LE SOLUZIONI ANGOLARI

COME SEGNI DI RICONOSCIMENTO

Una delle evidenze strutturali più significative degli edifici aristocratici risiede nella loro capacità di esprimere con immediatezza lo status del proprio inquilino. E’ dunque alla conformazione esterna, alla proliferazione delle “figure architettoniche e decori” (1) con la loro presenza quasi ossessiva, ai particolari oggi ritenuti insignificanti, che l’aristocratico - o chi in qualche modo ne assimila o emula il modus vivendi - conferisce una significazione simbolica ed emblematica eccezionale: si pensi al portale e all’immancabile impresa araldica che lo sovrasta e lo domina, spesso ribaltata sulla volta dell’androne per “informare” non solo chi vi accede ma anche chi esce dal palazzo (a Gallipoli palazzo Ravenna, Palazzo Palmieri-Venneri ecc.).

Prospettando almeno su due assi viari, l’angolo di un edificio aristocratico verrà pertanto promosso a luogo di una serie di sperimentazioni formali - si pensi alla grande varietà delle colonne angolari dell’architettura barocca leccese (2) - che genericamente sono classificate sotto il moderno concetto di arredo urbano che se ne sottolinea la valenza architettonico-urbanistica, le sfronda tuttavia dei valori semantici originali. Per individuare perciò la ratio di siffatte soluzioni non c’è nulla di meglio che richiamare un documento storico.

Ai primissimi anni del ‘600 a Gallipoli si insedia la famiglia Munittola acquistando, per la propria residenza urbana, uno dei siti più prestigiosi della città(3).  E’ una famiglia di  professionisti e di mercanti che non tarderà a inserirsi in quelle che costituivano il ceto patrizio: “la famiglia di Don Giovanni Munittola si è sempre mantenuta con lustro e decoro, avendo per l’addietro tenuto due mule per uso di galesse. Attualmente si mantiene con una giumenta per uso di sella, con un servidor di livrea e donne di servizio”, recita il già citato documento del 1790(4).

L’anno seguente il “palazzo di propria abitazione, consistente in molti membri soprani e sottani, officine sottane, due magazzeni di olii, magazzino di vino, trappeto e due studietti” è valutato ben 4.400 ducati da Pasquale de Noto e Giovanni De Vittorio; apparteneva indiviso ai fratelli Giovanni, Giuseppe e Michele, clerico, i cui beni furono valutati in 18.600 ducati, suddivisi in 12.900 per “beni di campagna” e 5.700 in “predii urbani”, per quanto su questo rilevante asse ereditario gravavano ben 8.160 ducati di “pesi vari”(5).

Ma qualche anno prima, il 1785 Giovanni Monittola volle che per atto pubblico si attestasse la propria antica nobiltà, ordinando una ricognizione urbana delle proprie imprese di famiglia.

La prima fu rinvenuta nel palazzo della Regia Corte, sotto il ritratto del Sindaco dell’anno 1484, così descritta: “in campo azzurro, sopra di un tronco di albero una fenice che si rinnovella al lume, avendo di rincontro una stella(6); la medesima arma fu rinvenuta scolpita in legno, sull’altare di S.Pietro martire ai domenicani(7).

Successivamente i periti incaricati di questa ricognizione “in un angolo del palazzo medesimo, a man destra del suo portale, nella parte di  fuori, attentamente osservarono e riconobbero su di una colonna che si scorge antichissimamente ivi eretta di pietra carparo, collocato lo stemma medesimo scolpito in detta pietra, coll’istessa sopra menzionata divisa, se non che nell’intutto annerita, con alcuni piccoli incavi cagionati dal tempo antichissimo”. Un’altra insegna era effiggiata “sull’albero di famiglia” situato nell’anticamera del palazzo”(8).

La colonna angolare quindi come perenne testimonianza della nobiltà della famiglia; un segno distintivo di riconoscimento che rimaneva inalterabile nel tempo anche quando l’aristocratico decideva di ristrutturare la propria residenza.

Che questa fosse una pratica collettiva, riservata ovviamente all’aristocrazia, di rendere, cioè, significante lo spazio urbano è confermato dai superstiti esemplari di colonne angolari: quella di palazzo Pirelli(9), proprio di fronte alla Cattedrale dove il posto dello stemma è occupato da una lapidea “palla di catapulta”; l’altra di palazzo de Tomasi in tutto simile a quella dei Munittola, alla quale in tempi imprecisati è stato rimosso lo stemma.

In tutti e tre i casi siamo cronologicamente tra gli ultimi decenni del ‘500 e i primissimi anni del successivo; geometricamente si tratta di una semicolonna addossata alla parete dello spigolo dell’edificio tagliato a 45 gradi.

E’ un accostamento meccanico lontano dalle raffinate soluzioni dell’architettura leccese(10);   è come se l’architetto-scultore abbia voluto soltanto eseguire la volontà dell’aristocratico committente, non volendo o potendo ritagliare per sè nessuna autonomia formale.

Quest’osservazione appare tanto più opportuna ove si consideri che questo segno - a meno di indimostrabili e cancellati episodi - scomparirà nei decenni più significativi del periodo barocco. Semprechè non si vogliano far rientrare in quest’ambito altre e più semplificate soluzioni angolari.

A iniziare da quella, elaboratissima, proposta agli spigoli della facciata della Chiesa del Rosario (1696-1700)(11) realizzata da Valerio Margoleo replicata dallo stesso, dopo qualche anno(1706-1712), nell parrocchiale di Ruffano(12).

Ebbene questa soluzione, ovviamente semplificata, si trova allo spigolo del palazzo del seminario, del palazzo di via Roncella angolo corte Palmieri(13), e del tutto simile, sull’ottocentesco palazzo Ravenna e in quello settecentesco dei Tafuri.,

E’ una soluzione angolare estremamente semplice che consiste praticamente nell’operazione di arrotondamento dello spigolo dell’edificio, utilizzando un quarto di fusto di colonna provvista di base e di capitello dorico.

In definitiva si tratta del conferimento di una qualche  dignità formale alla necessità pratica di  “tagliare” lo spigolo stesso minacciato continuamente dai mezzi di trasporto. Si tenga presente che la stretta e tortuosa viabilità del centro antico di Gal-lipoli, specialmente tra 6 e ‘700, era interessata da un’intensa circolazione legata all’esistenza di numerosi frantoi ipogei connessi al commercio dell’olio d’oliva che costituiva la ricchezza maggiore della città(14).

Una delle poche eccezioni, di gusto chiaramente formale, è costituita da palazzo de Tomasi, con lo spigolo tagliato profondamente che inferiormente non interrompe il massiccio cordone marcapiano, il “taglio”.

Ma ci rendiamo conto che, come nel caso delle colonne angolari, anche quest’altre soluzioni appartengono ad un repertorio ristretto, utilizzato casualmente per finalità pratiche, confermando  nella loro antimonumentalità, una delle caratteristiche dell’architettura civile di Gallipoli.

Una splendida eccezione è costituita dal capitello pensile, sostenuto semplicemente da una carnosa foglia allungata, dello spigolo su via Valentini del settecentesco palazzo Doxi, che in una certa misura riprende l’analogo soggetto della bifora di palazzo Pirelli (di fronte alla Cattedrale), mentre in palazzo Balsamo è impiegato come sostegno dell’ampio arco ribassato, datato 1781, che separa il cinquecentesco androne dall’atrio(15). Ma è altrove che bisogna rintracciare, rimanendo sempre nella serie formale delle soluzioni angolari, elementi architettonici  che possiamo indicare come peculiari della produzione edilizia locale. Uno di questi è sicuramente il balcone o balaustrata angolare. L’esemplare più evidente è costituito dalla torre dell’orologio, del 1747(16); si noti che i balaustrini sono ciechi e non a giorno.

Di fronte, oltre la cattedrale, è il coevo balcone angolare di palazzo Pantaleo la cui struttura, tuttavia, è chiaramente cinquecentesca(17).

Soluzioni del genere sono individuabili  un pò ovunque nel centro antico; segnaliamo lo splendido e noto esemplare in via Piccioli, sostenuto dalle caratteristiche mensole unghiate.

Probabilmente il primo esemplare, tardoquattrocentesco e ora mutilo, è costituito dalla lunga teoria di archetti pensili goticheggianti sorretti da elaborati beccatelli che in origine dovevano costituire la base di un mignano angolare, di via S. Luigi; altri esemplari “resistono” in via Ferrai, corte Briganti, via Alessandrelli, via d’Ospina, via Patitari (palazzo Melodia) ecc.

Quando al  balcone si associa la loggia angolare,  come l’esemplare su via  Alessandrelli, si realizza un  insieme architettonico di grande dignità   formale.

Il  tema della  loggia, introduce un altro capitolo tipico dell’architettura locale. Prendiamo, per capirci. quella sulla facciata principale di palazzo Talamo.

I Talamo erano  una famiglia di ricchi  intermediari d’olii originari di Castellammare,  stabilitisi per ragione di commercio a Gal-lipoli nella prima metà del ‘700(18).

Nonostante i legami allacciati con esponenti dell’aristocrazia locale (Munittola, de To-masi) fu da questa guardata quasi sempree con ostilità; in  quest’ottica bisogna leggere il seguente documento del 1791: Saverio Talamo da poco tempo a questa parte tiene una cameriera francese che si dice esser protestante, che non ode nè di festivi la santa messa e mangia alla stessa tavola con esso Talamo e di lui famiglia...; esso Talamo tiene in moglie Celestina Ferraroli figlia di un mercante... che il di costei fratello tiene in moglie la figlia di un subalterno della Regia Bagliva di Lecce”; per questo e per altro, i membri della sua famiglia “non sono stati riportati per gentiluomini di questa città, tanto nelle pubbliche funzioni d’inviti di chiese, quanto in occasione di feste ed altri inviti nelle case dei nobili padrizi”(19).

Per valutare le differenze tra il ceto di questi pubblici negoziatori equello, in perenne antagonismo per il controllo della città, del patriziato locale, si consideri quest’altro documento coevo.

Il 4 ottobre 1790 Giuseppe Gru-mesi “nobile patri-zio di Gallipoli”, già sindaco della città, nel suo “palazzo d’abitazione sito... nella strada S.Chiara, di fronte al notaio, esibisce l’originale di un privilegio scritto in carta coracea e con sugello pendente” col quale il 1734 si conferisce a Giuseppe Grumesi, suo nonno, la carica di “console della nazione napolitana in Gallipoli(20)

Qualche giorno dopo, a dimostrazione ulteriore dei “simboli” del prestigio della propria famiglia, ordina una ricognizione delle armi di famiglia; la prima è rintracciata nella chiesa dei domenicani, in “un antico sepolcro coverto da lapide marmorea” vicino al pulpito, così descritta: “sul fondo celeste un albero di pigno situato su tre monticelli, in piè del quale una gru che col piede destro tiene una pietra, e sull’albero suddetto vi si vedon più gru svolazzando”, eretto dal quondam Giuseppe Grumesi.

Nella chiesa dei Riformati di S.Francesco d’Assisi l’impresa di famiglia esisteva nell’altare dell’Immacolata lì collocata “molto anticamente”(21).

Il Grumesi abitava proprio di fronte al convento di S.Chiara, sulla via maestra; l’occupazione dei siti più prestigiosi della città è naturalmente una delle prerogative della nobiltà.

A questa caratteristica non poteva sfuggire la famiglia Raymondi la facciata del cui palazzo funzionava proprio da fondale al tratto terminale di questa via maestra, seguendo col proprio sviluppo volumetrico la sua biforcazione, a destra verso i Riformati, a sinistra verso palazzo Briganti.

Ed è a Michele Raymondo “nobile patrizio di questa città di Gallipoli” che in quel fatidico 1790 spetta il compito, contro le pretese del secondo ceto di sottolineare la preminenza della sua famiglia. e per fare questo porta testimoni e notaio nel palazzo della Regia Corte(22) dove nella sala dove sono effiggiati i “sindaci passati”

Qui individua negli anni 1718, 1741, 1742 e 1785 i periodi durante i quali gli esponenti della sua famiglia ed egli stesso (1785) rivestirono la carica di primo cittadino di Gallipoli.

Sotto ogni ritratto lo stemma proprio: “campo bianco con effigiato un mondo su di cui vi esiste una croce,  e per la parte sinistra superiore un sol nascente”.

La stessa insegna che “esso Michele tiene effigiata nella camera ove dorme del suo palazzo di abitazione, inquartato con quello della famiglia Camaldari (“un leone rampante che porta nella man destra una croce nera e la lettera V a detta croce a traverso attaccata, e nella man sinistra si vede un libro appoggiato sul piede destro, tenendosi detto leone all’impiedi col piè sinistro”).

Quest’insegna era impressa sulla legatura di un libro di cuoio, inquartata con quella della famiglia d’Ospina (“un albero di dattilo nello di cui stipite vi sono tre volpi in atto di correre, che ciascuna delle stesse porta in bocca un volpicello”), della famiglia Vincenti (“colonna tonda colorata rossa e nera situata sopra tre monticelli che vien tenuta da due leoni rampanti, ciascun dei quali porta in mano un ramo di palma”) e con quella dei Leuzzi (“un albero di pigno nei lati del quale vi esistono due leoni rampanti, appoggiati allo stipite di detto albero”)(23), tutte queste impree, continua don Michele, furono riscontrate con un disegno “pervenuto dai registri del Tribunale dell’imprese di Napoli(24).

* * *

Ma ritorniamo alla facciata “borghese” di palazzo Talamo. La nota dominante è quella proporzionatissima bifora a giorno la cui colonna centrale si scarica in asse con la chiave del sottostante portale.

E’ un partito architettonico di poco posteriore a quello analogo del chiostro dei Riformati realizzato qualche anno prima del 1597(25), dif-fusissimo nella città antica.

E’ bene precisare, tuttavia, che questa soluzione non deve essere confusa con la loggia, a giorno o meno, ad unica arcata, altro motivo architettonico diffusissimo (facciata secondaria di palazzo Doxi, palazzo del Capitolo, palazzo Pizzarro, palazzo Melodia, edifici in via Galateo, Monacelle ecc.) non solo a Gallipoli ma in tutta l’area salentina.

La bifora che sovrasta in asse il portale sembra invece una “specialità” della città jonica e del suo hinterland. Facendo la tara di trasformazioni e distruzioni, questo motivo che introduce nella cultura architettonica civile locale un embrionale concetto di assiduità, si rintraccia, in forma virtuale, nella bifora settecentesca di palazzo Pirelli, in via Micetti 5 (palazzo adiacente a quello Munittola); in via Monacelle (unico esemplare di bifora, anzi trifora, architravata), nell’atrio di palazzo Palmieri-Venneri, sulla parete di fondo di corte Fon-daco, in via Ospedale vecchio, palazzo Leopizzi-de Ber-nart(26), in via Contarini (l’arco inferiore è stato completamente occluso), in via Celso, superbo esemplare di casa torre con la bifora perfettamente in asse col portale catalano-durazzesco; altro esemplare è quello in via Presta, al civico 7.

L’elenco ovviamente non termina qui e se in qualche esempio (palazzo Leopizzi) l’assialità di cui sopra non è stata perfettamente conseguita, ciò è da addebitare ai diversi tempi di esecuzione dei singoli edifici e dagli inevitabili condizionamenti delle preesistenze.

* * *

Gran parte degli elementi architettonici fin qui individuati e classificati come peculiari della produzione architettonica locale hanno avuto un campo di applicazione cronologica assai vasto - almeno due/tre secoli - e sono stati appannaggio quasi esclusivo dell’edilizia civile “minore” o “borghese”. In quella aristocratica, invece, si ravvisa una maggiore propensione all’accoglimento di forme alla moda, scartando quelle ritenute perciò obsolete.

Il palazzo aristocratico con la sua collocazione non soltanto gerarchizza lo spazio urbano introducendo “qualità e respiro all’interno della fitta trama urbana(27), ma diventa esso stesso un modello formale per tutta l’edilizia civile cittadina e per la prima volta, nella seconda metà del ‘700, anche per quella religiosa.

L’uso delle decorazioni a stucco - sconosciuto nel leccese - tra prima e metà del XVIII secolo sarà. oltrecché un tributo ad una moda già in voga nel secolo precedente a Napoli, uno dei tratti distintivi dell’edilizia aristocratica di Gallipoli. E’ molto probabile che qui i primi stucchi siano stati quelli del 1747 realizzati nell’ultimo ordine della torre dell’orologio da “Giuseppe Centolanze da Nardò, qui accasato”. 

Costui è attivo a Gallipoli almeno fino al 1783 quando dichiara che per la chiesa della Confraternita dell’Immacolata, aveva eseguito anni prima gli stucchi interni, meritandosi così la nomina a “confratello della medesima(28).

A Lecce il 1785 con Francesco Basile, altro “mastro stucchiatore”, realizza gli stucchi della chiesa del Gesù, mentre tre anni dopo dichiara di aver lavorato nello splendido interno della chiesa degli ex agostiniani di  Scorrano(29).

Con una spesa relativamente modesta, lo stucco rende possibile una radicale trasformazione alla moda non solo delle facciate ma anche degli interni; al Centolanze si rivolgono perciò gli aristocratici gallipolini stanchi dell’aspetto delle loro dimore.

Al Centolanze il 1779 si rivolse il barone Francesco Frisulli per il suo palazzo quasi di fronte a S.Chiara per il quale il mastro ideò una semplice decorazione che unifica portale e finestra in un’elegantissima unità architettonica nella quale si perde il significato puramente funzionale dell’arcuato parapioggia(30).

Più significativo e più tardivo è l’impegno per la facciata di palazzo d’Ospina, completamente risemantizzaa secondo i moderni canoni dell’effimero(31).

Gran parte degli elementi decorativi di palazzo Romito (1751-1770) sono in stucco morfologicamente simili, e perciò coevi, a quelli di palazzo Pasca-Raymondi e del portale di palazzo Muzio.

Lo stucco è impiegato nella facciata del Conservatorio di S.Luigi in via C. Battisti(1770 ca.) e anche in palazzo Bonavoglia.

Questo edificio prima del 1797 apparteneva a Francesco Massa “pubblico negoziante d’olio di Napoli” e così, quell’anno, veniva descritto: “palazzo consistente in un cortile, scala scoverta per la quale si sale all’appartamento superiore, piccola loggetta d’affaccio dentro detta curte detta delle Casenuove, con al di sopra una sala a tetto... confina a scirocco con le case dei Tafuri e con quella dei signori Castriota”; quello stesso anno l’acquista Lorenzo Bonavoglia per  ben 2.170 ducati, iniziandone subito la costruzione, affidata al mastro Deodato Longo(32).

 La situazione to-pografica in cui sitrova ha impedito di riconoscere in questo edificio uno degli esiti più significativi dell’architettura locale di fine ‘700; la facciata del lato principale del palazzo, addossata a palazzo Tafuri, è strutturata da quattro assi verticali; su quelli esterni si attesta il motivo portale-finestrone.

Tutta la facciata è articolata in tre settori da alte ed elastiche lesene. Memore forse dell’attiguo palazzo Tafuri, il Longo ha voluto imporre, in questo settore urbano particolarmente articolato, un ordine compositivo basato su una rigida successione degli elementi architettonici quasi sconosciuta per Gallipoli.  Una così sapiente organizzazione della superficie di questa facciata presuppone certo un progetto che difficilmente al Longo si potrà attribuire.

L’ipotesi che questo eccezionale “pezzo” architettonico appartenga ad una personalità ben più significativa come quella dell’architetto gallipolino Vincenzo Ferrarese, per quanto suggestiva, rimane un’ipotesi di lavoro: ma non si dimentichi che il Ferrarese era a Gallipoli nei tragici avvenimenti del 1799(33), proprio il periodo di completamento dell’edificio(33).

Comunque siano andate le cose, è certo che il Longo il 1796 aveva completato il palazzo che Giambattista Moschettini “nobile patrizio di Gallipoli”, il 1794 aveva acquistato dalla famiglia Giuliani  come erede di “donna Veneranda Vasquez d’Acugna” che a sua volta gli era pervenuto dal cantore don Gaetano d’Acugna; questo per 2.000 ducati.

Ma per ricostruirlo il Moschettini ne impiegò altri 1878; l’edificio era situato “nella strada di S.Maria di Costantinopoli” e, tra l’altro, aveva “una loggia con balconata alla prospettiva corrispondente alla strada”.  Ed è un vero peccato che questa loggia sia andata perduta(34).

Nella pubblica piazza (attuale piazza della Repubblica) allargata nel 1558 e rettificata nel 1624 con la costruzione, tra l’altro, di un piccolo portico “per comodità dei cittadini, quando piove o facesse maltempo”(35).

Molto probabilmente sopra questo portico si realizzò l’Archivio delle scritture comunali, ancora funzionante ai tempi del Ravenna, la cui facciata nonostante le manomissioni, è in gran parte decorata a stucco.

1) G. LABROT, Palazzi napoletani. Storie di nobili e cortigiani 1520-1750, Napoli 1993, p.13; dello stesso autore cfr. Etudes napolitaines, villages, palais, collections, Seymel 1993.

2) M. FAGIOLO, V. CAZZATO, Lecce, Roma-Bari, 1984, pp.62-68; sulle c.a. di Copertino cfr. M. CAZZATO, Soluzioni angolari barocchra Copertino, ne “Il bardo”, maggio 1995, p.2

3) E. PINDINELLI, Architettura civile in Gallipoli tra nobiltà e borghesia, cit., p.259: il palazzo sorge ad angolo tra via Micetti e via Fontò.

4) ASL, 40/35, atto dell’8 settembre 1790 cit., f.58t.

5) Cfr. ASL, 40/35, atto del 23 febbraio 1791.

6) A. FOSCARINI, nell’Armerista, Lecce 1927, p.217, al posto della fenice colloca un cardellino.

7) Questo dato conferma che l’altare era di patronato dei Monittola; l’altare stesso è meglio conosciuto sotto il titolo di S.Maria delle Grazie con l’omonima tela che raffigura pure S.Giovanni Evangelista e S.Pietro Martire il cui cartone è stato chiaramente utilizzato per la tela della Madonna col Bambino e i SS.Giovanni Battista e Andrea del Catalano in Cattedrale, in Ricerche sul sei-settecento in Puglia, I, Fasano 1980, p.8, fig.2; la tela dei domenicani è stata recentemente pubblicata in G.Schirosi, La chiesa del Rosario in Gallipoli, Alezio, 1999, p.134.

8) Per tutta questa interessantissima questione cfr. ASL, 40/28, atto del 23 gennaio 1785.

9) E.PINDINELLI, Architettura cit., pp.250-51, anche per l’ipotesi di una funzione pubblica (civico sedile) di una parte (quella su Via De Pace) di Palazzo Pirelli.

10) Cfr. M.CAZZATO, Soluzioni barocche a Copertino, cit., p.21.

11) Civitas Confraternalis cit., pp.76-80 e doc. fotografico.

12) Cfr. M.CAZZATO. A. DE BERNART, Ruffano una chiesa un centro storico, Galatina, 2.a ed. 1997, da p.135.

13) In Vicoli e balconi cit., p.71, dove in base a chissà quale ragionamento - comunque infondato - siffatta soluzione è indicata come “colonna della libertà” (sic).

14) Su questa problematica cfr. E.PINDINELLI, Frantoi ipogei. Commercio e produzione dell’olio d’oliva a Gallipoli, Alezio 1998.

15) E.PINDINELLI, Architettura cit., pp.246-48.

16) Cfr. f.92 del cit. Ms. n.76 della BPL: “nell’anno 1747 a dì primo maggio fu posto l’orologio nuovo della città fatto sotto il sindacato del sig. Vito de Tomasi dal mastro napolitano Francesco Barletta, e ne fu levato il vecchio che sonava con due campane poste in mezzo d. loco. Il nuovo campanile di detto nuovo orologio fu fabricato da mastro Domenico Toma di Copertino qui accasato e stucchiato da mastro Giuseppe Centolanze da Nardò, pure qui accasato; il tutto aspese dell’Università.

17) E. PINDINELLI, Architettura cit., pp254-55.

18) E. PINDINELLI, Architettura cit., p.276.

19) ASL 40/35, Atto del 7 luglio 1791.

20) Il testo di questo privilegio è in ASL, 40/35 atto del 4 ottobre 1790.

21) ASL, 40/35, atto dell’11 ottobre 1790

22) Il palazzo della Regia Corte (ora in Via De Pace attaccato al Museo civico) fu rifatto il 1690 dal mastro Francesco Milanese di Muro Leccese; si chiamava, allora, “casa dei signori Governatori” e attaccava dalla parte posteriore con la chiesa di Sant’Angelo; l’operazione costò 849 ducati (cfr. ASL, 40/13, atto del 10 aprile 1690). Nel 1717 si decise di rifare “la sala della R.C...e per questo dipingersi nel muro d’essa l’insegne seu imprese dell’armi gentilizie delle famiglie dei magnifici, sindaci antepassati... col nome di ciascuno d’essi sotto le di loro imprese et anno della loro amministrazione” (Cfr.ASL, 40/13, atto del 17 giugno 1717). Le armi come risulta dalla seguente dichiarazione, furono eseguite da “Pietro Pacella, Vito Occhilupo e Carmelo Marraffa pittori di Gallipoli...d’ordine del signor Governatore passato”; Sopra ogni arma avevano affrescato “il Gallo stemma dell’istessa città, e sopra il gallo vi giunsero anche la corona”. Quest’ultimo particolare provocò una serie di interessantissime controversie tra le

singole famiglie nobili e l’Università medesima; ma questo è un argomento che meriterebbe un’apposita trattazione.anni 1718, 1741, 1742 e 1785 i periodi durante i quali gli esponenti della sua famiglia ed egli stesso (1785) rivestirono la carica di primo cittadino.

23) Gli stemmi dei sindaci di Gallipoli affrescati nel palazzo della R.C. furono oggetto, a metà del secolo scorso di una descrizione da parte del notaio Vincenzo Dolce, in un manoscritto inedito e conservato grazie ad una trascrizione, forse di mano del can. F. D’Elia, nella Biblioteca comunale di Gallipoli.  Bartolomeo Ravenna fece raffigurare ai margini del manoscritto delle Memorie storiche poi edito nel 1836 ben 35 scudi araldici di altrettante famiglie locali; questi intorno agli anni venti furono ripriodotti manualmente da E.Vernole e sono stati pubblicati a cura di  E.Pindinelli in “Almanacco Gallipolino 1997”, Alezio, 1996. pp.2-7. Alcuni stemmi del manoscritto Dolce (Patitari, Sillavi, Specolizzi) sono stati pubblicati da V.Vinci-M.Nocera, nel saggio Raffigurazioni dsell’assedio del 1484 negli stemmi araldici dei sindaci gallipolitani descritti da Vincenzo Dolce, in “Atti del Convegno nazionale su la presa di Gallipoli del 1484 ed i rapporti tra Venezia e Terra d’Otranto”, Bari 1986, pp.119-129. E’ appena il caso di notare che dello splendido manoscritto del Dolce è necessaria un’edizione critica.

24) ASL, 40/35, atto del 26 settembre 1790.

25) Cfr. B.F.PERRONE, I conventi della serafica riforma di S.Nicolò in Puglia (1590-1835), II, Galatina 1981, p.15, figg.1-2.

26) I Leopizzi ricchi commercianti ebbero questo palazzo almeno per tutto il XVIII secolo; questa che segue è una descrizione del 1791: “appartamento di case consistente in camera con cantina, due camere lamiate sotto e pozzo; metà di scala e sala, cucina e camino superiormente lamiate... siti alla strada detta dell’Ospedale vecchio... vicino le case dei fratelli Nicolò e Bonaventura Occhilupo, Cfr.ASL, 40/35, atto del 7 aprile 1791, quando l’immobile apparteneva a Giuseppe Leopizzi.

27) G.LABROT, Palazzi cit., p.39.

28) ASL, 40/36, atto del 6 luglio 1783.

29) ASL 92/5 , atto del 7 luglio 1788: “Giuseppe Centolanze capo mastro stuccatore della città  di Gallipoli”.

30) ASL, 40/31, atto del 13 settembre 1779; anche il Frisulli, il 1792 è costretto a dimostrare i segni della propria nobiltà: nella chiesa dei Paolotti indica la cappella di famiglia datata 1725 con le insegne sotto “il quadro della Vergine di Pozzano”; un’altra impresa è rinvenuta nel “casino di campagna” e nella solita “sala ove si convoca il pubblico parlamento”; cfr. ASL, 40/35, atto del 20 giugno 1792.

31) L’esplosione, anche architettonica, del fenomeno dell’effimero è stato trattato in Civitas confraternalis cit., p.60 e sgg.

32) Sui Massa e sulla vendita di questo palazzo Cfr. ASL,40/27, atti del primo, del 14 e del 20 ottobre 1797.

33) Su questo trascurato ma importantissimo personaggio cfr. M.CAZZATO, Settecento inedito tra Napoli e Salento, in “Bollettino storico di Terra d’Otranto”, 7, 1997, pp.11-19.

34) Per tutta la questione cfr. ASL, 40/33, atto del 26 agosto 1796; la strada conserva ancora la denominazione settecentesca.

35) G.COSI, Il notaio cit. pp.106-7; B. RAVENNA, Memorie cit., pp.40-41; inoltre C.M.SALADINI, Gallipoli cit., p.357 e il Franza, tutavia che nella sua Colletta istorica cit., pp.101-2, a darci  maggiori ragguagli su questo edificio che faceva parte dell’isoa di  Stefano che aveva, come ha “la figura d’un quadrilatero irregolare” di proprietà pubblica, tant’è che ai quattro angoli c’erano “gli stemmi della città” (ora scomparsi”; ai suoi tempi di pubblico rimaneva soltanto un’ambiente a primo piano, con una lunga balconata che sporgeva sulla piazza con “una grande impresa della città a stucco colorato a fresco”; che è l’archivio di cui parla il Ravenna e più dettagliatamente F.D’ELIA, l’archivio antico di Gallipoli, in “Spartaco”, 1899, n.475

 

 

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