39).

         Così pertanto esordisce: “Vi sono 6 tavole incise in rame; il libro è fuori commercio. L’opera fu esaminata manoscritta dal Macrì...; edita fu giudicata dal ch. erudito Michele Tafuri, con queste parole “non contiene di nuovo che qualche errore. In tali materie bisogna svolgere gli archivi, e pubblicar documenti, altrimenti si rende vano il lavoro” (Lettera a G. B. de Tomasi, 27 Dec. 1837, appresso un dotto raccoglitore di documenti storici di T. d’O.). Nel Ravenna è una bibliografia completa degli scrittori della “storia gallipolina”. A proposito de’ quali osserviamo, che i diarj di Lucio Cardami, pubblicati la prima volta da Gio. Bernardino Tafuri nel Tomo III, Parte I della sua storia degli scrittori del Regno di Napoli... quasi certamente sono falsi: e probabilmente lo autore di essi non esistette mai(40).

                   Fin qui il De Simone, che aveva  motivo di sottolineare la falsità dei Diari avendone già avanzato dubbi nella Lecce e i suoi monumenti(41). Anche se sarebbe facile oggi osservare che

ai tempi del Ravenna, a parte la rara polemica di Pasquale Ampolo con le Critiche annotazioni di Tafuri alla Cronaca  di Antonello Coniger (1736) tutta tesa a rivedere le bucce al Tafuri, solo alla verifica della critica storiografica i Diari del Cardami ed il suo autore sono stati definitivamente dimostrati falsi(42).

         Il Ravenna aveva solo debitamente e correttamente dato conto delle notizie (biografiche) contenute nell’edizione del Tafuri(43).

         Per quanto riguarda invece i dubbi di Michele Tafuri sull’opera del Ravenna, essi nascevano evidentemente da due atteggiamenti poco meditati: la mancanza di un’analisi attenta dei “modelli storiografici” propri delle Memorie e la carenza di un’indagine sulla struttura interna dell’opera per quello che contiene e non per quello che, secondo il Tafuri, doveva contenere.

         A tal proposito più aderente alla verità è il giudizio che dell’opera del Ravenna dà un altro contemporaneo del De Simone, Emanuele Barba,  che tracciando una breve biografia del suo noto concittadino sottolinea il pregio e le qualità intrinseche delle Memorie osservando: “Le cure assidue e spesso noiose della vita commerciale, come non lo distrassero mai dagli studi letterari, così non riuscirono a spegnere nell’animo suo un vivo e patriottico desiderio, quello che sin da giovinetto egli aveva nutrito, di raccogliere cioè in un’opera sola tutto quanto si era scritto sino ai suoi tempi intorno a Gallipoli... Egli infatti non volle dare una istoria completa della città ma una raccolta di memorie istoriche(44).

         E ritornando ai modelli, è da evidenziare innanzitutto che lo stesso titolo Memorie Istoriche della città di Gallipoli è calco delle non meno note Memorie della città di Galatina date alle stampe dal celebre poligrafo galatinese Baldassarre Papadia a Napoli, per i tipi di Vincenzo Orsini, il 1792.

         Ove ci fossero dubbi è da tenere presente che il Ravenna conosce  le opere del Papadia del quale traccia questo breve giudizio: “il dottor Baldassarre Papadia di Galatina erudito scrittore di opere diverse, e delle vite di alcuni letterati salentini è stato il primo che, servendo alla precisione, all’eleganza, ed alla saviezza, ha pubblicato la vita dell’immortale nostro Briganti(45).

         Il Papadia aveva strutturato la sua opera in tre parti con un’appendice di documenti(46); il Ravenna in sei “libri” che ad un’analisi maggiore appaiono come una articolazione più in dettaglio delle “tre parti” del Papadia. Infatti quest’ultimo nella prima parte discute “dell’origine e dello stato di Galatina”, mentre il Ravenna, con un potere di sintesi meno accentuato, slarga la medesima narrazione nei primi tre libri giungendo a tratteggiare le vicende storiche fino ai tempi più recenti(47).

         Nel “libro quarto” il Ravenna “descrive la chiesa cattedrale, i monasteri, e le altre chiese e parrocchie della città e territorio”; così aveva fatto il Papadia nella parte seconda: “de’ suoi diversi luoghi pubblici, chiese e monasteri”.

         Il libro sesto offre “notizie sullo stato e vicende delle arti, delle scienze, e degli uomini illustri della città di Gallipoli”; più sinteticamente l’ultima parte dell’opera del Papadia è dedicata agli “uomini letterati di Galatina”.

         E tuttavia se la struttura formale è sostanzialmente simile - si veda ad esempio le differenze con la Colletta istorica del Franza(48) - quella concettuale non poteva essere più diversa; ciò anche e soprattutto per le disparità oggettive delle prospettive.

         Papadia opera in una città infeudata, ed egli come rappresentante del ceto civile sente sulla pelle, e la esprime nella sua opera, una vigorosa polemica antifeudale, dove la condanna dell’abuso baronale porta in secondo piano la polemica anticuriale di matrice illuminista. In Ravenna, nonostante l’affinità cetuale, tutto questo non c’era e non poteva esserci. L’abolizione della feudalità datava ormai un trentennio e, per sua fortuna, Gallipoli era stata sempre una città demaniale dove lo scontro di potere era tutt’interno ai ceti sociali  urbanied era stato chiarissimo alla fine del XVIII secolo: ma di questo il Ravenna non parla; evidentemente la sua posizione sociale e  la immediata collocazione per via materna in una consolidata tradizione di parentele “titolate” lo preservava da polemiche prese di posizione(49).

         Ma più probabilmente egli non credeva che tutto ciò potesse interessare uno come lui, un erudito che, come scrive nella dedica “ai suoi concittadini” con le Memorie ebbe l’intenzione di fare “non già un’istoria, ma una raccolta di Memorie istoriche della nostra città... le quali potranno servire soltanto come di un materiale a qualche più fortunato cittadino, che volesse formarne un’opera con quei lumi e cognizioni, delle quali io son privo(50).

         Con ciò confermando in pieno le considerazioni che avrebbe correttamente scritto Emanuele Barba(51).

         Ma quel “fortunato cittadino” auspicato dal Ravenna purtroppo non si è fatto avanti e le sue Memorie rappresentano ancora lo strumento principale per chi si accosti ancora oggi alla storia di Gallipoli come, per fare un esempio recente, nel profilo storico-urbanistico predisposto da Saladini nell’einaudiana Storia dell’arte italiana(52).

         E se è vero, come sembra aver voluto dire il Tafuri, che nel Ravenna c’e un disinteresse di fondo per i problemi diplomatici e paleografici, è ancor più vero che lo scrittore gallipolino condivide questa sua condizione con la gran parte non solo degli storici precedenti (dal Ferrari al Tasselli, al De Angelis, all’Arcudi e al da Lama) ma anche, in maniera più contenuta, di quelli posteriori a lui: che rappresenta poi uno dei ritardi storici della storiografia salentina.

         Se, dunque, nelle Memorie del Ravenna non c’è traccia di problematicità, sono pur veri alcuni aspetti fondamentali che in un certo senso costituiscono la “modernità” del Ravenna, nonchè la sua, ancor oggi, affidabilità.

         Guardando al problema delle fonti ci si accorge che il Ravenna è il primo storico ad utilizzare sistematicamente gli archivi cittadini, sia quello civico che quelli della Curia e delle confraternite. Probabilmente nessuno prima di lui ha utilizzato i verbali delle visite pastorali per tratteggiare la storia delle istituzioni ecclesiastiche, confraternite comprese: argomento quest’ultimo che solo nel ‘900 ha trovato un interesse studioso.

         Mai nessuno ha notato che il Ravenna riporta, all’interno della più generale narrazione storica, un elenco quasi completo di privilegi a partire da quello del 1197 dell’imperatore Errico, di conferma di tutte le grazie sovrane precedentemente possedute dalla città, e così fino ai privilegi e grazie concessi dagli aragonesi. Egli cita, è vero il Micetti, che di privilegi e lettere sovrane ne trascrisse una intera collezione, ma là dove i precedenti diaristi furono lacunosi il Ravenna attinge direttamente alle carte dell’archivio comunale, che fino al 1832 non erano state ancora trasferite a Lecce e da qui a Napoli(53).

         D’altra parte, nella medesima Prefazione delle Memorie il Ravenna offre una lunga serie di letterati, autori di memorie storiche, la cui esistenza è stata divulgata grazie alla sua opera: Francesco Camaldari, Filippo Truzza, Camillo De Magistris, Antonello Specolizzi, Ottavio Demetrio, Giacomo Rossi, Quintiliano Cuti, fino alle memorie note ma ancora manoscritte del Roccio, del Micetti, del Patitari.

         Mai per nessun’altro centro salentino fu fatta una ricognizione così puntuale nelle memorie scritte dai patrii letterati.

         Anche la fonte dei suoi riferimenti ad opere a stampa sono di primissima mano. Possiamo farci un’idea della sua ormai mitica libreria che conteneva “presso a settemila volumi” e della quale voleva “in prosieguo pubblicarne l’elenco(54).

         Dall’enorme apparato di note a corredo delle Memorie si potrebbe ricostruire un ideale catalogo nel quale figurerebbero senz’altro G.B.Crispo, Galateo, Plinio, Muratori, Polibio, Mazzocchi, Erodoto, Strabone, Pietro Valeriano, l’Ortelius, Ughelli, Sarnelli, Gio. Giovine, Baronio, Valletta, Guicciardini, Giannone,  ecc. ecc.; e naturalmente tutti i salentini, dal Galateo al Tafuri e ovviamente i concittadini Catalano, Coppola, Musurù, Stradiotti, Presta, Tommaso, Filippo e Domenico Briganti.

         Il gusto tutto erudito della citazione ridondante ci assicura che il Ravenna realmente ebbe nelle mani quei volumi. Anzi possiamo affermare la funzionalità di questi alle Memorie tanto che la formazione di quella biblioteca può essere vista in rapporto strumentale proprio con la stesura dell’opera.

         E se è vero, come egli stesso afferma, che la compilazione delle memorie gli occupò una vita, dai “primi anni della sua gioventù” fino alla maturità, è probabile che la sua “domestica e privata libreria” si sia formata proprio in quegli anni in considerazione del fatto che egli non ha mai ereditato nè dalla moglie, nè tantomeno dal padre, venuto a Gallipoli dalla lontana Genova, un qualche apprezzabile nucleo librario. Memorie e biblioteca furono forse le passioni di una vita.

 

* * *

        

         Il Ravenna fu certo sordo alle sollecitazioni più innovative della cultura storica del suo tempo forse perchè in lui l’esigenza spirituale di dare corpo, leggibile e trasmissibile, alle prestigiose vicende della sua città natale, prevaleva su qualsiasi altro aspetto, compresa la funzione “civile” di questo tipo di storiografia.

         Nonostante ciò, Ravenna racconta la “sua” storia con apparente distacco: egli è un memorialista e non può dare giudizi di merito, non partecipa nè prende parte.

         Lo stesso suo innegabile filoborbonismo è espresso con misura, senza adesione viscerale. Nè per converso recrimina sul fatto che il progetto del Borgo nuovo che avrebbe dato ossigeno alla città e ai suoi abitanti, benchè datato al 1789, ancora al suo tempo “non ha avuto effetto(55).

         Ancora, e questa volta sul piano dei contenuti, una spia significativa del suo atteggiamento mentale si ricava allorquando riporta le opinioni sulle origini di Gallipoli: sono opinioni altrui. Al più egli inclina a credere a questa o a quella e comunque consultando i maggiori specialisti sull’argomento; cosa che dimostra di aver fatto, per suo incarico, Giacinto Toma “dotto... giureconsulto di Maglie” e membro di molte Accademie d’Italia”(56).

         Questo era l’uomo che la lunga e fortunata assiduità negli affari di commercio non aveva inaridito nè reso presuntuoso. Si veda ad esempio con quanta semplicità dichiara di aver assunto dal concittadino Giuseppe Massa “molte delle notizie contenute(57) nel capitolo sulla fontana di Gallipoli. Questo era l’uomo, dunque, che si rispecchia senza infingimenti nello studioso.

         Ma qual’è dunque oggi - al di là della riproposizione di un “classico” della storiografia municipalistica salentina - l’utilità delle Memorie?

         Da quel 1836 la bibliografia su Gallipoli si è arricchita (non sempre purtroppo per qualità e validità di contributi, soprattutto locali) in modo impressionante e, specialmente grazie a studi specialistici molte delle pagine del Ravenna possono essere lette come pura e semplice testimonianza letteraria.

         Ma conserva ancora un’indubbia validità la minuta descrizione di una città ottocentesca con la sua struttura viaria medievale, con i suoi edifici e i suoi traffici; la descrizione di un territorio tra i più fertili della provincia e già proteso verso il futuro con lo sviluppo dei nuclei abitati di Villapicciotti(Alezio) e Sannicola. E non è forse il capitolo XV la più esaustiva illustrazione delle potenzialità produttive di Gallipoli nella prima metà del XIX secolo?

         E lo stesso può dirsi del capitolo successivo dedicato al “commercio” con “l’oliodi ulive [che] ne forma il principale oggetto”.

         Qui non c’è più la storia gloriosa delle istituzioni, ma la storia quotidiana degli uomini, la storia del lavoro - si pensi al lungo passo sulla “maniera colla quale si ricevono e caricano gli olij” - e per quanto si poteva allora, la storia della tecnica (come si fabbricavano le mussoline, i saponi, le botti).

         E’ un’altro dei meriti, forse uno dei più “moderni”, di un’opera che all’umile Ravenna sarebbe dispiaciuto, nella sua semplice umanità, considerare, com’è, ancora insuperata.

 

 

 

NOTE

 

1) Le citazioni sono estrapolate dal Processetto matrimoniale di Stefano Ravenna, datato appunto 1751, conservato nell’Archivio della Curia Vescovile di Gallipoli (ACVG).

2) Archivio di Stato di Lecce (ASL), 40/27, Notaio Piccioli, atto del 26.40.1760.

3) E. PINDINELLI, Architettura civile a Gallipoli, in. Paesi e figure del vecchio Salento (a cura di A. de Bernart), Galatina 1989, vol.III, p.258.

4) Beni pervenuti a Maria Crisigiovanni di Niccolò con testamento della zia Lucia Crisigiovanni rogato da notar Giuseppe Piccioli in data 20.5.1757. Cfr. ASL, 40/27.

5) ASL, 49/27, atto del 14 novembre 1763.

6) Tanto si ricava dai documenti che corredano lo stato libero di Bartolomeo Ravenna del 1794, in ACVG.

7) Cfr. ACVG, Acta patrimonialia del novizio Aurelio Ravenna (1785-1791); costui fu tenuto alla fonte battesimale dai coniugi Nicola Doxi Stracca e Teresa Rocci Cerasoli.

8) B. RAVENNA, Memorie Istoriche, Napoli 1836, p. 357.

9) Ibidem, p.358

10) V. LIACI, Con Bartolomeo Ravenna in viaggio da Gallipoli a Catanzaro (1 gennaio-1 aprile 1788), in “La Zagaglia”, n.18 (1963), p.189.

11) Memorie, cit. p.555.

12) Ibidem, p.555-62

13) Con Bartolomeo Ravenna, cit. p.185.

14) Con Bartolomeo Ravenna, cit. p.189

15) V. LIACI, Un salentino del secolo decimottavo in giro per le regioni del Mezzogiorno, In “Il Popolo”, 11, 25 novembre 1951, 3 gennaio 1952.

16) Cfr. processetto cit. alla nota 1).

17) Memorie cit. p.427.

18) Maria Crisigiovanni muore a Gallipoli il 25.4.1814  all’età di 79 anni e viene sepolta nel sepolcro di famiglia in S.Agata. Per questi beni dotali cfr. nota 4)

19) ASL, 40/38, notaio Bartolomeo Ravenna, protocolli dal 1786 al 1806, voll.15.           

20) Cfr. M. CAZZATO-E. PINDINELLI, Dal particolare alla città. Edilizia architettura e urbanistica nell’area gallipolina in età barocca, Alezio 2000, pp.56-8.

21) ASL, 40/38, atto del 3 ottobre 1791.

22) F. MASSA, Avvenimenti di Gallipoli dal 1798 al 1815, Gallipoli tip. Municipale, 1877, pp.60 e 72.

23) Memorie istoriche cit., p.311. Nel tracciare la biografia di Filippo Briganti, il Ravenna fa l’unico riferimento diretto ai fatti del 1799 “anno funesto per il Regno, e pei disordini avvenuti in molte popolazioni” quando “furon condotti nel Castello di Gallipoli da gente rivoltosa molti onesti cittadini, tra i più distinti per natali, e per opulenza”. Cfr. Ibidem, p.569.

24) Ibidem, p.310 e 313-14.

25) Ibidem, p.311; sulla decadenza del commercio oleario da Gallipoli durante il decennio francese cfr. M.A.VISCEGLIA, Commercio e mercato in Terra d’Otranto nella seconda metà del sec. XVIII, Ancona 1975; E.PINDINELLI, Il commercio dell’olio ed ilporto di Gallipoli tra ‘770 e ‘800, in: “L’Uomo e il mare”,

26) La notizia è in ASL, 40/41, atto del 10 novembre 1836, quando dà in affitto i suoi beni compresa la masseria Molino sempre a Lecce.

27) ASL, 40/41, atto del 22 luglio 1836.

28) Notizia in ASL, 40/41, atto del 30 novembre 1836

29) Cfr. ASCG, Catasto 1808, Stati di Sezione.

30) G. CASTIGLIONE, Elogio funebre di Teresa Verdesca-Ravenna, Lecce, tip. F. Del Vecchio 1850, p.13. Su questo raro opuscoletto  del Castiglione cfr. E. PINDINELLI, Giuseppe Castiglione inedito, in “L’Uomo e il mare”, n.23 (1990), pp.21-26.

31) V. LIACI, Con Bartolomeo Ravenna, cit. p.185.

32) Memorie, cit., p.(V)

33) Il testamento olografo del Ravenna fin qui del tutto inedito è negli atti di notar G. Cerbino, ASL, 40/41, anno 1837.n.7 (1986), pp.15-18.

34) G. CASTIGLIONE, Bartolomeo Ravenna, In “Poliorama Pittoresco”,  XI (1846), p.343

35) ASL, 40/41, atto dell’11 agosto 1837.

36) Da smentire è l’errata opinione secondo cui Giacinto Toma dettò le Memorie a Bartolomeo Ravenna e contenuta nel Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto, ad nomen.

37) Praticamente la sola Colletta istorica di L. FRANZA stampata a Napoli proprio il 1836; ma alla data del 1793 erano state ripubblicate le tardo cinquecentesche opere di S. Catalano De origine urbis Callipolis e la Descrizione della città di Gallipoli, ora entrambe riproposte in M.CAZZATO E.PINDINELLI, Dal particolare alla città, cit., pp.159-83.

38) Monografia ristampata per i “Quaderni” di “Nuovi Orientamenti, Gallipoli 1984.

39) L.G.DE SIMONE (Ermanno AAR), Studi storici in Terra d’Otranto, Firenze 1888, p.68.

40) Ibidem, p.72.

41) A p.282 giustamente sospetta dell’autenticità dei Diari del Cardami scrivendo: “credo che G.B.Tafuri avesse raffazzonato i Diari per ottener ragione nelle questioni istorico-cronologiche“.

42) Sulla accertata falsità dei diari del Cardami cfr. per tutti D.MORO, I Martiri di Otranto, il Cardami e Giovan Bernardino Tafuri, in “Sallentum” A. III, n. 3 (1980), pp.45-74.

43) cfr. Memorie, cit. pp.521-23

44) E. BARBA, Scrittori ed uomini insigni di Gallipoli, Gallipoli, tip.gallipolina 1895, pp.50-51.

45) Memorie cit., p.563.

46) Anche il Ravenna aveva corredato le Memorie di un’appendice documentaria che non fu però stampata. Tale appendice risultava nella copia manoscritta consultata da E. Vernole negli anni ‘20 e posseduta dal gallipolino Mosè Cataldi. A margine di questo manoscritto erano anche raffigurati gli stemmi delle principali famiglie di Gallipoli (riprodotti sul cofanetto della presente ristampa), sui quali cfr. E. PINDINELLI, Araldica cittadina, in “Almanacco gallipolino 1997”, pp.2-7.

47) In verità questi tre capitoli risentono di obiettive necessità insite nell’ampia bibliografia disponibile, per esempio sulle congetture tutte speculative sull’origine di Gallipoli e sul sito dell’antica Aletium. Al riguardo il Ravenna sentì la necessità di dar conto delle opinioni di Stefano Catalano verificate alla luce delle opinioni dell’arcidiacono magliese Oronzo Macrì che aveva scritto durante la sua permanenza a Gallipoli, dove insegnò nel Seminario vescovile, una dotta diatriba su Gallipoli binomia sottoposta col titolo di Gallipoli illustrata al vaglio del can. N. M. Cataldi. Quest’opera risulta trascritta dal can. Carmine Fontò, fondatore della biblioteca comunale di Gallipoli, di cui il Cataldi fu direttore a vita, in una miscellanea manoscritta ancor prima della sua pubblicazione avvenuta a Lecce nel 1849 pei tipi di Francesco Del Vecchio.

48) Il modello utilizzato è quello di Antonello Roccio che a metà del XVII secolo compilò le Notizie Memorabili dell’Antichità della fedelissima Città di Gallipoli, rimaste manoscritte, di cui  il Franza estrapolò intere sequenze concettuali e documentarie.

49) Cfr. al riguardo l’esibizione in uno con il ritratto dell’autore dello stemma familiare del Ravenna e la evidente sottolineatura della discendenza per via materna dalla nobile famiglia dei Crisigiovanni sulla quale cfr. la nota (3) di pag. 299 delle Memorie. Il nobile Francesco Crisigiovanni è personaggio centrale del romanzo La Cingallegra pubblicato a Napoli nel 1863 dal Castiglione, del quale sono noti i rappoorti di intima frequentazione con la famiglia Ravenna.

50) Memorie cit., p. VI della dedicatoria.

51) Cfr. nota 44)

52) C.M.SALADINI, Gallipoli, in Storia dell’arte italiana. Inchiesta sui centri minori., vol.VIII, Torino 1980.

53) Per un dettagliato elenco di documenti versati all’Archivio provinciale di Lecce cfr. E. PINDINELLI, Annotazioni per un’edizione critica del “libro rosso” di Gallipoli, in “Nuovi Orientamenti”, n.58, pp.11-14.

54) Memorie cit., p. 560 nota 7)

55) Ibidem, p.39 n.7)

56) Ibidem, p.7 n.15.

57) Ibidem, p. 58.

     

 

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